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Patrik Jones e il Codice dell'Universo
Patrik Jones e il Codice dell'Universo
Patrik Jones e il Codice dell'Universo
E-book477 pagine6 ore

Patrik Jones e il Codice dell'Universo

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Info su questo ebook

1843, una enorme esplosione devasta la stella Eta Carinae generando una Supernova, ma, inspiegabilmente ancora oggi, sopravvive all’evento (Eta Carinae – Wikipedia).
Da quel momento la popolazione del pianeta Terra  comincia ad aumentare in modo esponenziale.
Se è vero che gli uomini hanno un’anima immortale, perchè aumentiamo? Da dove provengono tutte le anime che stanno affollando il nostro Pianeta?
Se l’Universo è un equilibrio, a scapito di quale mondo noi siamo sempre di più?
Dopo quasi 200 anni da quell'evento, una nave aliena atterra come se niente fosse nel bel mezzo della Baviera seminando il panico.
Stanno cercando Patrik Jones.
Il ragazzo terrestre deve affrontare la prova su Kentaura per diventare un Guardiano del Codice, anche lui come altri nei 21 pianeti che ospitano la vita nella galassia.
Solo i Guardiani possono riportare l’equilibrio.
Insieme all’amico Marco, rapito accidentalmente assieme a lui, dovrà combattere per difendere la sua vita, perché il Codice lo ha scelto e perché lui ha qualcosa di speciale che tutti vogliono...

Capitolo 2:   Patrik Jones e gli ammutinati di Falaia
Instagram :   robertkleinstone
 
LinguaItaliano
Data di uscita28 dic 2017
ISBN9788827542354
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    Anteprima del libro

    Patrik Jones e il Codice dell'Universo - Robert S. Kleinstone

    Patrik Jones

    e il Codice dell’universo

    Robert S. Kleinstone

    Passiamo sulla Terra,

    invecchiamo e muoriamo, mentre lei,

    trasformata e ferita dal nostro passaggio,

    continua a vivere dopo di noi.

    Ma se fosse lei ad invecchiare?

    Se toccasse a lei essere triste spettatrice del proprio declino,

    mentre la nostra anima rimbalza eterna nell'Universo?

    Siamo nati unici ed ognuno di noi è destinato a salvare il mondo,

    milioni e milioni di mondi,

    fino all'ultimo attimo di luce. . .

    A Patrik Jones,

    che un Universo lo ha salvato davvero.

    Il mio.

    Robert S. Kleinstone

    Via Lattea

    Alleanza Falaiana Alleanza Solaryana Alleanza Arkassiana

    Falaia Solyar        Arkass

    Hailaia Kayleia                  Premi

    Prisma                            Velado        Dikali

    Contrea    Portirya      Orena 3

    Acqua        Vortix          Melai

    Markan

    fiore bn

                  Fuori dal conflitto                           Pianeti neutrali               

                  Terra                                    Kentaura                                   

    Melidia                                    Eta Carinae

    Lune di Salman

    Quando fu catalogata per la prima volta nel 1677 da Edmond Halley, Eta Carinae appariva molto luminosa; tuttavia già nel 1730 gli osservatori avevano annotato che la stella aveva subito un notevole incremento di luminosità, tanto da essere una delle stelle più brillanti della costellazione.  

    Nell’aprile 1843 la stella raggiunse il picco massimo della sua luminosità, quando, nonostante la sua enorme distanza dalla Terra (7000-10000 anni luce), divenne la seconda stella più brillante del cielo dopo Sirio, con una magnitudine di -0,8.

    L’ambiente attorno a Eta Carinae mostra tracce di grandi esplosioni, l’ultima delle quali avvenuta proprio attorno al 1843.

    Il fenomeno è stato definito dagli astrofisici come una falsa supernova: infatti, Eta Carinae ha prodotto in pochi anni una quantità di luce visibile paragonabile a quella irradiata dall’esplosione di una stella, ma è sopravvissuta all’evento.

    Dopo centosettanta anni la causa di questa improvvisa esplosione resta ancora in gran parte ignota.

    (Eta Carinae – Fonte: Wikipedia)

    *

    Attorno alla data del 1835, il numero della popolazione mondiale subisce un incremento esponenziale senza precedenti passando dal miliardo e mezzo a settemiliardi in poco più di centocinquanta anni.

    grafico1

    Prologo

    18 settembre, 12:47

    Elsenfeld, nord della Baviera, Germania.

    La signora Stolz decise che era arrivato il momento di lavare la macchina quella mattina. Non perché fosse maniaca della pulizia dell’auto, tutt’altro.

