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Al lavoro e alla lotta: Storia delle parole del Pci
Al lavoro e alla lotta: Storia delle parole del Pci
Al lavoro e alla lotta: Storia delle parole del Pci
E-book326 pagine5 ore

Al lavoro e alla lotta: Storia delle parole del Pci

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Al lavoro e alla lotta è un particolare glossarietto sul lessico dei comunisti italiani, sul senso delle parole chiave e sul loro uso nella pratica quotidiana di quel partito. Quando il “discorso politico” non si poteva postare in un tweet. Mentre il linguaggio della politica si fa sempre più scarnificato e freddo qui si cerca il senso di parole che ancora potrebbero camminare nel mondo e di altre che al contrario non hanno più la forza per farlo. Spiegando il significato di circa duecento parole – da apparato a vigilanza, passando per frazionismo, gatto selvaggio, legge truffa, rivoluzionario di professione – le autrici provano a rendere l’idea, anche attraverso ricordi personali ed esperienze dirette, di ciò che è stato, nel bene e nel male, il partito comunista “più bello” dell’Europa Occidentale. Accompagnano il glossario dieci interviste a donne e uomini che hanno vissuto quella storia politica, tra cui Luciana Castellina, Gianni Cuperlo, Achille Occhetto, Emanuele Macaluso, Marisa Rodano. Il libro è arricchito dalle prefazioni di Luigi Covatta, Liliana Rampello, Letizia Paolozzi e Mario Tronti.
LinguaItaliano
EditoreHarpo
Data di uscita24 apr 2021
ISBN9788899857585
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    Anteprima del libro

    Al lavoro e alla lotta - Fulvia Bandoli

    Roma

    Block Notes

    Franca Chiaromonte - Fulvia Bandoli

    Al lavoro

    e alla lotta

    Storia delle parole del Pci

    Luigi Covatta

    In realtà quelle elencate da Franca Chiaromonte e Fulvia Bandoli non sono soltanto le parole del Pci. Spirito di servizio, per esempio, è un classico della retorica democristiana, e riforme di struttura è un termine restato fin troppo a lungo nel lessico socialista: almeno fino al 1985, quando - negli anni di Reagan e della Thatcher - Norberto Bobbio ci dimostrò la reversibilità delle riforme dei trent’anni gloriosi e ci insegnò che dove tutti sono riformisti nessuno è riformista.

    Non c’è invece la parola casta: e non c’è nemmeno populismo (che comunque nel lessico del Pci era definito plebeismo, come sa chi ha seguito le vicende della federazione comunista napoletana con gli scritti di Ermanno Rea e di Maria Antonietta Macciocchi). Del resto il Pci fu subito uno dei principali pilastri della Repubblica dei partiti: secondo Gaetano Quagliariello una partitocrazia necessaria, dopo la dissoluzione dello Stato seguita all’8 settembre. Anzi: fu il partito per eccellenza, oggetto dell’invidia dei suoi concorrenti.

    Di Dossetti, per esempio, che - come ha ricordato di recente Paolo Pombeni ( Mondoperaio , gennaio 2021) - già nel 1946 lo individuava come il partito moderno che invece non era la Dc (sottovalutando la complessità del mondo cattolico e la pretesa della gerarchia ecclesiastica di non rinunciare alla propria leadership di ultima istanza). Mentre Franco Fortini, negli anni ’50, interpretava con sintesi poetica la linea di Rodolfo Morandi: "Il Psi è la sede naturale non solo di quegli elementi della classe proletaria e delle classi medie che non possono ancora accettare i termini organizzativo-disciplinari della lotta comunista, ma anche di coloro che non possono più accettare quei termini".

    Il Pci, tuttavia, era un partito irripetibile, perché era il frutto di una geniale operazione politico-culturale condotta da Togliatti al suo rientro in Italia e volta a sfruttare al meglio le risorse di cui disponeva, anche per evitare che alla lunga si trasformassero in handicap.

    La prima era il legame con l’Urss, che nel 1944 era ancora una delle potenze vincitrici, e che del resto era stata ben accolta quando, a gennaio, per prima aveva riconosciuto il governo Badoglio. La seconda era la debolezza di quello stesso governo, che non poteva negarsi ad un reciproco riconoscimento che mettesse il Pci al riparo da emarginazioni future.

