Cattivi per sempre?: Voci dalle carceri: viaggio nei circuiti di Alta Sicurezza
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Info su questo ebook
Ornella Favero – da vent’anni impegnata, con Ristretti Orizzonti, nell’informazione, nella formazione e negli interventi sulle pene e sul carcere – ha compiuto un viaggio nell’Alta Sicurezza. Ha visitato gli istituti, parlato con i detenuti e il personale, sentito i familiari. Di quel viaggio e di quell’esperienza questo libro propone qui una sintesi di grande efficacia e intensità. Con una conclusione univoca: l’impostazione sottostante al regime di Alta Sicurezza è spesso crudele. È tempo allora di cambiare strada: perché – come sostiene Agnese Moro, figlia dello statista ucciso dalle Brigate Rosse – «non bisogna buttare via nessuno». E perché l’orizzonte della rieducazione è, in concreto, praticabile per tutti.
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Anteprima del libro
Cattivi per sempre? - Ornella Favero
Cottinelli)
Il libro
Nelle sezioni di Alta Sicurezza delle carceri ci stanno i mafiosi
. Bisogna trattarli duramente – si dice – perché non c’è possibilità di recuperarli. Chi pensa il contrario viene ritenuto, nella migliore delle ipotesi, un ingenuo, un buonista
e, nella peggiore, uno che non ha il senso dello Stato. E se non fosse così?
Ornella Favero – da vent’anni impegnata, con Ristretti Orizzonti, nell’informazione, nella formazione e negli interventi sulle pene e sul carcere – ha compiuto un viaggio nell’Alta Sicurezza. Ha visitato gli istituti, parlato con i detenuti e il personale, sentito i familiari. Di quel viaggio e di quell’esperienza questo libro propone qui una sintesi di grande efficacia e intensità. Con una conclusione univoca: l’impostazione sottostante al regime di Alta Sicurezza è spesso crudele. È tempo allora di cambiare strada: perché – come sostiene Agnese Moro, figlia dello statista ucciso dalle Brigate Rosse – «non bisogna buttare via nessuno». E perché l’orizzonte della rieducazione è, in concreto, praticabile per tutti.
Ristretti Orizzonti
Questo libro nasce dall’esperienza di Ristretti Orizzonti, testata giornalistica dedicata ai temi della Giustizia, delle pene, del carcere, nata nel 1997 nella Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova a cui fanno attualmente capo, oltre alla rivista che ne porta il nome, un sito internet, un’agenzia nazionale di informazione, un centro di documentazione e numerosi libri di testimonianze. L’esperienza è promossa e gestita da un gruppo di persone detenute e di volontari esterni al carcere con diverse professionalità (insegnanti, giornalisti, esperti di informatica, fotografi). All’informazione e alla documentazione Ristretti Orizzonti affianca molteplici iniziative di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulle tematiche delle pene e del carcere, la promozione di progetti finalizzati all’inclusione di detenuti ed ex detenuti e una intensa attività di educazione alla legalità tra i giovani, realizzata nelle scuole e in carcere con la partecipazione di persone detenute. Nel libro vengono riportate diverse testimonianze di persone detenute, molte delle quali intervistate nel corso di un viaggio svolto dall’autrice (che di Ristretti Orizzonti è il direttore) nelle sezioni di Alta Sicurezza del sistema carcerario italiano. Esse sono a volte indicate con nome e cognome, a volte solo col nome. La scelta, concordata con gli interessati, è stata quella di indicare con nome e cognome le persone che hanno avuto un rapporto più profondo con la redazione di Ristretti Orizzonti e che hanno deciso anche di metterci la faccia
.
L’autrice
Ornella Favero, fondatrice nel 1997 e direttrice della rivista Ristretti Orizzonti, punto di riferimento nazionale dal mondo della detenzione. Dal 2015 è presidente della Conferenza nazionale Volontariato giustizia.
