Donne e confini
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Marta Verginella
Marta Verginella è ordinaria di Storia dell’Ottocento e Teoria della storia al Dipartimento di Storia della Facoltà di Lettere di Lubiana. Nella sua ricerca privilegia i temi legati alla storia sociale, storia della mentalità e storia delle donne e studia in particolare le pratiche identitarie e l’uso politico della storia nell’area nord-adriatica. Tra le sue pubblicazioni: Il confine degli altri (Donzelli 2008); La guerra di Bruno: l’identità di confine di un antieroe triestino e sloveno (Donzelli 2015); Terre e lasciti. Pratiche testamentarie nel contado triestino fra Otto e Novecento (Beit 2016); Slovenka. Il primo giornale femminile sloveno 1897-1902 (Vita Activa 2019).
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Anteprima del libro
Donne e confini - Marta Verginella
Parola di donna
Marta Verginella
Donne e confini
#passato#confini#europa#pandemia#lavoro
manifestolibri
Parola di donna
a cura di
Teresa Bertilotti
Simona Bonsignori
Credits
L’immagine di copertina
proviene dalla Fototeca del Museo
di storia contemporanea di Lubiana
La foto di Marta Verginella è di Arne Hodalič
© 2021 manifestolibri
La Talpa srl, Roma
Via della Torricella 46
Castel San Pietro Romano (RM)
ISBN 979-12-8012-454-8
Fatti salvi i diritti degli eventuali aventi causa
www.manifestolibri.it
info: book@manifestolibri.it
a Olga, Savica, Ada,
le sorelle Štoka
Diario
Il covid-19
Doveva essere una primavera bellissima. Per marzo avevo concordato un mese di visiting alla School of Slavonic and East European Studies (SSEES) dell’University College di Londra. Con il collega Jakub Beneš, docente di storia dell’Europa orientale, studioso del brigantaggio nei territori dell’ex monarchia asburgica dopo il 1918, e la lettrice di sloveno Maja Rančigaj, sua moglie, avevamo definito il tema e il titolo della conferenza che avrei tenuto a fine mese: Da Slovenka a Ženski svet: il femminismo sloveno a Trieste tra cosmopolitismo e lotta nazionale 1897-1928. Per il resto avrei lavorato nelle biblioteche e negli archivi londinesi. Non vedevo l’ora di godermi quel periodo di studio, esclusivamente rivolto alla ricerca che conduco nell’ambito del progetto europeo ERC Advanced dedicato alle donne nei periodi di transizioni postbelliche nell’Adriatico nord-orientale. Perciò, avevo prenotato un bell’appartamento a Bloomsbury, quartiere dove ha vissuto Virginia Woolf, a due passi dalla British Librarye dalla biblioteca del SSEES. Insomma, tutto era predisposto al meglio. I voli erano prenotati con un rientro previsto a metà mese per vedere mia madre e partecipare a una conferenza dedicata a Ivanka Hergold, scrittrice slovena di origini carinziane, trasferitasi a Trieste per ragioni sentimentali. Era un’intellettuale assai fine, a volte anche scontrosa ma, soprattutto, esigente nei confronti di sé e degli altri e, per questo motivo, non molto ben accetta negli ambienti della minoranza slovena di Trieste dove ad aver spazio, fin troppo spesso, è soprattutto la mediocrità. Tenevo molto a partecipare a quell’incontro per il filo tenue che ci legava, per le discussioni fatte durante gli incontri fugaci al Teatro sloveno, per le vie cittadine, sul marciapiede che separa la Sinagoga dalla Biblioteca di studi sloveni, in cui si finiva a constatare la difficoltà di sopravvivere, soprattutto se donne e intellettuali, in un ambiente che non ama percorsi troppo audaci e la sfida del nuovo. Nella mia biblioteca ci sono dei libri che Ivanka mi ha regalato, assicurando che a lei non sarebbero più serviti, in particolare gli scritti politici di Ruggero Fauro Timeus, pieni di odio antislavo e di voracità imperialista di inizio Novecento.