    Infine, per garantire il radicamento sociale del partito nuovo, l’opportunità di ereditare una parte di quello che Luciano Cafagna ha definito il lascito fascista. Togliatti sapeva bene, infatti, che il Pnf, benché operasse in un regime totalitario, non era stato un partito di quadri sul modello leninista, ma un’edizione riveduta e corretta dei partiti di integrazione sociale sorti a cavallo fra Ottocento e Novecento: e si guardò bene dal lasciare allo sbando le infrastrutture con cui il fascismo aveva organizzato il consenso nella società civile.

    Come si vede, si trattava di una costruzione molto sofisticata, che probabilmente non sarebbe durata a lungo se non fosse stata protetta dalla campana di vetro della conventio ad excludendum : la quale inibiva al Pci l’accesso al governo nazionale, ma al tempo stesso gli offriva l’opportunità di organizzarsi come rappresentanza della società in tutte le sue pieghe.

    Bene o male il modello funzionò anche nel 1956, quando Togliatti reagì alla secessione giolittiana promuovendo al vertice del partito una nuova generazione di dirigenti che, se non altro per ragioni anagrafiche, non aveva precedenti stalinisti (qualcosa di simile capiterà anche nella seconda metà degli anni ’80): e sopravvisse anche a Togliatti, quando Giancarlo Pajetta dichiarò che con la morte di Togliatti si chiude una fase e non se ne apre nessun’altra.

    Non si aprì neanche nel 1968, e men che meno nei dieci anni che seguirono: durante i quali il Pci funzionò egregiamente come servizio d’ordine dello Stato democratico, ma rinunciò a sfogliare l’album di famiglia per interpretare - e demistificare - le pulsioni ribelliste che animavano il movimento. Anche in questo, del resto, il Pci fu fino in fondo un partito della prima Repubblica, incapace di misurarsi coi tempi nuovi della società italiana: come la Dc, che aveva messo fra parentesi perfino il Concilio; e come il Psi, che scoprì il ’68 solo quando il vecchio Nenni andò a vedere La Cina è vicina di Marco Bellocchio.

    Non è un caso, quindi, che il declino del Pci cominci quando Berlinguer ne teorizza la diversità (termine che per la verità le Autrici trattano un po’ sommariamente): quando cioè si pretende di distinguersi da un sistema di cui non solo si è parte, ma si è uno dei pilastri portanti. Senza dire che - per fare spazio agli onesti con cui vuole formare un governo - con la seconda svolta di Salerno Berlinguer altera gli equilibri interni che per più di trent’anni avevano garantito la convivenza di amministratori locali, quadri di organizzazioni di massa, parlamentari e dirigenti di partito.

    C’è un episodio emblematico che illustra questa nuova condizione: quando, il 18 settembre 1982, il figlio di Maurizio e Marcella Ferrara, capogruppo al Consiglio comunale di Torino, schiaffeggia in piazza l’assessore Giorgio Balmas, un intellettuale rappresentativo della nuova classe dirigente del Pci della diversità. Quel giorno migliaia di palestinesi erano stati massacrati in Libano, nei campi di Sabra e Shatila, e secondo la tradizionale liturgia comunista Giuliano Ferrara chiese di dedicare ai martiri il concerto previsto per la sera a piazza San Carlo. Balmas rifiutò, e fu schiaffeggiato; la federazione del Pci non intervenne, e Giuliano uscì dal partito in cui era cresciuto.

    Fu così che il partito per antonomasia si accodò ai movimenti antipartitocratici che erano riemersi dopo gli anni di piombo: fu allora cioè che persino i comunisti guidati da Achille Occhetto si mostrarono pronti a far propri concetti che sino a qualche anno prima sarebbero a loro stessi apparsi eversivi, come ha scritto Salvatore Lupo ( Partito e antipartito , Rizzoli, 2000). Ed è in questo contesto che la fine del Pci sarebbe stata accompagnata da parole come Cosa 1 e Cosa 2: che, come dicono le Autrici, non sono parole del Pci, perché i comunisti italiani non le avrebbero mai scelte.