Indice
Introduzione. La pena rabbiosa e la pena riflessiva
I. Una premessa necessaria
II. Fine pena mai
III. 41-bis
IV. Viaggio nell’Alta Sicurezza
V. Declassificazioni e trasferimenti
VI. Percorsi di consapevolezza
VII. Donne e ragazzi
VIII. A che cosa serve cambiare?
Glossario
Introduzione. La pena rabbiosa e la pena riflessiva
«È un vero peccato che impariamo le lezioni della vita solo quando non ci servono più», ha scritto Oscar Wilde. Probabilmente ognuno di noi, dopo aver passato in rassegna buona parte della sua esistenza, sottoscriverebbe questa frase, e si identificherebbe in questa immagine, di quanto gli esseri umani imparino poco dall’esperienza, e magari imparino quel poco quando non serve più. In fondo, il progetto di confronto tra le scuole e il carcere che la redazione di Ristretti Orizzonti ha elaborato nasce da qui, da questo bisogno di provare, per una volta, a mettere in crisi l’umana incapacità di far tesoro delle esperienze degli altri, evitandosi così errori, cadute, disastri.
Chi è in carcere sta facendo un’esperienza che non augurerebbe neanche al suo peggior nemico. Così succede che siano proprio le persone detenute, per evitare che altri possano vivere la sofferenza della galera, a decidere di dedicare tempo ed energie a un progetto, che mira a rivoluzionare l’idea che non si impara dalle esperienze della vita. Un progetto che scommette sul contrario, sul fatto che persone, che stanno vivendo la solitudine e la poca umanità della vita detentiva, riescano a raccontarsi in modo tale da contribuire a tenere lontani dal rischio carcere
tanti ragazzi delle scuole.
Come nasce e cresce un progetto quasi rivoluzionario
Parliamo allora di questo progetto con le scuole, e della rivoluzione
che ha prodotto in detenuti, studenti, insegnanti.
Quando l’abbiamo iniziato, circa dodici anni fa, lo scopo era quello di parlare delle carceri, di una realtà pressoché sconosciuta alla società, delle condizioni in cui si vive al loro interno, dei diritti spesso negati. Poi ci siamo accorti che i frutti che raccoglievamo dagli incontri con gli studenti erano poco interessanti: tra di loro, chi già guardava alle pene e alle carceri con sguardo non incattivito trovava una conferma delle sue idee, chi era indifferente o aveva già assorbito i veleni di una informazione, che lavora assiduamente a farci sentire del tutto buoni nei confronti di quelli che sarebbero del tutto cattivi, non si smuoveva dalle sue convinzioni.
È da lì che abbiamo cominciato a riflettere sul fatto che quella sicurezza
eccessiva dei ragazzi, quella domanda martellante ai detenuti «ma perché non ci avete pensato prima?», quella convinzione che loro invece ci penserebbero sempre e si fermerebbero prima di commettere qualche sciocchezza perché sanno bene le conseguenze di certe scelte, tutte queste certezze su di sé e sui propri comportamenti sono estremamente pericolose, perché inducono a ritenersi fuori da ogni rischio. Ecco il motivo per cui abbiamo definito il nostro progetto un allenamento a pensarci prima
.
Un esercizio: provare a contare quante volte non ci ho pensato prima
Per i ragazzi la prima cosa sconvolgente di questo progetto è esattamente questa: avere davanti a sé persone che raccontano storie pesanti, portano testimonianze di reati gravi, e spiegano anche che da ragazzi non ci avevano mai pensato di poter finire in carcere. Anzi, sono proprio i detenuti a disegnare un quadro del reato come uno scivolamento
da piccole trasgressioni, piccoli illeciti a comportamenti sempre più gravi, e a sottolineare che quello scivolamento spesso è inizialmente così impercettibile che non ti permette di alzare la guardia e di capire che sta succedendo qualcosa che potrebbe sfuggirti di mano. «Smetto quando voglio», per esempio, è la grande illusione di chi inizia a usare la droga, e crede di avere la situazione sotto controllo, ragazzi che scherzano
con le sostanze, le considerano poco più di un gioco, mettono lo sballo e la trasgressione al centro delle loro vite, come racconta un giovane detenuto, Schakib Rouani:
Ho cominciato come la maggior parte dei giovani, bevendo nei fine settimana, poi sono passato a cocaina, ecstasy, e per calare l’effetto di queste sostanze usavo l’eroina. Così, a ventidue anni, mi sono ritrovato a non poterne fare a meno. Inizialmente mi dicevo che per me non era un problema, «smetto quando voglio». Ma quando ho voluto smettere, era ormai troppo tardi. So che è una frase scontata, ma è quello «smetto quando voglio» che mi ha rovinato un pezzo di vita.
