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La profezia del figlio perfetto
La profezia del figlio perfetto
La profezia del figlio perfetto
E-book297 pagine4 ore

La profezia del figlio perfetto

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Info su questo ebook

Il testo è incentrato sulla figura di una donna Francesca. Mano a mano che la narrazione procede, in un clima di suspense, vengono alla luce tutti i particolari della travagliata storia della protagonista: madre a cui è stato strappato il figlio ancora piccolo con un inganno. Sorregge la narrazione un viaggio che è sia quello fisico, che porta la protagonista dall'Italia in India per riabbracciare il figlio, sia quello metaforico, percorso nei meandri della memoria fra rievocazioni di grandi dolori e grandi violenze. Il tutto è accompagnato dallo sbocciare di un amore tra Francesca e l'amico del figlio che l'accompagna nelviaggio. Attraverso dei flashback vengono offerti nuovi indizi che permettono di ricostruire la trama. La narrazione è ricca di numerosi colpi di scena che fanno crescere la curiosità di chi legge. La vicenda personale dei protagonisti è inframmezzata da lunghi passaggi descrittivi che trasportano il lettore nella lontana realtà raccontata.
LinguaItaliano
Data di uscita8 mag 2020
ISBN9788835824428
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    La profezia del figlio perfetto - Barbara Della Casa

    LA PROFEZIA DEL FIGLIO PERFETTO 

    di Barbara Della Casa

    Prima edizione: aprile 2019

    Tutti i diritti riservati 2019 @BERTONI EDITORE

    Via Giuseppe Di Vittorio 104 - 06073 Chiugiana

      Bertoni editore

    www.bertonieditore.com

    info@bertonieditore.com

    È vietata la riproduzione anche parziale e con qualsiasi

    mezzo effettuata, compresa la copia fotostatica se non autorizzata. 

    Barbara della Casa

    LA PROFEZIA 

      DEL FIGLIO   

     PERFETTO 

    La profezia del figlio perfetto

    Non era come molti si sarebbero aspettati.

    Entrando, la prima impressione era quella di aver sbagliato posto. Spesso, infatti, qualcuno, dopo aver aperto la porta, cercava il biglietto con l’indirizzo stampato a caratteri gotici per essere certo di essere nel posto giusto.

    Disorientava, prima di tutto, la grande luminosità dell’atrio, un’ampia stanza che fungeva da anticamera, anche se non era stata concepita per quello scopo. Due ampie finestre orientate a sud e prive di tende, facevano entrare una luce quasi soffocante. 

    L’arredamento colpiva per la scarsità di elementi funzionali: un piccolo mobile a cassetti e una poltrona di design, accostati a diversi oggetti, fra cui sculture e quadri, piuttosto ricercati, alcuni dei quali di notevole valore. L’insieme, dopo un primo stupore, dava un’impressione di disequilibrio, perfino di disagio. 

    Lì si attendeva e chi avesse potuto vedere senza essere visto, avrebbe notato la persona che, seduta o in piedi, inesorabilmente si tormentava con piccoli e continui movimenti ansiosi. 

    Quando la porta che dava nella stanza successiva si apriva, non ne usciva nessuno. Un sistema di camere comunicanti permetteva al cliente precedente di andarsene da un’altra parte, per non essere visto da quello che entrava dopo di lui, e viceversa.

    Lei restava seduta e apriva le varie porte dai pulsanti sistemati sotto al tavolo. Qui la luce era più soffusa, essendoci un’unica finestra velata da tende chiare. Mai nessuno, tuttavia, avrebbe trovato la penombra: verso sera grandi lampade venivano accese, particolare questo che intimidiva le persone che le si rivolgevano: avrebbero preferito rimanere nascoste da una luce più discreta.

    Nessuna sfera di cristallo, nessun mazzo di carte ma, disposti in un ordine quasi maniacale sulle scansie nella parete alle sue spalle, amuleti di varia grandezza e fattura e diverse pietre dure poggiate su basamenti di legno. Al centro, un grande tavolo ricoperto da un panno scuro. 