    Del resto neanche la Cosa 3 annunciata da Veltroni al Lingotto nel 2007 ha avuto una gran fortuna, se è vero che il Pd sta pensando ora a una Cosa 4 guidata da Giuseppe Conte. Per cui non resta che rifarsi alla saggezza del compianto Emanuele Macaluso: il quale già nel 1997 ci segnalava, con Paolo Franchi, che da Cosa non nasce Cosa, e che le parole del Pci sarebbero rimaste dimenticate nell’afasia degli ultimi suoi dirigenti.

    Letizia Paolozzi

    Le parole di Al lavoro e alla lotta (edito da Harpo nel 2017, che oggi, arricchito, esce in e-book) provocano in chi è stato comunista la sensazione di un ritorno a casa.

    Casa simbolica nella quale ti muovevi a occhi chiusi; sapevi evitare gli ostacoli, trovare l’oggetto d’affezione, scaldarti, rassicurarti, convinto/a di essere dalla parte giusta: degli operai, dei lavoratori, dei contadini e pure della questione giovanile, femminile, meridionale.

    Le due autrici ricostruiscono quel luogo, anzi, meglio, quel paesaggio attraverso 189 termini dimenticati, abbandonati, ma parlati e che parlavano a milioni di persone.

    Non c’è nel libro la pretesa di coprire tutto il lessico, piuttosto di dare conto di una mappa con i suoi inciampi e le sue trappole. Per questo, l’impresa di interrogare le impronte linguistiche risulta utile a spiegare convincimenti (anche troppo?) radicati. Nonché avversioni (a stento?) contenute.

    C’era un tempo in cui le parole (che traducono la differenza e l’identità) nominavano le cose. Servivano a rassicurare proponendo la certezza della verità contro il rischio di incoerenza. Funzionavano da scudo contro la frammentarietà dell’esistenza. Quando l’unità era la stella polare e il frazionismo provocava un brivido lungo la schiena.

    D’altronde, i modi di dire sono modi di pensare, soprattutto in un tempo nel quale riuscivano a descrivere i fenomeni della realtà sensibile.

    Grazie al linguaggio, il comunismo si connetteva ai processi sociali in atto. Da Togliatti a Berlinguer, nessuno si sarebbe arreso all’insensatezza del mondo; nessuno avrebbe denunciato l’impotenza delle parole. Anzi, il linguaggio interveniva per contrastare il silenzio, la rinuncia a nominare ipotizzata da Hugo von Hofmannsthal nella Lettera a Lord Chandos .

    L’io era forte, potente, addirittura prometeico. Sicuro della sua scelta. La classe operaia possedeva dignità e la condizione lavorativa pretendeva rispetto. La crisi novecentesca intercettata da Freud veniva nascosta dalle manifestazioni e dalle belle bandiere.

    C’era un tempo nel quale la società non somigliava a un mosaico di pezzi da ricucire; la precarietà non mordeva fino ad essere consustanziale alla condizione lavorativa; non si poteva dire tutto e il contrario di tutto: le scelte tenevano conto della realtà e il Pci provava a insediarsi nelle pieghe della società .

    Che pace fidarsi e affidarsi al partito! Era il tempo delle idee severe che non mutavano nello spazio di un mattino. Di conseguenza, le posizioni faticavano a smussarsi e modificarsi. L’incognita consisteva nel non vedere che, se i fatti stavano cambiando, si sarebbe dovuto cambiare con i fatti.

    Il Pci, tuttavia, possedeva la straordinaria dote di tenere conto delle opinioni; magari di guidarle, aiutando il loro sedimentarsi grazie al dibattito in sezione oppure al confronto nella tribuna elettorale de l’Unità , di Rinascita .

    Comunque, la discussione non voleva evitare il conflitto (anche se scegliere di essere in minoranza era durissimo: il super io agiva da tappo più della commissione dei probiviri) giacché senza contraddizione (Michel de Montaigne) non c’è passione nello scambio. E poi non esiste discussione più noiosa (ancora Montaigne) di quella in cui non ci si scontra e tutti sono d’accordo.

