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Missione proibita
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E-book572 pagine7 ore

Missione proibita

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Info su questo ebook

Briar Rose. Thomàs. Segreti. Massoneria europea. Irlanda celtica. Londra. Un’attrazione magnetica. Due passati importanti. Un presente incerto e un futuro sconosciuto. E’ così che la realtà si fonde con la fantasia.
In un tuffo verso la verità più oscura, dove il bene e il male assumono contorni sfocati, una giovane donna e un uomo potente, si scontrano, fino a perdersi l’uno nell’altra in un vortice di passione e incontri proibiti.
Niente sarà come pare, e da perfetti amanti, si ritroveranno a fare i conti con i fantasmi dei loro passati. Fantasmi che li uniscono e che allo stesso modo li separano.
E se poi scoprissero che il bene e il male non esistono? Se scoprissero che sono solo nomi verso ciò che dobbiamo per forza categorizzare?
L’oscurità e l’intricata rete invisibile che ci consacra cittadini, prima ancora di esseri umani, faranno scoprire mondi sommersi, ma che quotidianamente viviamo.
Briar Rose e Thomàs saranno davvero figli dell’immaginazione? Niente vi sembrerà più come prima.
LinguaItaliano
Data di uscita1 dic 2021
ISBN9788831320092
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    Anteprima del libro

    Missione proibita - Viviana A.K.S.

    Viviana A.K.S

    decoration

    Missione proibita

    Viviana A.K.S.

    MISSIONE PROIBITA

    Curatrice editoriale: Rebecca Puzzi

    Immagine di copertina e impaginazione: PINKGUINO

    edizione Dicembre 2021

    ISBN - eBook 9788831320092

    acquista i libri stampati direttamente su: www.santieditore.it

    i libri in eBook in tutte le librerie online

    Santi Editore

    Cremona

    guido@santieditore.it

    ISBN: 9788831320092

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    https://writeapp.io

    Imagination is the only weapon in the war with reality.

    -The Cheshire Cat, Alice in Wonderland -

    Il libro

    Briar Rose. Thomàs. Segreti. Massoneria europea. Irlanda celtica. Londra. Un’attrazione magnetica. Due passati importanti. Un presente incerto e un futuro sconosciuto. E’ così che la realtà si fonde con la fantasia.

    In un tuffo verso la verità più oscura, dove il bene e il male assumono contorni sfocati, una giovane donna e un uomo potente, si scontrano, fino a perdersi l’uno nell’altra in un vortice di passione e incontri proibiti.

    Niente sarà come pare, e da perfetti amanti, si ritroveranno a fare i conti con i fantasmi dei loro passati. Fantasmi che li uniscono e che allo stesso modo li separano.

    E se poi scoprissero che il bene e il male non esistono? Se scoprissero che sono solo nomi verso ciò che dobbiamo per forza categorizzare?

    L’oscurità e l’intricata rete invisibile che ci consacra cittadini, prima ancora di esseri umani, faranno scoprire mondi sommersi, ma che quotidianamente viviamo.

    Briar Rose e Thomàs saranno davvero figli dell’immaginazione? Niente vi sembrerà più come prima.

    Autrice

    Nata in Italia nel 1982 da genitori italiani ma con radici inglesi, vive e cresce tra Milano e la campagna inglese, dove risiedono cugini cui si affeziona molto.

    Persegue gli studi con l’obiettivo di una laurea a Cambridge, suo sogno originario, che si scontra, però, con l’incontro dell’attuale marito, situazione che le sconvolgerà piacevolmente i piani e la vita in sé.

    Mai separatasi dal senso di appartenenza e dall’affetto viscerale per i dintorni londinesi, termina gli studi in Italia, lavorando per un breve periodo per la compagnia aerea di bandiera spagnola, prima di dedicarsi completamente alla crescita dei suoi tre figli.

    Esordisce nel Luglio 2015 con Privilegio Pericoloso, un ebook che scala velocemente le classifiche di vendita, divenendo in poco tempo, uno dei bestseller più venduti in Amazon.

    Moglie, madre, ma soprattutto donna, non smette mai di essere una sognatrice con i piedi per terra, una donna che non smetterà mai di credere nella potenza e nella forza della più grande arma sulla Terra, l’Amore.