    Nel suo aspetto, lei si avvicinava all’immaginario comune dell’indovina: i capelli, originariamente nerissimi, erano screziati da fiamme di un rosso vivo. Gli occhi erano enormi, fortemente bistrati e sottolineati da un trucco ambrato, tanto che sembravano occupare quasi per intero il volto, inghiottendo il naso e le labbra sottili.

    Alcune rughe e il corpo appesantito indicavano un’età non più giovane, anche se non si curava di mascherarla perché era convinta che le conferisse maggiore autorevolezza.

    Quel giorno aspettava il suo cliente più importante, il solo a non essersi mai sentito a disagio entrando lì. 

    Dalla prima visita, avvenuta alcuni anni prima, aveva preteso, imponendo la sua autorità, di non dover attendere nell’anticamera neppure un minuto. Aveva appena sfiorato con lo sguardo l’ambiente senza riceverne alcuna impressione. Ciò che gli importava erano la fama di quella donna e le sue personali convinzioni. 

    Nel tempo era diventata la sua più importante consulente. Grazie a una sapiente miscela di intuizione e furbizia, e anche lei stessa lo ammetteva, a una buona dose di fortuna, le sue previsioni e i suoi consigli erano sempre andati a buon fine. Per un breve periodo erano stati anche amanti, nonostante la notevole differenza d’età. 

    Lui, per la sua necessità di prendere possesso in qualche modo di tutto e di tutti quelli che lo circondavano, unito a un piacere erotico di possederla sul grande tavolo scuro, fra pietre e amuleti. 

    Lei, con la consapevolezza di avere un mezzo in più per carpirgli qualche preziosa informazione che l’avrebbe aiutata a mantenerlo legato a sé. La relazione fisica era finita così com’era iniziata, senza scossoni e senza rimpianti mentre si era rinsaldata la dipendenza di lui dalle sue parole, cosa di cui lei non aveva mai smesso di stupirsi.

    Era perfettamente consapevole del potere che aveva su un uomo a sua volta così potente, ma se avesse fallito, anche del rischio che questo comportava. Sapeva cosa le avrebbe chiesto e la questione era molto delicata e per prepararsi al meglio, per riflettere sul da farsi, aveva annullato tutti gli altri impegni di quella giornata. 

    Quando il campanello trillò, le parve che il suono fosse diverso dalle altre volte, quasi come se ordinasse di aprire la porta. Fu in quel momento che le venne un’idea, forse un po’ azzardata, ma che sembrava fattibile. La elaborò nei pochi secondi che servirono alla sua mano per allungarsi verso il pulsante apriporta sotto al tavolo.

    Era semplice, in fondo. 

    I

    Quando inizia una storia?

    Questa inizia a metà del tempo, quando un tempo è già passato e ha lasciato i suoi scritti come tracce della memoria e un altro tempo deve ancora arrivare, perché c’è un’attesa, un vuoto, un pensiero che deve concludersi. 

    Così la donna, ferma sulla grande terrazza a osservare il mare, particolarmente scuro, schiumoso, addirittura feroce, guardava se stessa dall’esterno, vedendosi come in un quadro. Si metteva in posa, consapevole della forza della sua immagine, pur sentendo che questo quadro non era che un momento di quiete fra il prima e il dopo. Una fotografia che diceva: «Ecco,  da qui si parte».

    La donna rifletteva, senza scomporre troppo l’armonia del quadro, che forse la sensazione veniva da quei giorni strani, durante i quali aveva avvertito l’urgenza di chiudere tutte le questioni in sospeso. Aveva riaperto la casa, quella casa, aveva affrontato le stanze, il patio luminoso, la grande terrazza. Aveva permesso, dopo tanto tempo, che i ricordi più difficili tornassero ad allagarle il cuore.