    Se però non fossero due donne a scrivere di questo paesaggio sonoro, a sfogliare le pagine del dizionario, con i suoi rimandi, echi, citazioni, si otterrebbe un testo neutro, senza vita. Magari di alto livello accademico o semiologico ma che manca di cura. La cura arriva, nel centenario del Pci, proprio dall’aver saputo ricostruire il tepore della comunità con un andare e venire da ieri a oggi che annota la fatica di dover nuotare in mare aperto: ecco la pena del restare orfani.

    Quando è successo? Quando le parole, più o meno nel 1991, non tollerano gli scarti, la varietà, il cambiamento. Rinsecchiscono, perché le cose non stanno più al loro posto e la lingua non le dice più. E non funziona nemmeno più da ornamento come la bellissima superfluità delle Vele di Calatrava che decorano l’aria a Tor Vergata.

    C’è stata la caduta del Muro. Le due autrici insieme a milioni di altre persone hanno visto la casa incrinarsi, piegarsi e scomparire sotto le macerie. Al suo posto, a via Botteghe Oscure, oggi c’è un supermercato. Eppure, l’indirizzo di quella casa, come dimostra Al lavoro e alla lotta , lo ricordiamo ancora.

    Liliana Rampello

    Possono le parole, il loro elenco ordinato secondo il semplice alfabeto restituire un’esperienza? E in che modo lo possono fare, lo fanno? E tutto questo può fare storia?

    Amo le parole, il vocabolario, i glossari, i lemmi... la lingua è sempre stata, ai miei occhi, il fronte di lotta più audace e ribelle, la vera risorsa che guarda al futuro, l’unica che può sconfiggere il nostro presente, civilmente e socialmente opaco, che lo può leggere, dire, o implacabilmente sferzare.

    Questo libro, che Franca Chiaromonte e Fulvia Bandoli hanno pubblicato tre anni fa, torna felicemente oggi a farsi vivo, e gioca miracolosamente con il tempo, parla del passato, lo porta al presente, resta come monito per il futuro. La sua materia sembra inattuale, da anni viviamo in compagnia della falsa opinione che questo sia ormai un tempo di post-ideologia (per non parlare della post-verità), mentre è solo profondamente inquinato da ideologie mediocri e d’accatto. Questo tempo è nato dalle macerie delle grandi ideologie, fra queste il comunismo e quel grande partito che è stato il Pci. Una voragine che il libro non vuole certo spiegare, perché chi lo scrive sono due donne che si fidano della loro esperienza di militanti, sanno che dirla, aver trovato le parole per dirla, è la via per mostrare ciò che è stato - meglio, in certi casi, delle tante analisi che nel centenario della nascita del Pcd’I tentano di misurare la distanza tra quell’origine, nel 1921, e la fine, nel 1991.

    Uno strano libro, molto colto, di massima oggettività apparente, eppure pieno di emozioni che fanno affiorare un’altra vicenda, ovvero la sotterranea autobiografia delle due autrici che è insieme la biografia di una comunità politica. Parola meravigliosa che va accostata subito a un’altra, andata perduta, compagno/a . Quest’ultima, ci ricorda lo scrittore Maurizio Maggiani, sembra ormai disdicevole, e se significa letteralmente mettere in comune il pane, rimanda alla volontà di spartire veramente la vita, e la responsabilità di un comune pensare, e la necessità di comune salvezza. E sì, la vita di tante e tanti di noi è stata a lungo racchiusa fra queste due parole-parentesi, ed è stata intelligente, allegra, studiosa, impegnata, condivisa, in forme inimmaginabili di interclassismo, una vera e propria scuola di formazione.

    Non è un caso che nel racconto della manciata di uomini e donne che sono stati intervistati nella parte conclusiva del libro, alla domanda sulla parola comunità, come dato evidente e inaggirabile, Maria Luisa Boccia risponda così: " il Pci era molto più di una comunità, era un mondo complesso e plurale , e Luciana Castellina così: penso e ho sempre pensato che la comunità comunista fosse migliore delle altre. Sono sempre convinta che Berlinguer avesse ragione quando insisteva sulla ‘diversità comunista’, che non fosse una pretesa altezzosa, o spocchia (come fu detto da molti) ma un tratto del nostro appartenere a quel partito, cui ci iscrivevamo per essere, per l’appunto, diversi dagli altri, e migliori . C’era la serietà e la comunanza, dice Aldo Tortorella, solidarietà diffusa e spirito fraterno, dice Emanuele Macaluso, i suoi militanti dovevano dare il buon esempio con il loro stile di vita. E i valori proposti e praticati erano l’onestà, la sobrietà, la solidarietà ", dice Livia Turco. Mi fermo, il resto è nel libro, ma quello che emerge da queste brevi citazioni è un mondo che, lontano anni luce dall’attuale, non è morto per sempre, non vive di nostalgia del passato, ma in radicate e conservate convinzioni di tante e tanti.