    Il piccolo Max era morto già da due mesi oramai e proprio non le andava di passare un’altra notte a piangere. Sapeva che ad un Jack-Russel terrier di 17 anni non si poteva chiedere di più, ma era comunque difficile accettare la sua assenza.

    Doveva dare una svolta alle sue giornate, questo era certo, e lavare la macchina sarebbe stato un buon inizio.

    Attraversò di soppiatto il salotto dove il vecchio marito sonnecchiava sul divano, mentre un tizio in Tv cercava di vendergli l’ennesimo tapirulan portatile.

    Aprì la porta senza minimamente sospettare che da lì a poco la sua vita sarebbe cambiata, e non solo la sua…

    In fondo, chi avrebbe mai potuto immaginare che una realtà così piccola poco a sud di Francoforte, dove al massimo si ha a che fare con le feste locali tenute negli organizzatissimi spazi comunali, potesse essere teatro di qualcosa che Hollywood ha già destinato da tempo a città come New York o Los Angeles?

    Eppure proprio lì, sopra la stradina che collega la città al vicino comune di Kleinwallstadt, il cielo sembrò per un attimo squarciarsi in due, come se le possenti mani di Zeus avessero deciso di aprire una breccia dall’alto per dare un’occhiata al mondo sottostante. Un boato fece da overture, non così potente da rompere i vetri di case e negozi, ma abbastanza forte da far suonare l’allarme di qualche auto in sosta e, soprattutto, da catturare l’attenzione di tutti coloro che erano a portata di vista.

    L’enorme massa di ferro e vapore che lentamente cominciò a calare dal cielo fece bloccare tutte le persone con la testa verso l’alto, come se in quell’istante avessero deciso tutti quanti di farsi fotografare in posa dal satellite di GoogleMaps.

    Le auto ferme con le portiere spalancate, sopra il ponte sul fiume Meno, facevano capire a tutti coloro che arrivavano dai paesini di Obernburg e Moemlingen che qualcosa stava accadendo nei dintorni.

    La lenta discesa di quel coso verso terra fece sollevare un leggero vento che diede vita a piccoli vortici polverosi, facendo impazzire le bandiere della Germania e della Baviera disseminate qua e là negli schrebergarten, giardini che il comune mette a disposizione a coloro che hanno desiderio di verde da curare vicino casa.

    Sempre più giù, scortato dalla linea curva degli sguardi che lo accompagnavano verso l’erba, si avvicinava al tratto di radura che divide la strada dai primi alberi di tipica foresta tedesca.

    Un solido irregolare e a tratti squadrato, di colore nero e capace di vincere la gravità terrestre con un rumore appena percettibile…e totalmente privo di luci!

    E alla fine toccò terra.

    La risposta a tutte le domande e le speranze che per millenni avevano ossessionato i popoli della Terra si posò in mezzo all’Europa centrale, un giorno qualunque di settembre, senza che ci fosse nessuna strana congiunzione astrale o predizione di chissà quale natura, ma solo perché era venuto il tempo che ciò accadesse.

    Il vento calò all’improvviso e una calma apparente tornò, come se qualcuno avesse semplicemente messo un nuovo edificio in prossimità del paese.

    Una decina di secondi di silenzio irreale vestirono quel piccolo mondo che si adagia sulle rive del Meno, una cappa di vetro degna del miglior The Truman Show, fino a che la bolla d’aria si ruppe sotto il suono delle Sirene della polizia di Obernburg, mentre il corpo della povera signora Stolz giaceva a terra privo di sensi, accanto al tubo dell’acqua che le innaffiava i piedi.

    18 settembre, 12:50

    Elsenfeld, nord della Baviera, Germania.

    1

    Patrik si svegliò di buon’ora quel giorno.

    Era sabato, la scuola era ricominciata da poco e quella prima mattina di libertà aveva ancora il sapore delle vacanze estive, troppo breve e preziosa da consumarsi dentro al letto. La sveglia sul comodino segnava le otto e cinquantadue, e la luce da dietro le tendine della finestra prometteva un po’ di sole che poneva fine alle noiose piogge dei giorni precedenti.

    Anche se aveva la decisa intenzione di alzarsi, Patrik si mosse in silenzio, quasi al rallentatore, per non fare il minimo rumore e vincere la sfida con Billo che si scaraventava sul letto non appena lui si svegliava.

    Billo era un labrador di circa cinque anni che sembrava avere un sensore di movimento collegato alle palpebre del suo padrone. Non c’era verso di capire il perché, ma quando lui si svegliava Billo lo sapeva. Solo poche volte Patrik era riuscito a farla franca, ma in quei giorni il cane non stava bene e quindi non valeva. Sembrava che l’animale non andasse d’accordo con le eclissi di sole!