    31 Ottobre 2008

    Il pavimento di granito è lucido, le luci soffuse, le musiche delle cornamuse in piazza si sentono come un’eco in lontananza, un sottofondo spettrale che si mescola alle arpe che stanno suonando alle mie spalle, ai lati dell’ampio corridoio con i muri coperti da affreschi del 1400.

    Tre candelieri alti fino alla vita attendono qualcuno, mentre, in maniera circolare, si sono posti i membri, tutti debitamente incappucciati nei loro mantelli rossi, sorretti al collo dal cordoncino annodato con l’effige della loggia, la Croce di Caithlin.

    Il mormorio cantilenato fa venire i brividi, così come l’aria fresca che esce dalle pompe d’aerazione poste sul soffitto antico.

    Resto ben nascosta dietro un pilastro di marmo in fondo alla stanza, il cuore che mi pulsa nelle orecchie.

    Cerco Greg con gli occhi, ma non lo trovo. L’avevo seguito fin qui solo perché aveva salutato qualcuno qua fuori, poi una specie di attrazione soprannaturale, più potente che qualsiasi curiosità, mi ha spinto ad addentrarmi qui e osservare questa… che cosa diavolo è? Non è una messa in scena, non è un film, non è un’attrazione turistica. Credo sia una Congregazione. Fatto sta che una specie di mago, alto, con il mantello rosso, mette i brividi. A ogni modo ho perso di vista Greg, rimasto là fuori da qualche parte, e a guardare la situazione, non mi resta che uscire di soppiatto, sperando di non disturbare nessuno e magari di non finire al rogo, probabilmente uno di quelli che sta incendiando proprio ora nelle varie piazze.

    Eppure la mia curiosità vince, costringendomi a restare e capire. Ma qualcosa che in cuor mio ho già capito.

    Non è un gioco. Scacchi, candelieri, mantelli, monili celtici e quelle pesanti collane… Massoneria. Mi sono state raccontate cose orribili sulla massoneria. Mio nonno diceva sempre che tengono in mano il mondo e lo muovono con dei fili invisibili. Decidono vita e morte di tutto e tutti, dall’economia di ogni paese alle guerre. Nelle mani dei massoni passano verità nascoste e poteri infiniti, comandando senza farsi scoprire. Ed io, un assaggio della loro malvagità, l’ho avuto.

    I cavalieri della congregazione alzano la testa e attendono qualcuno. Qualcuno che sta avanzando con un passo elegante e deciso, fiero e al tempo stesso spaventoso.

    Mi pizzico per cercare di capire se sto sognando o se sono finita dritta dentro il set di un film horror, magari di fronte a spettrali vampiri ma no, sono sveglia… purtroppo. Mi mangeranno se mi vedono? Mi morderanno il collo e vagherò per l’eternità come uno zombie o un qualsiasi non-morto? Oppure tenteranno di finire quello che non hanno terminato due anni prima? No, avanti, non abito più a Strasburgo, qui sono in Irlanda.

    Il cuore mi sobbalza nel petto e per poco non inciampo. Poi mi concentro e cerco di catturare ogni singolarità. È senza alcun paramento, non ha ruoli.

    Sposto con la mano destra l’abito pesante che indosso per non inciampare e il fruscio della pesante stoffa attira l’attenzione del Gran Maestro, l’uomo che riconosco in tale veste dal mantello più bello, ornato con fili dorati alle estremità.

    Sento il cuore battermi nelle orecchie, così tento di restare ferma e immobile e i cori di litanie aiutano a mascherare quel fruscio ora scomparso, facendo svanire la curiosità del Gran Maestro, per mia fortuna.

    Quando il nuovo membro giunge davanti ai candelieri, sfioro la spilla con il fleur-de-lis, il simbolo della nostra famiglia, che Greg mi ha appeso sul mantello accanto al cuore, che sembra voler uscire dal mio petto. Se non mi rilasso, potrebbero sentire il tamburellare del mio organo vitale, oppure potrebbero scambiarlo per i tamburi là fuori, tento di consolarmi.