    Per questo Al lavoro e alla lotta entra nel presente portando al presente l’essenziale, ovvero quelle relazioni che restano, a partire da quella determinante fra le due autrici, che continuano così a dare un senso a una politica che quando è fatta insieme è la bella politica (come l’ha chiamata Marisa Ombra), quella che allarga il suo sguardo a chi leggerà queste 189 parole, qui elencate con serietà e sorriso. Un flusso di sentimenti ancora vivi per chi allora c’era, un po’ di verità emozionale per chi non c’era, elementi entrambi di una diversa ma necessaria conoscenza della realtà personale e politica.

    Naturalmente, e per logica e per fortuna, la scelta delle parole è arbitraria, ne mancano molte, altre sorprendono per la loro stravagante o inattesa comparsa che stupisce o strappa un sussulto ( Cosmonauta , Pidocchi ), altre ancora segnano dolorose e indimenticate ferite della storia del nostro paese, terrorismo, strategia della tensione, lotta di liberazione... Ma altre arrivano dirette come frecce al nostro qui e ora, a mostrare la distanza irriducibile dei significati quando cambia il contesto socio-politico di riferimento, e farne misurare l’immiserimento; ne mostro qualcuna come esercizio di una possibile lettura, ma sono convinta che ognuno/a troverà la sua via, la sua bussola per orientarsi in questo vocabolario e farlo suo. Perché questo libro può essere tagliato davvero in tanti modi e poi ricomposto secondo un puzzle personalissimo, e allora ecco di seguito il minivocabolario con cui alle parole che cito affianco quello che mi sembra il cambiamento, lo stravolgimento attuale.

    Prendo come primo esempio accordo , una pratica nobile che rinviava a conflitti concreti che non aboliscono le differenze, o alleanza , ovvero la ricerca di come si costruisce un blocco sociale che tenga insieme gli operai gli studenti, i contadini, i ceti medi, nord e sud ecc. ecc.: certo, oggi tutto il lavoro è radicalmente cambiato, e con quello le differenze di classe, censo, reddito, ma queste due parole sono declinate comunque con una decisa diffidenza, quando non facile disprezzo. Sono trasformate in volgare inciucio, e così, nel dare scandalo, diventano innominabili, e questo a sua volta produce la sparizione sia del conflitto sia della mediazione degli interessi, la sparizione insomma di una via maestra di libertà. Il risultato è che di colpo la soluzione di un problema, il voto concorde su una buona legge, l’avanzamento del confronto a livelli più alti, vengono meno e si produce la paralisi.

    Faccio seguire una parola più allegra, attacchinaggio , regolare o abusivo, fatto in gruppetti più o meno piccoli, ma sempre di corsa e ridendo, felici di avere qualcosa da comunicare che era stato pensato insieme ad altri/e, dopo aver studiato, discusso, trovato il filo e il commento giusto, che fosse la guerra del Vietnam, o un’iniziativa sul territorio , là dove si tornava per capire meglio le tante contraddizioni sociali. Lavoro intellettuale e lavoro manuale andavano a braccetto ed erano uno degli strumenti per reclutare i militanti e formare una classe dirigente. Volantinare, scrivere sui muri, stare in cucina o servire ai tavoli alle feste dell’Unità... magnifici ricordi.

    Attendismo/Avventurismo/Spontaneismo/Velleitarismo/Disfattismo/Settarismo/

    Frazionismo e Correntismo/Servilismo/Verticismo/Opportunismo/Arrivismo : atteggiamenti tutti tragicamente negativi nella cultura del Pci, oggi lenti straordinariamente utili per radiografare i comportamenti pubblici e privati, dentro e fuori dai partiti e dentro e fuori dal Parlamento. Possiamo leggere insieme anche cretinismo ?