A fine febbraio l’epidemia vista da Trieste sembrava lontana. I notiziari davano sempre più spazio al coronavirus, ma la situazione pareva aggravarsi principalmente in Lombardia e nel Veneto. Le terre di confine sembravano ancora sane e salve e le prime restrizioni erano motivate più dalla precauzione che dalla necessità. Vedendo l’aggravarsi della situazione decisi, tuttavia, di cambiare i voli, prenotati su Venezia, e partire da Lubiana. L’idea di venir messa in quarantena come cittadina italiana appena sbarcata su suolo inglese mi turbava. La possibilità di viaggiare con il passaporto sloveno, seppure con la residenza triestina, invece, mi tranquillizzava. Contavo sull’occhio distratto dei controllori.
Il 2 marzo, dopo esser atterrata a Stansted, scopro che non vi sono controlli e che nel Regno Unito si entra con la facilità di sempre. Sento in vicinanza la parlata veneta di un gruppo di signore che avevano probabilmente preso lo stesso volo disdetto da me qualche giorno prima. Raggiungo il treno, poi salgo sulla metro. Tutto sembra normale. Le stazioni sono affollate, i punti di ristoro a King’s Cross, dove esco dalla metropolitana, anche. Male che vada, mi dico, avrò qualche settimana in più di vita senza restrizioni. Di fatto, inizio a soppesare ogni mia scelta: dove sedermi e a chi avvicinarmi, valuto la possibilità del contagio nel primo bistrot dove entro. Il giorno dopo mi trovo con Jakub che mi aiuta a sbrigare le formalità necessarie per accedere alla biblioteca del SSEES. Andiamo in un ristorante vicino, all’interno di Friends House, dove ha sede il centro quacchero, consigliato da Maja. I tavoli sono a debita distanza, ma io e Jakub siamo pur sempre vicini e io so che sua moglie dovrebbe partorire a giorni. Gli dico che apprezzo la sua generosità e disponibilità ad accogliermi.
Inizio a frequentare la biblioteca del SSEES, mi lavo ossessivamente le mani ogni volta che esco e entro dalla sala di lettura, cerco di sedermi lontano dagli altri, ma con il passare delle ore tutti i posti vengono occupati. Quando qualcuno dei ragazzi che sono seduti intorno a me starnutisce, lo fulmino con uno sguardo minaccioso. Quasi tutti sono pesantemente raffreddati e spesso sprovvisti di fazzolettini. Sondo la profondità dei loro raffreddori: solo tosse e starnuti normali? Decido di resistere, ogni tanto mi copro la bocca con la sciarpa, ma la soddisfazione di poter addentrarmi nella mia materia, di leggere e sfogliare i libri che trovo sugli scaffali, allontana la paura. Anch’io ho qualche fastidio alla gola e un po’ di congiuntivite, spero che non sia nulla di grave. Decido di non contattare, almeno nella prima settimana, gli amici e i colleghi che avevo in programma di vedere a Londra e a Oxford intuendo il loro timore di incontrarmi, arrivo pur sempre dall’Italia, seppure via Lubiana. Scrivo solo a Katja Škoberne, lubianese da anni a Londra, che mi dà appuntamento per un aperitivo al Victoria and Albert Museum. Ci salutiamo con qualche precauzione e raggiungiamo la sala del club riservata agli amici del museo. Appena sedute, ci spalmiamo sulle mani il gel disinfettante posto ben in vista sul bancone del bar. Non nascondo le mie paure rispetto a un deterioramento della situazione anche nel Regno Unito, ma Katja mi rassicura. A casa ha scorte di cibo per tre mesi, mascherine, guanti. Mi dice che all’occorrenza posso contare su di lei, ha spazio sufficiente anche per ospitarmi. Si è organizzata bene: ha comprato gel e altri prodotti disinfettanti per tempo. Si è procurata del cibo in scatola già ai tempi della Brexit, come altri inglesi. Insomma, posso stare tranquilla.
Ogni tanto guardo la sala quasi vuota, i pochi tavoli occupati, l’atmosfera è sommessa ma non cupa. Ordiniamo del vino a un giovane cameriere che parla inglese con accento italiano e poi ci perdiamo nel chiacchierio che ricuce il tempo e i nostri vissuti lasciati in sospeso dall’ultima volta che ci siamo viste. Mi felicito per la sua ripresa professionale dopo il fallimento durante la crisi del 2008, quando perse tutto, la sua attività imprenditoriale, il successo lavorativo e la tranquillità personale. So che allora aveva deciso ostinatamente di rimanere a Londra e resistere, anche se rientrando a Lubiana avrebbe senz’altro trovato lavoro. Ora fa la speech coach per importanti personalità e professionisti nel mondo dei media e della finanza britannici. A fine serata, prima di salire sulla metro, si spalma sulle mani un unguento che ha un odore particolare, quasi sgradevole. Me lo offre e lo spalmo anch’io. Dovrebbe allontanare il malaugurato virus, sembra che fosse usato ai tempi della peste. Ridiamo. Concordiamo di rivederci, di andare a teatro, insomma di protrarre la normalità finché si può.