    Un sorriso gli si stampò sulle labbra non appena sentì il galoppo pesante di quel cagnone provenire dal salotto. Si rifugiò sotto le lenzuola, ma il suo muso umido fece breccia da sotto il ginocchio sinistro. Battaglia persa!

    «Ma come accidenti fai?» chiese Patrik cercando di liberarsi dai baci fin troppo umidi del cane. «E fermati grosso maiale, sono in grado di lavarmi la faccia anche da solo, sai?!» e con un balzo scese giù e si infilò le ciabatte in direzione del bagno, seguito dal fedele amico.

    «Ti ho già detto un milione di volte di non salire sul letto, lo sai che poi mamma si arrabbia con me» continuò Patrik, mentre Billo con il muso incuriosito e la coda impazzita osservava il suo padrone fare pipì.

    «Ora mi toccherà levare tutti i peli e nascondere le tracce del tuo assalto». Il tono si fece serio e paternale.

    «Sai benissimo che la tua permanenza in questa casa è costantemente in bilico, e di tutti i tuoi casini rispondo io con la mia pelle!».

    Billo si mise seduto, piegò la testa di lato e abbaiò due volte. Patrik non riuscì a trattenere un sorriso mentre risollevava i pantaloni del pigiama e tirava l’acqua del wc.

    I due erano diventati inseparabili da quando il cane, ancora cucciolo, aveva deciso di dormire sulla bicicletta del ragazzo posata a terra, mentre lui era impegnato in una partita di calcio un sabato di agosto di cinque anni prima. Dopo aver giocato con lui e i suoi amici fino a sera, quel pupazzetto scodinzolante aveva deciso di seguirlo fin sotto casa e da lì era cominciata la battaglia con sua madre per tenerlo.

    Lei aveva cercato per giorni di capire a chi appartenesse.

    L’animale era di razza e poteva essersi perso, ma dopo vari tentativi si era arresa alle sempre più tenaci insistenze del figlio.

    Hansen, il parroco, ci aveva messo la sua dicendole «l’amore misterioso dei cani è un sentimento che ci avvolge e ci accompagna per tutta la loro esistenza, amici fedeli che ascoltano e parlano senza voce; i due si sono scelti, niente di più».

    Il sorriso di suo figlio al suono di quelle parole aveva illuminato l’uscita della chiesa e lui non si era mai sentito così credente come quel giorno!

    Sarebbe comunque stato molto difficile dire di no al ragazzo, vista la situazione. Era cresciuto senza padre e non aveva fratelli, quindi un po’ di compagnia con una madre sempre al lavoro non avrebbe guastato alla sua crescita, ma lei era stata chiara fin dal principio: se Patrik era figlio suo, Billo sarebbe stato figlio di Patrik e la responsabilità di quell’animale così ingombrante dentro settantacinque metri quadrati di casa doveva essere interamente sua.

    *

    Anche il sabato mattina la mamma lavorava e lui si ritrovava quasi sempre solo a cominciare la giornata.

    Non erano più necessari i vari post-it lasciati in giro per ricordare al figlio le cose da fare. Oramai, dall’alto dei suoi diciottoanni, Patrik si sentiva l’uomo di casa e per dimostrarlo si cimentava alle volte in piccoli lavori domestici con discreti risultati che la madre faceva fatica ad ammettere, forse per paura che lui cercasse di strafare.

    «Per una donna sola, costretta a ricoprire il ruolo di entrambi i genitori, la vita non è facile» gli disse un giorno zio Oliver, fratello di lei, asciugando le lacrime di un suo capriccio, e lui fece finta di capire qualcosa che ogni giorno percepiva sempre di più.

    Preparò come sempre la colazione e accese la radio sul davanzale della cucina. Radio Primavera trasmetteva una canzone straniera, italiana. Il pane prese a tostare accanto alla macchinetta cuoci uova.

    Accese il computer per accedere al suo Facebook. Controllò le e-mail, le probabili formazioni della bundesliga e le previsioni metereologiche del week-end.

    Nessuna notizia di Angelica, constatò tristemente dallo schermo del suo Mac.

    Da un po’ di tempo a quella parte quella ragazza lo stava facendo uscire di testa.

    Angelica era la prova esistente che le fate esistono davvero, hanno lunghi capelli biondi e uno sguardo che fa tremare le gambe. Nonostante frequentasse un’altra scuola ed altre compagnie, Patrik era riuscito a conoscerla grazie ad un amico comune durante una festa clandestina organizzata per strada in occasione di una partita vinta dalla nazionale tedesca.