    Bracciante , è il lavoratore che diventa merce lui stesso e va al mercato dei caporali. La lotta è stata durissima, Di Vittorio ha portato quei lavoratori a guadagnare spazi di libertà, a pensare e vivere il lavoro come una dimensione sociale, come un legame di comunità (eccola di nuovo questa magica parola!). Oggi questo riguarda soprattutto (ma non solo) un popolo di immigrati sfruttati, privi di diritti, quasi invisibili, meno male che ora alla loro testa c’è un nuovo dirigente sindacale, l’italo-ivoriano Aboubakar Soumahoro, capace di costruire importanti piattaforme di lotta.

    Passo a Demagogia , che da arte di guidare il popolo è diventata ormai sinonimo, ci dicono le due autrici, di populismo , di qualunquismo , di tutto ciò che semplifica la realtà e gioca sulla sfiducia dei cittadini verso le istituzioni. Esattamente la politica che il Pci combatteva, perché le forme dell’antipolitica, possiamo girarci intorno finché vogliamo, sono naturalmente una forma della politica.

    Egemonia è forse la parola che più di tutte rimette in circolo riflessioni fatte, allora e ora, con altre femministe e sulla quale sarebbe utile un ripensamento radicale, che crei un ordine diverso fra egemonia/dominio (che in Gramsci, come giustamente qui ricordato, erano idee contrapposte) e autorità/potere (il massimo dell’una con il minimo dell’altro, come affermato dal pensiero della differenza). Su questo terreno culturale e politico non si è creato, nel tempo, un circolo di pensieri virtuoso, meno teso a coincidere con sé stesso.

    Le Feste dell’Unità stanno dalla parte di quell’allegria dello stare insieme che è impossibile dimenticare. Le si può studiare su un altro libro, come quello di Anna Tonelli, o le si può raccontare, ricordare, ri sentire per tutto il lascito di emozioni che le accompagna; io mi sono sempre divertita, ho imparato a servire ai tavoli, ad ascoltare il comizio finale del Segretario con l’orgoglio di essere proprio lì, proprio in quel momento, sapendo di avere poi ancora il tempo per discuterlo, vagliarlo, giudicarlo, tutti insieme, davanti a un bicchiere di vino pieno di entusiasmo e intelligenza.

    L’Unità , non può non essere messa se non di seguito, qui. È stato il mio giornale dal 1970, l’ho letto, distribuito in manifestazioni, portato nelle case dei compagni la domenica mattina, veniva messo in bacheca, veniva discusso in sezione, visto che, spesso, la famosa linea la trovavamo annunciata proprio lì, o su Rinascita . Franca e Fulvia ne scrivono una breve storia, che fa davvero rimpiangere tante cose, anche l’eleganza della penna inarrivabile e mai volgare di Fortebraccio. (Leggere Lorsignori , con la sua riga autobiografica: Io sono un giornalista d’élite: e infatti scrivo per i metalmeccanici). L’Unità è definitivamente morta quando Concita de Gregorio ha scelto e messo in prima pagina la pubblicità, guarda caso, di un sedere.

    È evidente che non posso continuare il mio personale elenco, sarebbe troppo lungo e invadente; ogni singola voce di questo bel libro sollecita, quasi invita proprio a dire la propria, e dunque mi soffermo ancora solo due voci importanti, firmate da Letizia Paolozzi, la Carta delle donne e Quarta mozione , perché indicano due momenti cruciali per la riflessione delle donne dentro e fuori dal Pci. A partire dal 1986, quelli sono stati anni di incontri e conflitti fra donne, fra femminismi (quello istituzionale e quello della differenza), che hanno avuto esiti ancora vivi, hanno sottratto le donne al loro essere una questione tutta interna alle Commissioni femminili, le hanno sottratte, in ragione di una affermata differenza fra loro e dall’uomo, al loro essere viste e vissute come tutte uguali sul piano orizzontale della loro presunta miseria, alla ricerca solo di parità, hanno mostrato la possibilità stessa della loro indipendenza simbolica, e portato a ragionare in autonomia su temi decisivi come uguaglianza, rappresentanza, quote, o, per fare un altro significativo esempio, su qualsiasi legge riguardasse il corpo femminile. Per tutto questo le donne del Pci sono state capaci anche di dividersi rispetto alla svolta della Bolognina, al cambiamento del nome, a prendere posizione, tra il sì e il no, fino al XX° Congresso, l’ultimo, nel gennaio del 1991, in cui la quarta mozione di alcune si collegava, per necessità di regolamento, alla seconda (di Ingrao e Tortorella), ma impegnava i compagni non solo a non parlare a nome delle donne, ma a cambiare la pratica politica del partito.