Le persone troppo sicure di sé e della propria razionalità le invitiamo sempre a fare un piccolo esercizio: a provare a contare le situazioni della loro vita in cui non ci hanno pensato prima
, hanno agito senza riflettere troppo e quando poi avrebbero voluto tornare indietro e modificare tanti passaggi sbagliati, era ormai troppo tardi. Io stessa ho fatto quell’esercizio di ripensare a pezzi della mia vita personale, e mi sono soffermata sull’impazienza che non mi ha permesso di essere sempre disponibile con mia madre quando lei è diventata anziana. E dopo, quando ormai era troppo tardi, ho pensato tante volte che avrei voluto essere una figlia meno insofferente, meno attaccata alla propria libertà, più attenta alla fragilità di una persona così importante nel momento in cui aveva più bisogno di me. Ma non sto parlando semplicemente di farsi una specie di esame di coscienza
, di vedere quanti rimpianti ognuno di noi ha per non averci pensato prima
, sto parlando solo di un esercizio di riflessione profonda sui propri comportamenti che è un vero allenamento alla vita, che ti aiuta, a partire dalla consapevolezza dei tuoi stessi limiti, a fermarti di fronte agli errori (e anche ai reati) degli altri e a non pretendere di giudicarli, ma esercitare la capacità di andare in profondità e di capire.
Gli studenti che si mettono nelle scarpe
di chi ha commesso reati
Due sono le citazioni di buona letteratura che ci sono servite per descrivere questo progetto. La prima è di Luigi Pirandello:
Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere metti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io. Vivi il mio dolore, i miei dubbi, le mie risate. Vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e soprattutto prova a rialzarti come ho fatto io.
La seconda è di uno scrittore che vive dentro uno dei più duri conflitti del mondo contemporaneo, l’israeliano David Grossman, autore di Con gli occhi del nemico:
Quando abbiamo conosciuto l’altro dall’interno, da quel momento non possiamo più essere completamente indifferenti a lui. Ci risulterà difficile rinnegarlo del tutto. Fare come se fosse una non persona
. Non potremo più rifuggire dalla sua sofferenza, dalla sua ragione, dalla sua storia. E forse diventeremo anche più indulgenti con i suoi errori.
I piedi nelle scarpe dell’altro, il mondo guardato con gli occhi del nemico: praticamente l’idea che ne esce è che la capacità di sentire, di capire, di ascoltare la persona che abbiamo davanti deve essere totale, deve impegnarci dai piedi agli occhi
. Questo è un po’ il cuore del progetto, una scuola per imparare a cambiare scarpe e cambiare punto di vista in fretta, in un mondo dove, al contrario, una informazione spesso approssimativa e superficiale insegna a vedere una realtà semplificata al massimo, con i buoni
solidamente convinti di stare dentro le loro scarpe di buoni per diritto e per sempre, e i cattivi
sempre più considerati come vuoti a perdere
.
Le tappe fondamentali del progetto mettono a confronto gli studenti con le persone detenute prima a scuola e poi, per gli studenti delle medie superiori, in carcere. Quando qualcuno ci chiede di organizzare anche incontri con altre figure professionali coinvolte nella gestione delle carceri e delle pene (magistrati di Sorveglianza, agenti, educatori) lo facciamo volentieri, ma con una precisazione: il cuore del progetto deve rimanere la testimonianza delle persone detenute, perché quello che conta prima di tutto è capire dove nasce il male, quali sono i passaggi attraverso i quali si arriva a scivolare dall’altra parte
, nell’illegalità. E i ragazzi delle scuole la colgono, l’unicità di questa esperienza, e sono spesso disposti a rivedere i loro pregiudizi in modo profondo, riflessivo, mai superficiale.
Scrive Lucia, della scuola media Falconetto di Padova:
Le storie delle persone detenute che sono venute nelle nostra scuola iniziano con dei ragazzi con una vita assolutamente normale. Tutti con una buona famiglia alle spalle, degli amici, la scuola. Poi un giorno, un po’ per gioco, un po’ per sfida commettono piccoli furti, apparentemente insignificanti, che non nuocciono troppo a nessuno. Man mano che passa il tempo però, si insinua l’idea di poterla fare sempre franca, perché si pensa di essere migliori, più forti, più intelligenti di quelli che rispettano le regole, di poter gestire sempre se stessi e il proprio piacere, come coloro che pensano che non dipenderanno mai da una droga. Il passo verso il carcere invece da questo punto in poi è brevissimo.