    Da quanto tempo aveva rinunciato? Da quanto ormai il dolore sedimentato sul fondo della sua anima veniva protetto dal silenzio dei pensieri? Bastava però avvicinarsi appena a quel fondale oscuro, sfiorarlo, tanto da intorbidire lievemente l’apparente chiarezza della quiete, che una fitta terribile avanzava, come se in mezzo a tutto fosse nascosta una scheggia di vetro orientata verso il cuore. 

    La donna si accasciò, perdendo l’immagine si sé, l’armonia del quadro, rotolandosi sul pavimento in preda a un grido, smarrita fra il dolore e ciò che il suo corpo, ancor più che la sua mente, ricordava.

    Qualcosa poi la costrinse a placare l’affanno del respiro, una sensazione così intensa e conosciuta, un odore pungente di erbe aromatiche. Un inganno dei sensi, certo, nulla di piacevole, qualcosa che affiorava dai ricordi portando con sé memoria che si faceva sostanza.

    Fu grata allo squillo del telefono che ruppe quel momento ormai quasi ingestibile. Si rialzò dal pavimento, si ricompose e, dopo un sospiro, rispose. Una voce lontana e sconosciuta chiedeva di vederla. Di parlare con lei di persona, ma senza una reale spiegazione. La voce si limitò a un vago: «È molto importante». E chissà perché, in una vita fatta di difese e diffidenze, a volte istintivamente ci si crede.

    Non pensò a un luogo pubblico, disse che lo avrebbe aspettato a casa e mentre tentava di spiegare dove fosse casa sua, capì che la voce, o meglio, che quell’uomo già lo sapeva. E ancora, seppur provando un certo stupore, nessuna diffidenza la fece desistere. Si fece un caffè e lasciò socchiusa la porta. Attese, apparentemente impassibile, qualcosa che si decideva ancora senza di lei. 

    Quando sentì suonare non ebbe bisogno di alzare la voce per farsi sentire; sapeva che attraverso l’eco dei corridoi e delle stanze in linea retta il suo invito a entrare sarebbe arrivato fino al visitatore. Si concesse perciò il lusso di restare ad aspettare sulla terrazza. Seguì il rumore della porta che veniva chiusa con delicatezza, il rumore dei passi, leggeri, quasi timidi. A un tratto, con un filo d’angoscia, alle sue narici arrivò l’odore familiare, prima amato, poi detestato e ripudiato… si riprese, certa di un nuovo inganno dei sensi che quel giorno sembravano volerla trascinare in luoghi oscuri che da tempo aveva abbandonato. 

    Corrugò la fronte: poteva essere lui? No, impossibile, e troppo terribile sarebbe stato quel ritorno; tuttavia a ogni passo dello sconosciuto aumentava il battito incontrollato del suo cuore tanto che per un attimo pensò di chiudere l’ultima porta e aspettare che chiunque fosse se ne andasse, cercando poi di convincersi che in quella visita non poteva esserci niente di importante. Invece rimase ferma, in attesa. E quando comparve nella cornice della vetrata, lo vide chiaramente: non era chi si aspettava, simile certo, forse più per l’odore che, inconfondibile, arrivava alle narici, che per l’aspetto, certamente più giovane.

    Prima di comporre il numero, l’uomo aveva esitato a lungo. Le sue ricerche l’avevano portato fin lì, ma non era ancora sicuro che quella persona fosse chi stava cercando. Ed era troppo importante trovarla. Per colui al quale l’aveva promesso. Aveva già l’indirizzo della casa, l’aveva già cercata per non rischiare di perdere inutilmente tempo quando e se avesse dovuto raggiungerla… o forse per dare una consistenza reale a quelli che, fino a pochi giorni prima, erano solo indizi.

    Quando udì la voce ebbe un sussulto, quasi una risonanza inaspettata nella sua anima. E non riuscì a nasconderle di sapere già dove fosse casa sua, quando lei gli chiese di raggiungerla proprio lì. 