    Erano usciti un pomeriggio a prendere un gelato. La Gelateria da Olly di Obernburg quel giorno era inondata dal sole e tutto sembrava andare nella giusta direzione, fin quando lui la vide in macchina assieme a un tipo di Aschaffenburg due giorni dopo, e il sogno si era frantumato in un attimo.

    Il suo motorino non poteva certo competere con una Golf nuova di zecca e, come se non bastasse, era fresco di patente e sua madre non era certo disposta in sua assenza a dividere la Opel Corsa con lui.

    Il peggio era che, circa una settimana prima, Patrik le aveva scritto qualcosa di molto simpatico e originale, frutto di almeno due ore di elaborato pensiero, sulla bacheca virtuale di Facebook, e la totale assenza di risposte da parte di lei non lasciava intendere nulla di buono.

    Accidenti alle donne! pensò in quel momento, col gomito sulla scrivania del pc e il mento poggiato sul palmo della mano.

    Il muso di Billo sulla coscia lo riportò sul pianeta Terra ed allora decise di entrare in bagno a finire di prepararsi. Si pettinò i capelli biondo cenere, indossò i jeans, una felpa e le Stan Smith. Prese il guinzaglio e volò giù per le scale col cane e l’iphone.

    *

    La giornata non era affatto male; il blu del cielo era intervallato da banchi isolati di nuvole che si muovevano a velocità sostenuta sopra il cielo di Hofstetten.

    Patrik abitava verso la metà di Raiffeisenstrasse, una strada chiusa e leggermente in collina, dove la quiete e la tranquillità non mancavano mai. Il vicino centro abitato di Elsenfeld, lontano solo quattro chilometri, era sicuramente più attraente per un ragazzo della sua età, ma almeno lì il verde non mancava e Billo sembrava veramente essere a suo agio.

    Intenta a salire in macchina, Teresa, amica della mamma che abitava in prossimità del grande prato, salutò con grandi carezze affettuose il labrador che l’aveva raggiunta scodinzolando.

    Quella mattina era ancora più bella del solito, pensò Patrik.

    I capelli neri scalati le cadevano sulle spalle e i lineamenti regolari facevano da cornice agli occhi verde smeraldo. Il vestito era aderente quel tanto che bastava ad intuire le forme del suo corpo armonioso.

    Teresa aveva appena divorziato, colpa del marito assente e spesso in viaggio, e lui aveva fantasticato spesso su di lei pensandola sola in casa.

    «Ciao Patrik. Chi ti ha buttato giù dal letto di sabato mattina?» domandò sorridendo.

    «Beh no, sono sempre abbastanza mattiniero» rispose lui arrossendo, pensando alla risposta decisamente stupida e banale che la sua mente contorta era stata in grado di creare.

    «Bene!» disse Teresa, accorgendosi un po’ divertita dell’imbarazzo di lui. «È un’ottima qualità per un giovane della tua età. Salutami tanto la mamma e dille che la chiamo stasera».

    Sparì, portata via dalla sua Renault Clio nera che scivolava giù lungo la discesa.

    Arrivati al grande prato sulla collina Patrik si diede un’occhiata in giro.

    Una persona in lontananza era seduta su una panchina isolata a guardare l’orizzonte.

    Solo Lui.

    Decise di levare il guinzaglio al cane che prese a correre vorticosamente come era solito fare. Si mise le cuffie, selezionò Hotel California sull’iPhone e spinse play.

    Lo zio Oliver, rockettaro e chitarrista figlio della musica anni ’70, era responsabile dei gusti musicali di Patrik non esattamente attuali. Quando vieni cullato fin da bambino con Starway to heaven dei Led Zeppelin, qualcosa ti entra in circolo per forza.

    A Patrik piacevano chiaramente anche alcune canzoni del momento, ma la tendenza era vecchio rock, e anche quando gli amici gli davano del vecchio lui non se la prendeva più di tanto. Loro non avrebbero comunque potuto capire il genio che si cela dietro la musica che suo zio amava definire suonata davvero!

    Aveva perfino avuto un piccolo diverbio con Angelica in merito.

    Si ricordava, a malincuore, di aver definito la cantante che lei adorava come una statua di cera con gli ingranaggi regolati da una instabile legge fisica. Si era subito pentito del commento fatto, ma questo non era riuscito a evitare da parte di lei uno sguardo sconcertato per la quanto mai strana similitudine.

    D’altronde era abituato ad essere additato come uno un pochino fuori dal normale. Era molto bravo a scuola (questo tra l’altro era uno dei punti fermi per la permanenza di Billo dentro casa), le materie scientifiche erano il suo forte e ricordava tutto ciò che leggeva con una semplicità paurosa.