    Il tizio rimane chiuso in un cerchio di tredici persone incappucciate che sostengono ognuno una candela spenta ma già usata, simbolo della loro appartenenza da più tempo, immagino, sopra un pavimento a scacchi, davanti alla sola luce di tre ceri accesi e da una colonna in basalto alta quanto i candelieri sui quali sosta, illuminata da un faro dell’immenso soffitto, una coppa in oro fregiata con il triskele, il nodo di Caithlin e il sigillo di Salomone.

    Il Gran Maestro si fa avanti.

    <

    Solo agli uomini spetta l’onore di parteciparvi.

    Ci sono regole ben ferree per entrare nella loggia. Una di queste, recita così: i fratelli, che alla tavola siederanno per la prima volta, dovranno indiscutibilmente mettere la loro vita nelle mani del loro fratello accanto e svolgeranno ogni dovere secondo il volere del Supremo, il che significa che dobbiamo essere davvero credenti in un Dio, non importa di quale religione, e soprattutto dobbiamo fidarci della loggia e dei loro membri a occhi chiusi.

    Ora, ti chiedo di afferrare la candela che ti sarà consegnata, e che più tardi accenderai tramite i ceri di Acqua, Terra e Fuoco. Non tutti riescono, nel percorso della vita, a scoprire il messaggio contenuto nella coppa della Verità, ma possano gli intrecci della Vita, l’energia spirituale, il percorso di crescita e la relazione con tutti gli esseri della natura, aiutarti a raggiungere la Perfezione>>.

    Il primo dei dodici Cavalieri della congregazione si fa avanti e sotto il mormorio di una serie di preghiere antiche in gaelico che è cantilenata da ogni membro, inizia ad accendere la sua candela, facendo passare lo stoppino in tutti e tre i ceri accesi.

    Quando ogni membro ha seguito l’esempio del primo, il Gran Maestro accende la sua candela e resta davanti alla coppa della Verità.

    A quel punto, il nuovo adepto si avvicina al primo candeliere e il Gran Maestro inizia la sua preghiera per lui.

    <>.

    Quello accende la sua candela poi s’inginocchia sempre con il capo coperto dal cappuccio del mantello scarlatto, nel cerchio formato dalle cinque punte, attorno al Gran Maestro.

    Il Gran Maestro passa con un collare, il cui ciondolo evidentemente gli ricorderà a quale Loggia è aggregato. <> gli domanda.

    <>, esclama lui, una voce potente, che mi arriva dritta sin dentro le viscere. E’ colma di seduzione e virile e decisa. Il Gran Maestro colloca al suo collo il pesante collare, che fa sentire immediatamente l’importanza della promessa. <>.

    Sempre inginocchiato, riceve dei guanti. <>.

    Sul serio? Se anche avessi avuto dubbi, queste parole me li avrebbero spazzati via. Sono una vera e propria setta! E quella constatazione mi fa tremare.

    Indossa i guanti, che gli calzano perfettamente ed ecco che il Gran Maestro gli consegna un altro paramento, un grembiule che somiglia al simbolo Gmail.

    Allunga le mani e su di esse, ormai coperte dai guanti, riceve il grembiule bianco, che si apre come una busta, i cui contorni rossi sembrano formare una M.

    <>.

    Sembra tutto così surreale. Fuori da queste mura antiche turisti e gente proveniente da ogni angolo del pianeta stanno festeggiando il Festival Celtico, ignara del vero significato di questa festa pagana. Persino io, così come gran parte della popolazione che qui vive, abbiamo sempre creduto fossero leggende. Fino a ora.

    <>.

    Si alza, il suo corpo lo intravedo solo, ma è alto, e la mia pelle formicola.

    Annoda il grembiule in vita, sotto il mantello e il Gran Maestro parla ancora. <>. Gli consegna una candela e lui si avvicina a passi decisi ed eleganti al primo candeliere. E nell’aria si alza una preghiera cantata.

    Dopodiché il Gran Maestro afferra la coppa della Verità in una mano e la sua candela nell’altra. I dodici membri si mettono in fila dietro di lui e tutti iniziano la processione per la stanza adiacente, dove un’enorme tavola rotonda li attende. La posso intravedere attraverso un’immensa apertura di marmo a lato del salone, dove le luci sono più chiare, non più solo formate da fiamme di candele che oscillavano come in una danza celtica attorno a qualche Dolmen.