    Aveva lasciato l’auto, presa a nolo, un po’ distante: voleva percorrere a piedi l’ultimo tratto e concedersi così ancora un po’ di tempo per trovare le parole giuste da dirle. Con stupore, aveva trovato la porta d’ingresso, che dava sulla strada, socchiusa. Aveva comunque suonato e atteso un breve momento prima che la voce di lei gli arrivasse attraverso l’eco delle stanze, invitandolo a entrare. Aveva percorso con cautela quegli ultimi metri, chiedendosi in quale punto della casa fosse. Dovette arrivare fino alla grande terrazza sul mare, sul fondo dell’abitazione.

    Inizialmente vide solo una forma, nitida contro i colori violenti delle nuvole in quel tardo pomeriggio d’estate. Solo il vento, trascinando i capelli quasi purpurei nel contrasto di luci, la dava movimento, tradendo l’immobilità di quello che per un attimo gli era sembrato un quadro. Poi i suoi occhi si abituarono alla luce e la vide. E fu confuso perché non era come l’aveva immaginata. Era più giovane sicuramente, anche se non molto ed era bella, di una bellezza difficile, quella che poteva soggiogare ma anche allontanare un uomo. E poi si accorse che c’era qualcosa di terribile in quegli occhi castani che sembravano non volersi concedere mai e per niente al mondo.

    Esitò, poi disse: «Io… salve, Francesca, è lei vero?»

    «Sì, ma io so chi sono, tu invece chi sei?»

    Gli aveva dato del tu, senza esitazione, in una sorta di presa di potere, come per chiarire, anche se in modo inconsapevole, i ruoli. Francesca era nel suo territorio, l’intruso era lui che abbassò un attimo lo sguardo, come per pudore. Questo gesto involontario addolcì per un attimo Francesca, irrigidita nella sua posizione. Non ebbe la risposta che aspettava, Nessun nome.

    «Ho bisogno di parlare con lei, se avrà voglia di ascoltarmi».

    Francesca restò in silenzio, senza opporsi: in qualche modo sapeva che era il suo passato, a tornare, e questa consapevolezza la terrorizzava, soprattutto perché aveva fatto della razionalità la sua legge di vita e quella strana giornata di sensazioni, ricordi e presentimenti era fin troppo difficile da catalogare. 

    Sentì il respiro farsi più pesante, raccolse tutte le sue forze perché sapeva di dover ascoltare, qualunque cosa fosse.

    «Vengo da parte di lui».

    Quel lui le provocò una contrazione violenta nello stomaco. Il pensiero di chi poteva essere, l’incapacità di chiedere, di pronunciare il suo nome. Il volto dell’uomo di fronte a lei cambiò espressione, cogliendo appieno la sua: aveva compreso e non lasciò più spazio ai dubbi.

    «Da parte di suo figlio».

    Ecco, ora il dolore era troppo forte, non poteva trattenere il grido che usciva come un torrente e trascinava tutti quei detriti lasciati con pazienza a sedimentare. Non si poteva, così, tutto in un colpo. 

    All’improvviso il quadro era distrutto, Francesca altro non era che una forma rannicchiata sul pavimento, neppure il vento la raggiungeva più. Non gridava più, non piangeva, nessuna lecita domanda riusciva a occuparle la mente. C’era solo il dolore, tornato ad annientarla, dolore che diventava gioia e ancora non sapeva… Il confine fra i due sentimenti che continuava a sfilacciarsi, mescolandoli fra loro, confondendola.

    Che fosse vivo, lo sapeva. L’unica promessa che era riuscita a strappargli, l’unico filo rimasto era quello: se fosse successo qualcosa a suo figlio, in un modo o nell’altro l’avrebbe informata. Ma ora che suo figlio sapesse di lei e che avesse mandato quell’uomo a cercarla, era più di quanto potesse sperare e, allo stesso tempo, temere.