A volte i ragazzi hanno delle intuizioni straordinarie, e riescono con più facilità a mettersi nei panni di chi è rinchiuso, perché sono così impregnati di libertà, così desiderosi di guadagnarsene sempre di più, che la condizione di privazione della libertà li colpisce e li sconvolge nel profondo.
Francesco, del Liceo-Ginnasio Tito Livio di Padova, usa per esempio un’immagine davvero folgorante per provare a immedesimarsi in chi vive una vita da galera
:
Solo in carcere ho capito veramente come ci si possa sentire a trascorrere ogni giorno dentro a quattro mura, in uno spazio minuscolo, e vedersi passare la vita davanti senza nessuna possibilità di fermarla e ricominciare a vivere come prima, perché dopo un reato grave come un omicidio non ci si può sentire a posto né al proprio interno, né all’esterno.
Leggere le riflessioni degli studenti dopo gli incontri spesso allarga il cuore perché mostra che ragazzi, probabilmente poco abituati a mettersi in gioco, ad analizzare i propri comportamenti, a rinunciare alle proprie certezze, di fronte al racconto di sé delle persone detenute percepiscono la sofferenza e la fatica di quelle testimonianze, come racconta Nicholas, dell’Istituto tecnico Marconi di Padova:
Ammiro il coraggio che avete tutti voi nel parlare della vostra vita davanti a ragazzi sconosciuti. Questo forse è un segno che siete riusciti a capire l’errore che avete compiuto, e credete, cercate e volete riuscire a ricominciare, anche se immagino possa essere difficile. Ho pensato all’orgoglio, al mio orgoglio, e ho capito quanto può essere dannoso, quanto male può fare. È difficile rendersene conto da soli, si crede sempre di riuscire a cavarsela, senza pensare che a volte la soluzione migliore può essere proprio chiedere aiuto, avere il coraggio di ammettere che da soli è difficile andare avanti nella propria vita.
Il fatto è che questo progetto è così anomalo
che spinge anche gli studenti a uscire dagli schemi e a trovare parole e immagini nuove per raccontarlo. Nuove e originali come le osservazioni ecologiche
di Alessandra, studentessa del Liceo scientifico Nievo di Padova, che sottolinea questa stranezza di vedere i rifiuti della società
darsi da fare in tutte le maniere per aiutare a diventare migliori i bravi ragazzi
delle scuole:
Grazie scuola e anche a voi carcerati, ché stranamente voi, i cosiddetti rifiuti della società, contribuite a farci migliorare nella speranza che, con una producente espiazione della colpa, progrediate anche voi. In fondo, la raccolta riciclata è molto in voga in questo periodo.
Ci sono storie che non sono raccontabili?
Quando abbiamo cominciato a capire il valore delle testimonianze, e a iniziare ogni incontro con il racconto di sé di alcune persone detenute, le prime volte sceglievamo accuratamente le storie più adatte, più raccontabili. Ricordo che Maurizio B., un rapinatore entrato e uscito dal carcere un’infinità di volte, diceva di sé: «Ma io cosa posso raccontare agli studenti? Che ogni volta che entravo in carcere, ne uscivo progettando il reato successivo?». Poi però, un passo alla volta, siamo arrivati a renderci conto che ogni storia è degna di essere raccontata, e può aiutare a capire, a portare il suo tassello nel disegno complesso della realtà.