    Ognuno occupa posto attorno alla tavola e dei piccoli candelabri singoli, segnaposto che trovano di fronte ai posti a sedere, li invitano a lasciare lì ognuno la propria candela.

    Inconsciamente faccio un passo in avanti per avvicinarmi, la paura dell’esser scoperta ormai soppiantata dalla curiosità. Che cosa fanno queste persone?

    Tutti stringono le mani del proprio vicino e abbassano il capo. Il Gran Maestro passa a ognuno un lungo nastro rosso e tutti prendono un lembo del nastro tra i palmi del vicino, in modo da sembrare legati tutti assieme. Quasi rido pensando a quanto tutto questo somigli al momento dei Christmas cracker che strappiamo con l’aiuto del nostro vicino di posto durante il pranzo di Natale.

    <> esclama il Gran Maestro prima di lasciare il suo nastro e bere dalla coppa per poi farla passare. Ognuno di loro beve un piccolo sorso di quell’elisir, un miscuglio di vino con note fruttate, dolciastre, un sentore che giunge fino al mio olfatto. Sono certa che quell’aroma e quel gusto lo rendono quasi un nettare dal quale non vorresti più staccarti, rinunciando ad assaggiarne più del dovuto proprio per lasciarne abbastanza per tutti i membri in segno di rispetto.

    Ritornata nelle mani del Gran Maestro, la coppa è posata sul grande tavolo.

    <>.

    Alzo il mio viso sul nuovo cavaliere, curiosa di vederlo in volto e ciò che mi trovo di fronte… mi sconvolge l’anima. Quando i suoi occhi cerulei, così lucenti, incontrano i miei, i piedi mi trascinano via correndo, la mente ancorata a quel ragazzo bellissimo, quel ragazzo la cui voce e la cui presenza mi ha costretta a restare a osservare, al Gran Maestro, ignaro della situazione, alla società che mi ha assimilato fino a farmi ricordare, con uno schiaffo, le parole di nonna. Non farti ammaliare dalle belle apparenze, spesso sanno nascondere le peggio cose.

    Peccato che quel bell’essere ammaliatore io lo conosca. E’ l’uomo con cui passai la mia ultima notte da rapita. Furono solo due settimane, abbastanza per farmi spogliare dai miei abiti adolescenziali e indossare quelli di una donna. Non so cosa sarebbe potuto accadermi, quello che ricordo bene sono i mesi successivi, il mio ricovero in una struttura di disintossicazione, l’oscurità. Qualcuno, quella sera, pose la parola fine a quella situazione di terrore tra lusso sfrenato, uomini ripugnanti, e lei, una donna giovane terribilmente cattiva che mi aveva promesso un’altra vita.

    Ricordo che ballavo, così come la donna cui ero stata affidata mi aveva detto di fare, la pelle che bruciava sotto l’abito, esito del terrore, le lacrime che a fatica trattenevo dietro le ciglia, obbligandole a un ritiro forzato, poi mi fermai a bere. Qualcuno si mise a parlare con me. Non sono mai riuscita a ricordare i volti. Ricordo solo che tornai a ballare e qualcuno iniziò a ballare con me. Mi stringeva da dietro, in una stretta sicura, mentre mi faceva ondeggiare, accompagnando i miei sensi verso un limbo sfocato. Ricordo il suo profumo, deciso come la sua stretta e sensuale quanto le sue mani. Ah, quelle mani. Semplicemente perfette, con dita lunghe e virili, energiche come la sua voce che sbuffò nel mio orecchio. Appena udibile ma si capiva dal timbro che era autoritaria e giovane.

    Cercai di capire cosa mi diceva, ma il cervello non collaborava. Mi sforzavo, ma era come se il mio organismo stesse lentamente scendendo verso l’abisso del malfunzionamento.

    Arretrammo fin non so dove, poi mi voltai e lo vidi di spalle. Alto, spalle imponenti. Peccato si stesse sollevando un cappuccio sulla testa. O forse era qualcun altro. Nel farlo intravidi il polso di qualcuno, forse proprio il suo, per quei pochi millimetri che la camicia permetteva. Sulla pelle del polso aveva marchiato un simbolo. Un simbolo celtico.