    Alzò appena gli occhi: il messaggero era lì, aveva atteso senza spostarsi che in lei erompessero le emozioni violente, che sicuramente si aspettava, e poi che si placassero quel tanto che bastava per riprendere fiato, muoversi, alzarsi e, più importante, ascoltare. 

    Le tese la mano, lei non la prese. Si alzò di scatto, si ricompose con un rapido gesto sul volto e sui capelli. L’uomo aveva parlato e subito si era reso conto che quel pronome, lui, senza definizione, aveva portato sconcerto, ma com’era stato difficile correggersi e dire suo figlio. Perché non sapeva come lei avrebbe reagito e di conseguenza come si sarebbe dovuto comportare. La vide trasalire, la sentì gridare, la guardò poi, in silenzio, accartocciarsi su se stessa, quasi avesse perso i suoi confini. Non aveva osato muoversi, impotente di fronte a quel dolore scaturito da un passato a lui quasi del tutto sconosciuto. Poi, provando un certo sollievo, aveva visto il respiro farsi più regolare, il corpo muoversi di nuovo nella spinta ad alzarsi. Solo in quel momento le aveva teso la mano, in un gesto istintivo, ma lei l’aveva rifiutata e si era di nuovo, agilmente, raddrizzata. Pensò che era una donna che aveva dovuto imparare a raddrizzarsi spesso e sempre da sola.

    Francesca ancora non riusciva a guardare bene il giovane uomo che le stava di fronte, ma era pronta ad ascoltare. Gli fece cenno di seguirla ed entrò nella sala. Chiuse dietro di sé le grandi vetrate, lasciando aperte le tende per non perdere le mutazioni di colore nel cielo. Indicò il divano.

    «Siediti» gli disse.

    Lei rimase un attimo in piedi, prese due bicchieri da una credenza, li strofinò sbrigativamente con un panno, e senza chiedergli nulla versò del vino rosso, forte e aromatico. Ne bevve un lungo sorso ancora in piedi, poi allungò l’altro bicchiere all’uomo e si sedette di fianco a lui.

    «Adesso dimmi come ti chiami».

    «Arnav».

    Solo in quel momento si rese conto dell’accento straniero, anche se per lei non lo era: anch’esso apparteneva al suo passato.

    Ora le domande scaturivano nella mente, affollandosi: dov’è ora mio figlio? Sta bene? Da quanto sa di me? Il desiderio di tutto ciò che doveva dirle era tale da farle sentire intollerabile il tempo necessario della narrazione. Ma non le riuscì di trovare la voce. Deglutiva piccoli sorsi di vino senza quasi sentirlo, gli occhi abbassati non per timidezza, ma per concentrare tutta l’attenzione sulle parole dell’altro. Non c’era bisogno di chiedere, quell’uomo era lì per raccontare, per dire.

    «Ritrovarti», ed era passato anche lui al tu, con naturalezza, riportando i ruoli ad una condizione di parità. «Ritrovarti non è stato facile, il padre è stato abile a cancellare tutte le tracce, tuttavia non è riuscito a cancellare la traccia della memoria… era molto piccolo quando vi siete separati, è vero, tuttavia questa traccia è rimasta fortissima in lui. Ricorda il tuo odore, il tuo modo di guardarlo e stringerlo, particolari che non servivano per rintracciarti, ma ricordava anche questi luoghi, il tuo nome e quello di una signora, credo venisse ad aiutarti, ora sono io che non ricordo bene. Abbiamo messo assieme tutte queste cose e, quando è stato possibile, abbiamo assunto un investigatore».

    Per la prima volta Francesca sorrise in quella lunga giornata.

    «Sì, veniva una donna ad aiutarmi» rispose lei socchiudendo gli occhi. «Che strano, neppure io ricordo come si chiamava» si fermò un attimo incerta: era saggio affidare i suoi ricordi, anche se quelli meno difficili, a quell’estraneo? Ma la voce premeva, per troppo tempo l’aveva oscurata, ed ora sentiva di dover almeno schiumare la superficie, per poter trattenere il resto.