    A volte riusciva addirittura a prevedere in anticipo le domande dei professori, o aveva la netta sensazione di conoscere in modo diverso gli argomenti spiegati in classe, ma chiaramente evitava di farlo notare troppo dopo l’episodio accaduto circa sei anni prima.

    *

    Patrik aveva poco meno di dodicianni. Era seduto in classe accanto alla finestra e guardava il cielo, annoiato a morte dalla spiegazione di matematica fin troppo ovvia.

    Quasi senza pensare, come destato da un sogno, girò la testa verso la cattedra e si alzò in piedi con i polpastrelli delle dita posati sul banco, rompendo il silenzio e l’attenzione della classe col rumore della sedia trascinata all’indietro.

    «Patrik?! Puoi per favore spiegarmi perché mai ti sei alzato in piedi?» chiese la professoressa girandosi di scatto e con un’espressione incredula.

    «Beh, ecco…» rispose lui diventando sempre più rosso e con gli sguardi di tutta la classe puntati addosso, «…entra il preside» concluse, abbassando lo sguardo senza più controllare la temperatura del suo viso.

    La signora Meyer guardò la porta chiusa e dopo un paio di secondi di attesa disse: «credo ti sia addormentato ragazzo mio, o magari sei riuscito a rivoluzionare le più semplici regole dello spazio-tempo!?».

    Un fiume di risate rivolte verso Patrik attraversò la classe e lui si sedette amareggiato per la pessima figura.

    «Ok va bene, ora basta. Torniamo ai nostri esercizi» proseguì la non più giovane insegnante, riportando l’ordine e la calma tra gli alunni che commentavano tra di loro l’accaduto per cercare di sottrarre qualche secondo in più alla noiosa lezione.

    Tornato il silenzio, la donna si girò ancora verso la lavagna per continuare a scrivere, ma fu di nuovo interrotta dal suono di una mano che bussava alla porta.

    «Buongiorno ragazzi, buongiorno signora Meyer» disse il preside entrando in classe con in mano dei fogli e gli inseparabili occhiali da vista appesi al collo.

    La professoressa e gli alunni risposero al saluto alzandosi in piedi come di consueto.

    «Comodi ragazzi» replicò lui senza staccare gli occhi dai suoi appunti e portandosi gli occhiali sul naso.

    Tutti si misero a sedere, ma gli sguardi attoniti di circa una ventina di persone erano rivolti verso Patrik che malediceva se stesso per essersi cacciato in quella situazione.

    Passarono cinque, forse dieci secondi e, inspiegabilmente, quasi senza rendersene conto era di nuovo in piedi con gli occhi rivolti verso l’altro lato della classe.

    «Signora Meyer» disse in tono molto serio e risoluto girando lo sguardo in direzione della professoressa, «chiami subito un’ambulanza!».

    «Patrik ti senti male?!» rispose preoccupata lei, posando sulla cattedra la circolare che il preside le aveva mostrato pochi istanti prima.

    «Non è per me, ma la prego…!» continuò lui seccato e impaziente, guardando ancora verso la sua destra. «Chiami subito un’ambulanza!».

    Dopo un attento sguardo verso gli alunni la donna guardò con aria interrogativa il preside, e rivolgendosi a Patrik disse «non capisco cosa…».

    «Le ho detto di chiamare un’ambulanzaaa!».

    Balzò fuori dal banco in direzione della professoressa scansando con forza compagni e tavoli sul suo cammino. Infilò le mani dentro la borsa della donna la quale si bloccò incredula alla vista del ragazzo che componeva il numero delle emergenze col suo telefonino.

    «Smettila adesso ragazzino, o ti…».

    «Aaahh!». Un sussulto attraversò i cuori di tutti.

    Lo strillo di Eva Platz in lacrime, che osservava l’amica Christina sdraiata per terra in preda alle convulsioni epilettiche, spezzò il caos che aveva avvolto la stanza.

    Patrik lasciò il telefono nelle mani della signora Meyer e si diresse verso la ragazza, mentre l’operatore cercava di capire il motivo della chiamata.

    Sapeva come si faceva, l’aveva visto fare in uno di quei reportage pomeridiani di cui la tv tedesca è particolarmente ricca. Fece spazio attorno a lei, la mise su un fianco e usò la sua felpa come cuscino per evitare che si facesse del male, mentre le accarezzava la testa in attesa che smettesse di tremare.

    «Passa subito» sussurrò quasi tra sé e sé con le lacrime agli occhi, stringendole la mano. «Passa subito…».