    Non vidi altro. Poi l’uomo incappucciato mi portò via. Riuscii a scorgere solo i suoi occhi, ma non li scorderò più. Mi marchiarono l’anima. Mi guardò con quello sguardo fiero, mi carezzò il viso, ricordo il suo profumo passare nelle mie narici e narcotizzarmi peggio di quella sostanza. Quello che rammento dopo sono solo memorie confuse. Sentirsi sollevare e fluttuare nell’aria, le sirene, urla, l’ospedale, la polizia, la mia famiglia preoccupata, adirata. Perché nel mio sangue trovarono droghe di ogni genere. Tentai di difendermi, ma non mi credette nessuno. Perciò chiusi quelle due settimane in un angolo del cervello e cercai di conviverci senza lasciarmi uccidere da quei ricordi.

    Ho sempre pensato che fosse stato un uomo la cui pietà mi aveva salvata, forse un poliziotto, non certo un massone.

    Giungo fin sull’ingresso della cattedrale sconsacrata, le guardie armate che restano spaesate nel vedermi uscire, e mi fermo appoggiandomi a una delle colonne di granito e basalto per riprendere fiato.

    Ho un’ottima resistenza, ma quel maledetto vestito celtico m’impedisce di correre come vorrei. Quando mi volto per vedere se sono riuscita a fuggire scampando da chissà quale conseguenza, odo i passi veloci di qualcuno ed è allora che ritrovo la forza per fuggire ancora, dirigendomi verso il bosco che circonda la cattedrale, illuminato dalle luci dei roghi del Festival, dai fuochi d’artificio e dalla luna splendente e piena. Arrivo sulla collinetta e finalmente il mio urlo esce con tutta la sua potenza, facendomi accasciare a terra, sebbene il chiasso della gente accorsa a guardare il Festival, quella festa celtica di cui non conoscono i retroscena reali, mescolato al suono acuto, melodioso e penetrante di cornamuse e tamburi, lo faccia sembrare un rumore stridente di cui nessuno intuisce la provenienza. Nessuno sa che proviene dal profondo delle mie viscere, dilaniate dal constatare che il mio passato, quello con il quale credevo d’aver chiuso i ponti, in realtà resta dietro l’angolo grazie a gente dall’apparenza gentile e nobile ma che nasconde loschi affari di cui mai nessuno capirà davvero i proventi. E non posso nemmeno sentire la frase l’importante è il fine, non i mezzi, perché è proprio attraverso quei mezzi che il fine va vanificato. Non importa se il fine è corretto, se sbagli il modo in cui lo raggiungi, esso stesso è un errore.

    <>, mi domanda la voce incantevole che avevo sentito dentro di quell’imponente e freddo salone accorrendo alle mie spalle.

    Non riesco a sollevare il viso sul suo, ma mi accorgo delle sue mani che mi afferrano per le spalle. Ed è una scintilla che innesca un incendio. Mi aggrappo ai suoi avambracci e mi costringo ad alzarmi, rendendomi conto della sua stretta gentile ma che tradisce… qualcosa.

    Ed è tutto un déjà vu. <>, balbetto, prima di dire qualcosa. <>, sospiro, l’educazione che mi è stata impartita che inizia a fare a pugni con l’adolescente impertinente che è insita in me. Perché non ha corna, occhi rossi e pelle verdastra? Perché è l’esatto opposto dei demoni brutti che t’immagini?

    Lui lascia la presa su di me e sfiora la mia spilla. <>, constata, incredibilmente meravigliato, sbagliando, però, un termine, che io evito di correggere.

    <>, gli urlo contro, senza mai alzare gli occhi su di lui. Intravedo il suo kilt verde e blu, le sue gambe forti e lunghe ricoperte dai tipici calzettoni bianchi, le sue scarpe di pelle stringate, il ridicolo grembiule di Gmail e il mantello che gli ricade elegantemente su quelle spalle possenti.

    Lui si avvicina e mi afferra nuovamente per le spalle, agguantando il mio mento. <> mi domanda duro.

    Apro gli occhi pronta a trafiggerlo con uno sguardo glaciale, ma è quello che fa lui con me. Mi blocca le sinapsi con la sola forza di quello sguardo appena visibile sotto la luce notturna, le iridi illuminate da ogni colore che sta esplodendo nel cielo irlandese. <>, dice, sillabando parola per parola.