    L’esito di tutti quegli anni è duplice, da un lato, per chi ha memoria, tante riflessioni, aggiornate o solo riscoperte, rispuntano nei movimenti sociali delle donne e non solo, altre si sono perse, a volte a ragione a volte per peccato, ma dall’altro rimane forte l’impressione che anche noi, protagoniste di allora, non siamo riuscite a inventare la forma per cui i confitti fra donne dentro e fuori dai partiti e dalle istituzioni producessero un risultato di forza e autorità per tutte e quindi per tutti. Quel lavoro non è stato finito, se ne sta lì, interrotto, e aspetta ancora di trovare la giusta intelligenza e il giusto tempo per arrivare alla meta. Leggere questo libro è un primo atto di intelligenza.

    Dunque grazie Franca e grazie Fulvia.

    Mario Tronti

    Le parole del Pci: una bella idea quella di resuscitare e riproporre all’attenzione questi ormai classici modi di dire, entrati a volte nell’uso comune del giornalismo politico. La giraffa comunista , secondo la celebre definizione togliattiana, aveva anche su questo terreno proposto la sua originalità. Ne era venuto fuori al tempo stesso un linguaggio popolare e una lingua intellettuale. Ed era stata una non ultima ragione del radicamento di quel partito nella società. Ci si capiva tra compagni nell’uso spontaneo di queste espressioni. Ma ci si faceva capire anche fuori, immediatamente, senza bisogno di tante spiegazioni. Poi, è vero, sono state oggetto, queste parole, anche di ironie, sfottimento, sufficienze. Ma questi erano, e sono, gli avversari. Il Pci è stato un esperimento politico tanto amato quanto odiato. A trent’anni dalla sua fine di comunisti ne sono rimasti pochi ma di anticomunisti ce ne sono ancora tanti.

    Questo libro ricompare opportunamente nell’anno centenario della fondazione. E nell’occasione dell’anniversario è accaduta una cosa che francamente non mi aspettavo. Pensavo che sarebbe passato sotto silenzio, salvo qualche inevitabile richiamo da parte dei cultori della memoria. In fondo sono tuttora viventi molti protagonisti di quella vicenda, soprattutto della sua ultima drammatica fase. Invece si è scatenata la solita tempesta mediatica. E abbiamo assistito a una quantità di libri, di saggi, di convegni, di documentari. Un fatto positivo. Vuol dire che quella storia continua a parlare e insiste nel farsi ascoltare. Del resto, quando un fenomeno politico si radica in una società, e vive così a lungo in una coscienza collettiva, conquista per sé il diritto alla considerazione dei posteri. Poi, certo, c’è il lato negativo. In età di dittatura della comunicazione, nulla più sfugge ormai alla chiacchiera. E in tempo di compiuta secolarizzazione non c’è più luogo per la conservazione del sacro.

    Su un punto mi sento però di dire qualcosa. Un punto di non secondario rilievo. Ho visto diffusa l’idea che la vera data di nascita del Partito comunista italiano non sarebbe la scissione di Livorno del ’21 ma la svolta di Salerno del ’44. No. Prima di tutto, il partito nuovo, il Pci, non ha mai rinnegato la sua origine storica, il Pcd’I. Non diceva Togliatti: Veniamo da lontano e andiamo molto lontano? Il lontano prossimo dei comunisti di allora stava nella Rivoluzione d’ottobre. Non si può parlare del centenario del Pci senza considerare la sua luce, e anche le sue ombre, come conseguenza storica imposta dal lampo di quell’evento. Quella era la spinta, quella la decisione che essa imponeva. Passare dal dirsi socialisti al dirsi comunisti significava rompere con la vecchia tradizione riformista e assumere la nuova tradizione rivoluzionaria. Un passaggio senza il quale ancora oggi tutti

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