    Il preside si affiancò a Patrik per assistere la poveretta, mentre la voce dell’insegnante implorava al telefono un mezzo di soccorso il più presto possibile, sotto gli sguardi attoniti di una ventina di scolari.

    Dopo l’accaduto, per giorni aveva dovuto sopportare le occhiate curiose di tutta la scuola e di mezzo paese, mentre le leggende su Patrik l’eroe o Jones il veggente si erano fatte strada con velocità devastante.

    Naturalmente la cosa arrivò anche all’orecchio di Nadine Bauer, sua madre, che volle sapere di più sull’accaduto, il giorno dopo tornata a casa dal lavoro.

    «Non lo so mamma, l’ho semplicemente visto entrare, ma appena mi sono alzato in piedi, beh, come dire…non c’era..» disse Patrik senza staccare gli occhi dalla televisione.

    Non gradiva il discorso.

    «Come sarebbe a dire che non c’era?!» ribatté sua madre.

    «Non c’era, ma dopo è arrivato mamma, te l’hanno detto le tue stupide amiche che dopo è arrivato, vero?!». Il tono era seccato.

    «Quali amiche? Ma che dici?» cercò di calmarlo lei.

    «So benissimo che parlate di me, tutti parlano di me! Ma io non sono strano!» strillò alzandosi in piedi. «E se vuoi proprio saperlo non sono neanche pazzo! È entrato dalla porta come avevo visto io e poi Christina stava per… oh, vai al diavolo!».

    «Patrik, ti prego non fare così». Ma la porta della camera che sbatteva tuonò nella stanza da pranzo e lei preferì lasciare finire il discorso così.

    Nadine sapeva bene che il suo ragazzo aveva qualcosa di particolare, era una cosa che aveva sempre sospettato e temuto. L’episodio di Chicago era ancora protagonista di molte delle sue notti insonni.

    Ancora oggi.

    Ancora, dopo tanti anni.

    *

    Il padre di Patrik, il tenente David Jones, e sua madre si erano conosciuti proprio in Germania quando lui era distaccato nella base militare americana di Babenhausen.

    I due si erano subito innamorati e alla nascita del figlio si erano trasferiti nelle vicinanze di Chicago visto che, dopo l’unificazione delle due Germanie, la base sarebbe stata chiusa a breve.

    A quel tempo Nadine era una bella ragazza con lunghi capelli biondo cenere come quelli del figlio, un viso solare e un sorriso luminoso che David aveva adorato dal primo istante. L’aveva conosciuta una sera dentro una discoteca di Aschaffenburg e non riusciva più a togliersela dalla testa.

    Si era presentato sotto casa sua pochi giorni dopo con la Jeep d’ordinanza, trecentosessantacinquerose rosse e un grosso cappello a tre punte ornato da campanellini sulla testa, dicendole che l’avrebbe amata ogni singolo giorno dell’anno come un pazzo.

    David era alto, moro e con un bel fisico slanciato degno della sua divisa.

    La lunga tradizione militare di famiglia lo aveva portato in Europa con la precisa intenzione di fare una brillante carriera sotto le armi, e lui faceva sempre del suo meglio per riuscire, anche se la mamma italiana gli aveva insegnato a non prendersi mai troppo sul serio.

    Patrik era nato nell’ospedale di Erlenbach, un anno e mezzo dopo l’incontro dei suoi genitori, in un misto di inglese e tedesco che univa due famiglie che non si capivano un granché.

    Fortunatamente queste situazioni, si sa, richiedono poche traduzioni.

    Il trasferimento negli Stati Uniti non era stato poi così drammatico per Nadine. La mamma di suo marito l’aiutava come poteva quando lui era in missione e il fascino di un nuovo mondo, così diverso dal suo, l’attraeva in modo particolare.

    Accadde allora.

    Patrik non aveva ancora compiuto tre anni quando successe qualcosa di così strano da attrarre persino l’attenzione di qualche quotidiano locale.

    Quel giorno il vento sembrava essersi calmato nella Windy city e Nadine approfittò dell’evento per portare il piccolo a passeggio sulle rive del lago Michigan, nei pressi della University of Chicago.

    La temperatura era gradevole e, come di consueto, la riva del lago si era riempita di tanta vita. David era in missione e sarebbe tornato solo da lì a un paio di settimane, quindi, quale occasione migliore per spezzare la monotonia di un inverno freddo, passato tra le mura domestiche, con una bella passeggiata?

    «Vedi Patrik? Quello è il basket» disse al figlioletto guardando dei ragazzi giocare in un campo da gioco pubblico.