I giorni seguenti li passo in biblioteca, scegliendo con accuratezza il posto, scrutando chi ho di fronte. Incontro ancora Jakub a pranzo, ci stringiamo le mani. Lui prima di sedersi al tavolo della mensa universitaria va a lavarsele nel bagno, io preferisco usare il mio gel. Maja invia le sue scuse per essere rientrata a casa. Dato che era venuta in un ospedale vicino a fare dei controlli, pensava di raggiungerci a pranzo. Poi, data l’imminenza della data del parto, ha preferito tornare a casa. Meno male.
Continuo a pensare al coraggio di Jakub che esce a pranzo con me. Ha un corpo atletico, di sicuro fortificato sulla costa californiana dove i suoi genitori si sono trasferiti dalla Cecoslovacchia. Lo informo che a metà mese rientrerò a Trieste per tre giorni e che porterò con me alcune edizioni del volume dedicato al primo giornale sloveno femminile, pubblicato a Trieste tra il 1897 e il 1903¹. Gli chiedo se gli serve qualcosa. Mi chiede dei Pocket-Coffee. Di solito è la sorella, che risiede in Toscana, a rifornirlo, ma con l’epidemia che si sta diffondendo in Italia non sa se la vedrà presto. Inizio a fare la lista delle cose che dovrei comprare e portare da Trieste e Lubiana, soprattutto libri ma anche vestiti più leggeri, perché a Londra, penso, arriverà pur la primavera.
Intanto riempio le giornate con letture di storia e antropologia sull’area balcanica, mi concentro sulle pratiche di violenza e sulle questioni identitarie, i traumi psichici causati dalle guerre. Prendo in mano le memorie di Milovan Djilas² e non riesco a capacitarmi del suo maschilismo sfacciato. Descrive le compagne di università come incapaci di ragionamenti politici, alcune senza charme, altre con difetti fisici. Mette in evidenza la codardia dei compagni sloveni che, a differenza dei serbi e montenegrini, non riuscivano a reggere gli interrogatori della polizia belgradese negli anni Venti. Politicamente erano più preparati di serbi e montenegrini ma, allo stesso tempo, troppo imborghesiti. Più avanti riprende il discorso sulle donne comuniste dal fisico poco attraente, suggerendo che il loro attivismo ideologico fosse dovuto soprattutto alla loro bruttezza. Con gli stessi criteri sessisti descrive le figure di punta del movimento comunista sloveno che ho incrociato nelle mie ricerche dedicate ai campi fascisti e all’internamento della popolazione slovena in Italia. Racconta di Zdenka Kidrič, moglie di Boris, uomo di punta del movimento partigiano e della dirigenza comunista jugoslava dopo il 1945, come di una donna algida, priva di senso dell’umorismo, di brutto aspetto e con il difetto di esercitare fin troppa influenza sul marito. Con lo stesso tono giudica anche Vida Tomšič, più volte incarcerata, anche dalle autorità italiane, una delle figure chiave della resistenza slovena, ministra della politica sociale nel primo governo jugoslavo del 1945. Djilas la descrive fisicamente poco attraente, rosacea in viso come tutte le donne dell’area alpina aggiunge, gran lavoratrice ma con la tendenza a complicare le cose. Nella memorialistica che ho studiato, non ricordo di essermi mai imbattuta in un machismo così rozzo come quello espresso dal più noto dissidente della Jugoslavia di Tito. Devo prendere fiato. Gli altri suoi pari magari non saranno stati meno machisti, ma più elegantemente hanno preferito il silenzio.
Nei notiziari della Bbc che seguo alla sera si infittiscono le notizie sull’epidemia. Finalmente vedo un primo dibattito tra esperti britannici che si schierano contro Boris Johnson e