    «…ero molto giovane, lui piccolo e la zia ammalata. Era sempre qui, a fare tutto, a sostituirmi se dovevo riposare o se volevo fare un bagno, una passeggiata. Era lei a mandare via, con fermezza, le persone che lui mandava, che mi mettevano a disagio, mi facevano sentire sorvegliata».

    Ancora quel lui, ora pronunciato da lei e che Arnav capì, con sofferenza, chi fosse.

    «Che stupida!» scosse la testa. «Pensavo che questo bastasse, mentre lui mi lasciava fare perché era già stato tutto stabilito. Ero troppo giovane, lui troppo piccolo». Quattro anni aveva quando…

    La gola si chiuse, la voce si strozzò. Il sorriso si era spento e un pallore si era diffuso su tutto il corpo, tanto da far risaltare le mani quasi azzurrine contro il rosso del vino nel bicchiere. Arnav notò questo contrasto e si stupì di quanto lo trovasse bello e perfetto, tanto da sospendergli per un attimo il respiro.

    Poi la voce di lei lo riprese. «Ma come hai fatto a sapere che ero qui? Da tanto tempo non tornavo in questo posto».

    «Come ti ho detto prima, non è stato facile. Le ricerche sono state lunghe, ma la persona che abbiamo assunto è molto valida. Questa casa è stata la prima cosa che abbiamo scoperto, poi abbiamo trovato il tuo nuovo indirizzo e il posto in cui lavori. Quando al tuo ufficio ci hanno detto che eri andata via per qualche giorno, abbiamo pensato che fossi qui. Sono stati così disponibili che ci hanno dato il tuo numero di cellulare… dovresti denunciarli per violazione della privacy». Sorrise. «Così sono venuto in paese e ti ho chiamata. Se fossi stata altrove, sarei ripartito e ti avrei raggiunta», precisò.

    «Tu e Akhil… perché sei qui tu per suo conto?» 

    «Siamo molto amici».

    Arnav rispose quasi sussurrando e questo colpì Francesca, come se in questa risposta vi fossero diversi significati, ma impiegò parecchi secondi prima di chiedere ancora.

    «Ma perché ha mandato te a cercarmi? Se voleva vedermi, perché non è venuto lui? Che cosa vuole da me? O forse…» e in un lampo un pensiero terribile le spaccò il cervello. «Sta male? Mica starà morendo? Ma non può, non può prima che io lo riveda, non adesso, non…». 

    La voce impercettibilmente, ma in maniera costante si era alzata, seguendo l’onda dell’angoscia che i pensieri senza controllo facevano rimontare. 

    Fu la voce di Arnav, calma e forte, a spezzare quel frastuono interiore: «Lui sta bene».

    Francesca alzò gli occhi e lo guardò, sollevata, ma piena di dubbi. 

    «Allora perché…».

    «Non può muoversi, o meglio, potrebbe ma… non sarebbe la stessa cosa».

    Lei non capiva, non poteva capire. Rimase quindi in ascolto.

    «Mi ha chiesto di portarti da lui, mi ha chiesto di fidarti di lui… e di me, se puoi».

    Improvvisamente si era resa conto che in tutto quel tempo aveva ascoltato solo parole e che niente era stato portato a prova della loro realtà. In quale angolo, in quei minuti, aveva relegato la sua diffidenza, la sua corazza protettiva che la faceva dubitare di tutti e di tutto anche quando tutte le carte erano scoperte e visibili? 

    «Fidarmi… come?»

    Con un solo breve gesto lui le rispose. Dalla tasca tirò fuori un involto e lo diede a Francesca. 