Lorenzo Sciacca, per esempio, è stato anche lui un rapinatore seriale, eppure dal racconto delle sue carcerazioni si capisce una cosa fondamentale: che il carcere cattivo, insensato, quello che tanto piace alla gente
, è davvero l’Università del crimine, dove si sta nelle sezioni a parlare di calcio, di donne, di avvocati, di giudici che ti hanno massacrato, e soprattutto del prossimo reato. E se nessuno ti aiuta a riflettere, nessuno ti fa intravedere che un’altra vita è possibile, allora niente riesce a fermarti, neppure un figlio:
Sono stato padre, padre di un figlio che era bellissimo, anche nel momento più duro della sua malattia. Era malato di tumore. È mancato che aveva tredici anni e la maggior parte dei suoi anni, io li ho passati dietro a delle sbarre in giro per l’Italia. Quando ho iniziato a perdere le speranze che potesse guarire ero in carcere. Mi ricordo la prima volta che l’ho visto con un cappellino e senza le sopracciglia per via della chemioterapia. Era dietro al solito bancone divisorio della sala dei colloqui, ero al carcere di Alba. Mi sorrideva, cavolo aveva un sorriso fantastico… Si chiamava Salvatore. Quando è mancato io ero latitante all’estero, tornai in Italia per il funerale e mi arrestarono. Neanche di fronte a mio figlio sono riuscito a fermarmi. Sono una persona cattiva? Forse sì, forse non merito neanche di sognare una vita diversa, ma fondamentalmente oggi io sono diverso. Non sono più l’uomo del passato, ma quel passato fa parte di me.
Ritenere che tutte le storie sono raccontabili
significa prima di tutto riaffermare un principio fondamentale: che ogni essere umano è comunque degno di essere trattato come una persona, non un reato che cammina
. E per spiegare questo concetto, per far capire che il compito della giustizia non può essere quello di travolgere gli esseri umani, per quanto colpevoli, sotto una valanga di anni di carcere, scelgo le parole di Sabina Rossa, figlia di Guido Rossa, il sindacalista dell’Italsider ucciso dalle Brigate rosse nel 1979:
Ho pensato e penso che la sofferenza altrui, pur se frutto di un vissuto fatto anche di episodi di violenza e di sangue, non debba costituire motivo di soddisfazione o di risarcimento per chi è stato vittima di quei comportamenti. Essere a confronto con chi ci ha procurato dolore, con chi ci ha arrecato un danno, e privato di qualcosa, significa per il colpevole trovarsi di fronte a quelle che sono divenute le conseguenze delle sue azioni, per la vittima rappresenta un’occasione importante per avere risposte a domande che non ha mai potuto rivolgere ad alcuno. […] Quando il tribunale di Sorveglianza ha concesso il beneficio della liberazione condizionale alla persona che ha sparato a mio padre, l’ho vissuto come un gesto di civiltà. Tempo addietro lo avevo incontrato e avevo potuto constatare da parte sua un’assunzione di responsabilità per i gesti compiuti e per il dolore arrecato. In una lettera mi scrisse: l’incontro avuto con lei è stato uno dei più difficili ma anche dei più importanti della mia vita. Credo che fare giustizia sia anche accettare che a tanti anni di distanza una persona, seppure condannata all’ergastolo, possa essere cambiata.
Errori, cadute, disastri: un progetto che si sporca le mani
con la vita
Quando mi sono resa conto che Sergej, un giovane detenuto moldavo, era scappato, evaso dal primo permesso premio, un permesso conquistato
con Ristretti Orizzonti proprio nel progetto con le scuole, il primo pensiero che ho fatto è stato per il destino di un ragazzo finito in galera a poco più di diciott’anni, e che non è riuscito a credere in un futuro diverso, e adesso per lui, che è stato riarrestato in fretta, si sono chiuse di nuovo a doppia mandata le porte della galera, ma anche quelle della speranza. Io non sono né particolarmente buona né particolarmente ingenua, sono quasi vent’anni che faccio volontariato in carcere e vivo in mezzo a storie complesse, e dico sempre che dal nostro orizzonte bisogna cancellare la parola delusione
, perché le vite complesse non si dipanano facilmente, e non soddisfano le nostre aspettative, non vanno sempre bene come vorremmo, anzi. Ecco perché mi fa star peggio l’idea che Sergej forse non si salverà
e mi interessano molto meno il mio orgoglio, le mie delusioni, le paure per i contraccolpi di questa vicenda.
Quanto ai rischi che la società corre per la sua fuga, io non credo che esista una società civile e umana dove non si corrano rischi: questo ragazzo aveva passato quasi dieci anni in carcere, e dieci anni quando ne hai meno di venti significa un pezzo della vita enorme, gli anni che uno si aspetta siano i più belli; aveva una storia drammatica che io posso capire meglio