    «Dalle nostre parti giocheresti a calcio con i tuoi futuri compagni di classe, ma credo proprio che ti vedrò giocare a qualcosa di simile fra non molto!».

    «Ahaannna!» rispose il figlio di tutto punto e, anche se Nadine non aveva la più pallida idea di cosa avesse voluto dire, gli sorrise, lo abbracciò, si slegò i capelli e ci incastrò sopra gli occhiali da sole, quindi riprese a camminare con lui.

    Nell’arco di pochi secondi nei pressi del pontile, a una ventina di metri di distanza, due signore cominciarono ad urlare e Nadine si accorse subito che una persona, forse un’altra donna, era caduta in acqua. Un ragazzo di colore lì vicino si levò subito le scarpe da ginnastica e la t-shirt e si tuffò per soccorrere la malcapitata. Grazie ad altre persone accorse in aiuto, riuscirono a trarre in salvo la poverina e Nadine, tirato un sospiro di sollievo per la scampata tragedia, allungò la mano per riprendere quella del figlio, ma Patrik non c’era più.

    «Patrik?!» chiamò girando la testa in tutte le direzioni.

    «Patrik…!». Il bambino non c’era.

    «Oddio. Dov’è il mio bambino? Paaatriiik!» si mise a urlare, ma niente.

    Svanito nel nulla.

    «Avete visto un bambino piccolo, biondo?» chiese a una coppia lì vicino mentre il sangue le si gelava sempre più nelle vene. I due la guardarono senza capire.

    «Paaatriiik?!» continuò lei senza nemmeno aspettare una risposta.

    «Aiutooo… Patriiik!» continuava ad urlare sempre più forte in tutte le direzioni.

    Le stesse persone che con l’aria incredula avevano assistito alla caduta in acqua della signora pochi istanti prima, girarono la testa smarrite a osservare una ragazza in lacrime che strillava il nome di qualcuno.

    Pianti, urla e corse disperate su e giù per il lungolago non servirono a nulla. Il bambino era letteralmente scomparso, come portato via dal vento. Polizia, vigili del fuoco e sommozzatori lo cercarono fino a notte inoltrata senza successo. La madre di David e amici di famiglia passarono al setaccio più e più volte il parco, gli ospedali e le strade che circondavano la zona.

    Nulla!

    Come se non bastasse, David era irraggiungibile, impegnato in pieno oceano Atlantico in chissà quale assurda missione, e Nadine passò una notte di angoscia che ne durò mille, piangendo accanto al telefono.

    Patrik venne ritrovato il giorno seguente verso le sette del mattino da una signora in bicicletta, che lo vide tutto solo con le mani appoggiate alla rete del campo da Basket, mentre farfugliava qualcosa del tipo Aaahaanna.

    Nessuna ferita o segno di abuso di alcun genere. Sia il bambino che i suoi vestiti erano in ordine, e a giudicare dalla pulizia del viso sembrava che non avesse neanche pianto.

    La faccenda si risolse con un grande spavento da parte di tutti.

    Un mistero che la polizia non cercò neanche più di tanto di svelare dato che, oramai, il bimbo era salvo e la famiglia Jones non era così facoltosa da far pensare a un riscatto pagato. Rimaneva il grande dubbio. Dove, e soprattutto con chi era stato il piccolo Patrik tutta la notte?!

    Il destino era stato clemente in quel caso, ma non lo sarebbe stato a lungo.

    *

    Le successive ventiquattro ore Nadine le passò attaccata al figlio senza mai perderlo di vista. Erano le nove e trenta del mattino e il piccolo dormiva profondamente. Decise di infilarsi sotto la doccia per provare a riprendere le sembianze di una donna. Con l’accappatoio legato in vita e i capelli dentro l’asciugamano uscì dal bagno per vedere se il bambino dormiva ancora ma, aperta la porta, quello che vide le tolse completamente il respiro.

    Patrik era in piedi sul letto e sorrideva, mentre i suoi pupazzi e alcuni giocattoli gli ruotavano attorno sospesi a mezz’aria, come attaccati ad un filo invisibile.

    «Ma che cosa…?!». La fine della frase le si spezzò in gola quando vide che i piedini di Patrik cominciarono a sollevarsi dal letto.

    Il bambino sorrideva, e appena si accorse della presenza della madre, lei si sentì sollevare da una forza misteriosa che la rese per un attimo più leggera dell’aria e poi…

    Driiiin!

    Il suono del campanello ruppe la magia e tutto cadde giù, come se qualcuno avesse riportato la gravità all’interno dello Space Shuttle.

    Tutti gli oggetti caddero a terra, Patrik atterrò sul materassino e Nadine si ritrovò in piedi a guardarsi in giro come destata da un sogno.