    Lei intuì cosa vi avrebbe trovato, e nello stesso tempo sperò di non sbagliarsi. Aprì lentamente: all’interno un sasso apparentemente insignificante, ma non per Francesca. La sua forma e il colore rossastro ricordavano vagamente un cuore. Lo prese e lo portò verso il suo cuore, i cui movimenti ormai erano incontrollabili. E dalla mente emersero le immagini di un giorno di molti anni prima. Erano sulla spiaggia, lei e suo figlio, in una delle tante passeggiate. Lei camminava con la lentezza di una donna adulta mentre il bambino correva e si fermava, a tratti saltellando, sprigionando l’energia dei suoi tre anni e mezzo. 

    Lo sguardo di Francesca lo tratteneva come un filo invisibile, timorosa che i suoi passi lo portassero troppo vicina all’acqua e che il mare lo inghiottisse. Sebbene spesso facessero il bagno insieme e nonostante la tranquillità del mare, questo timore irrazionale la prendeva quando Akhil si allontanava da lei e correva sul bagnasciuga. 

    Si era chiesta allora se fosse il ricordo della prima volta che aveva visto suo padre, di come era emerso dal mare, che gli faceva temere che allo stesso modo il mare si riprendesse suo figlio. 

    All’improvviso lo aveva visto fermarsi, di colpo, fissare qualcosa tra la sabbia e l’acqua e poi chinarsi lentamente. Un attimo dopo era tornato da lei trionfante, stringendo quel sasso, capitato lì chissà come. 

    «È il mio cuore portafortuna!» aveva detto e da allora non se n’era più separato. Ogni volta che gli cambiava i vestiti doveva rovistare nelle tasche per non perderglielo. 

    Di notte, Akhil lo metteva sotto al cuscino. 

    Lei lo avrebbe riconosciuto ovunque e vedendolo, lo riconobbe subito. In quel momento accettò tutto: la realtà di ciò che aveva sentito, il viaggio, ciò che sarebbe accaduto.

    «…Raggiungerlo? Dove, ora? È ancora in India?»

    Francesca pensava ad alta voce, mentre immagini passate e pensieri sul futuro si accavallavano in un disordinato fluire. Aveva colto il cenno di assenso di Arnav: quindi Akhil era ancora là. D’improvviso, un dolore, come spesso accadeva, fra tante parole, che espresse a voce, sommessa, come parlasse fra sé: «Cosa pensa di me, cosa sa di quello che è successo?». Nel dirlo, alzò il viso e osservò finalmente l’uomo che le stava di fronte, interrogandolo in silenzio, sperando che lui avesse quella risposta. Capì subito che la risposta non c’era: gli occhi tradivano il malessere di non saperle rispondere, due occhi scuri e profondi. Francesca osservò allora di sfuggita il resto della persona, cogliendo solo in quell’attimo la pelle ambrata e i capelli lisci, i tratti somatici tipicamente indiani, il volto bello, aperto, su un corpo magro e nervoso.

    Arnav ricambiò il suo sguardo, poi lo abbassò. «Come me, neppure lui sa bene come sono andate le cose… ma c’è una sensazione che ha sempre avuto e che l’ha spinto a cercarti da quanto ha avuto la possibilità di farlo: che tu non l’abbia veramente abbandonato, nonostante tutto quello che gli è stato raccontato. Tu hai detto prima, e io non lo sapevo, che ti è stato portato via. Questa è una di quelle tracce vaghe che Akhil ha sempre mantenuto, la sensazione di uno strappo, di una violenza. Vuole la verità e la vuole sapere da te, l’unica che può raccontarla. Per capire la sua vita, il suo passato, forse anche la ragione delle sue scelte». 

    «E… il padre?» la domanda arrivò quasi soffocata: se ne stava lì dall’inizio, ma solo a farla l’amaro le saliva in bocca.

    «Suo padre è un uomo… difficile» rispose. «Ha fatto di tutto per trasformarlo in un altro sé, ma ha fallito. Akhil si sentiva profondamente diverso e anche il confronto fra quello che è suo padre, il suo modo di comandare, di plasmare la vita altrui e quello che ha raccontato di te, gli ha fatto

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