    Driiiin!

    Ancora il campanello, ma il sapore dell’incredibile era ancora troppo vivo in lei per farci caso.

    Driiiin!

    Quest’ultimo suono la riportò in sé.

    Uscì dalla stanza e si diresse verso la porta, ma dopo tre passi si bloccò. Ora che tutti i circuiti cerebrali erano tornati alla realtà tornò in camera, prese Patrik in braccio e andò a vedere chi era.

    Attraversò il corridoio che collega le stanze da letto con il soggiorno, stringendo il figlio a sé come non mai, chiedendosi cosa fosse accaduto un attimo prima. Di qualsiasi cosa si trattasse, promise a se stessa che nessuno avrebbe fatto del male a suo figlio, che solo poche ore prima le era stato ridato indietro in circostanze ancora più strane e misteriose.

    Insieme al marito lo avrebbero protetto, anche se non sapeva ancora come gli avrebbe spiegato le ultime ventiquattro ore.

    «Un attimo solo, ero sotto la doccia!» urlò in modo da essere sentita da chiunque suonasse il campanello. «Arrivo subito».

    Mise il piccolo un attimo sul divano, chiuse bene l’accappatoio, si infilò le pantofole e, ripreso il bimbo in braccio, aprì la porta.

    «La signora Jones?» chiese uno dei due uomini in uniforme che le si presentarono davanti.

    «Sì sono io, mi dica» rispose Nadine con aria interrogativa.

    L’uomo si levò il cappello e lo portò all’altezza dell’addome tenendolo con entrambe le mani, abbassò lo sguardo e disse «signora Jones, mi spiace informarla che suo marito è rimasto vittima di un incidente circa cento miglia a nord dell’Islanda, in pieno oceano Atlantico».

    «Ma come è…?!».

    «L’aereo su cui viaggiava si è inabissato in seguito, crediamo, ad un guasto tecnico. Non ci sono superstiti».

    2

    Tre auto della polizia si fermarono di traverso per chiudere la strada a circa settanta-ottanta metri da quell’oggetto non identificato. Altre erano ferme un po’ più in là a fare da tappo, per evitare che masse di curiosi si avvicinassero più del dovuto.

    Molte persone venivano da ogni dove correndo in direzione del blocco e premendo sulle forze dell’ordine, che combattevano anche con la loro curiosità. Gruppi di ragazzi cominciarono a chiamare a gran voce gli alieni in direzione della nave, mentre i display dei loro smartphone immortalavano l’evento che presto sarebbe diventato social.

    Il capo della polizia locale con quello dei vigili del fuoco, che nel frattempo si era unito al party, confabulavano sul da farsi senza togliere mai lo sguardo dal nuovo ospite del paese, che rimaneva lì, immobile e privo di vita. Un paio di elicotteri dell’esercito atterrarono dall’altra parte della strada mentre altri rimasero in volo nelle vicinanze, sovrastati dalle spirali larghe ad alta quota di aerei dell’aeronautica militare.

    Il colonnello pieno di lustrini sulla divisa, sceso dal primo elicottero, non era certo il tipo alla Bruce Willis che tutti si aspettavano, ma a giudicare dalla camminata e dalle direttive che dava agli altri due che lo seguivano sembrava sapere il fatto suo.

    Raggiunse la prima linea per ascoltare il rapporto della polizia mentre si rendeva conto delle dimensioni del solido adagiato davanti ai suoi occhi.

    «Signori buongiorno. Sono il colonnello Lehmann, chi comanda qui?» chiese senza perdersi troppo in chiacchiere.

    Uno dei poliziotti del vicino comando di Obernburg si avvicinò stringendo la mano al colonnello. «Allora» chiese quest’ultimo, «…mi vuol dire cosa succede qui e cosa è quel coso?».

    «Beh, signore…a dir la verità speravo che me lo dicesse lei…io so solo che quel coso è sceso giù dal cielo all’improvviso e si è posato lì dove vede lei».

    «Segni di vita o di movimento?» chiese ancora il militare.

    «Nulla. Niente di niente. Sta lì fermo già da un quarto d’ora e tutto tace».

    «Ha notato se durante la discesa qualcosa è stato lanciato o ha abbandonato il velivolo?».

    «Ero in ufficio e ho visto solo l’ultima parte della discesa, ma sentendo la gente qui pare proprio di no».

    «Grazie capitano. Bel lavoro. Ora per favore aiutate i miei uomini a tenere lontani i civili. Qui ci pensiamo noi».

    Lehmann fece un cenno con la mano.

    Una

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