    Quella minaccia velata mi riporta alla mente le parole che aveva pronunciato subito prima. Ed è allora che mi divincolo dalla sua stretta, la mia spilla che si aggancia al cordoncino rosso che poco prima aveva usato in quella legatura di mani e che fino ad ora invece, stava appeso al suo mantello.

    Cordoncino e spilla finiscono a terra ed io perdo il controllo di me, andando rovinosamente a impattare dentro a uno stagno.

    Terribilmente infastidita, mi alzo, inizio a spogliarmi velocemente, lui che mi guarda esterrefatto, cercando di raccogliere ogni mio indumento.

    Resto in biancheria intima, a soli dieci gradi, di fronte a lui, alle mie spalle le immense pietre che si ergono fino a trafiggere il cielo.

    <> urlo, in preda a sentimenti sconosciuti. Non è disperazione, quella che provo, no, è puro e semplice disgusto. Per me. Per loro. Per l’intera società. Nessuno escluso.

    Quando rinsavisce dallo spettacolo che gli ho appena offerto, accorre alle mie spalle e mi avvolge attorno al mantello, bloccando le mie mani dietro di me. <>. Tenta di convincermi.

    <> gli domando sarcastica divincolandomi invano dalla sua presa ferrea.

    Lui posa le sue labbra al mio orecchio e sbuffa, mentre una serie incontrollata di formicolii mi fa tremare. <>, ribatte in affermazione, trascinando me e i miei panni fin dentro la loggia.

    <> gli chiedo tra l’adirato per come mi sta trattando, l’imbarazzato per la mia performance e l’impaurito per l’ignoto. <>, lo imploro, la mente che tenta di salvarmi dalla pazzia trattenendo i ricordi della mia fuga finita in rapimento sotto chiave.

    Immagino i volti delle persone divertiti, che cantano, ridono, le loro guance rosse dopo intere bevute, i loro occhi, gli specchi delle luci dei fuochi che concorrono a rendere la notte del Festival, in fine ottobre, un’esperienza indimenticabile e imperdibile sia per gli abitanti, sia per i turisti che qui convergono da ogni parte del mondo ogni anno.

    Poi inspiro il profumo pungente e veramente sensuale di questo ragazzo e chiudo gli occhi, lasciandomi andare alla sensazione di essere sorretta e protetta fra le sue forti braccia. Per la seconda volta nella mia vita non m’importa di nulla.

    La rabbia, l’imbarazzo e la paura sono spazzate via in un lampo ed io mi lascio trascinare.

    Una volta dentro cammina a grandi falcate verso un’altra stanza, che richiude con un calcio del piede prima di lasciarmi andare. <>. Dice solamente lasciando cadere a terra i miei vestiti pesanti e fradici.

    Il suo fiato è ansimante, segno che non è stato una passeggiata trasportarmi fin qui dentro. Mi osservo in un grande specchio, ripulendomi il mascara che cola lungo le mie guance con il palmo delle mani. I capelli sono ancora in parte intatti, in compenso sono pallida come un cencio.

    Mi stringo il mantello attorno al corpo mentre mi guardo attorno, improvvisamente impaurita di nuovo.

    E’ un locale tetro, scuro, come ogni essenza della loggia. Le grandi finestre sono arcuate, sui vetri compaiono scene di guerra, che ben si accompagnano alla sensazione di terrore che provo stando in questo posto. La fioca luce che filtra oltre quelle vetrate mi rende capace di osservare i tappeti persiani che ricoprono quasi interamente il vecchio pavimento in parquet di faggio, la grande scrivania le cui gambe sono state intarsiate a mano tanto da sembrare zampe di qualche animale grosso e spaventoso, sulla cui superficie linda e lucida sono posati un portalettere di cuoio e un antico pennino con dei fogli molto più recenti.

    Alla mia destra, di fronte a un imponente camino di marmo bianco, si trovano due poltrone retrò del medesimo stile del divano, posti le due in fronte all’ultimo, a dividerli un basso tavolino con un servizio da tè in argento.

    Poi mi volto, lentamente, verso quel ragazzo più grande di me che non conosco, ma la cui bellezza mi catapulta nella stupidità, e mi rendo conto che i nostri abiti rispecchiano esattamente lo stile di questa stanza. Appartengono a tempi antichi, lui a questa loggia, una delle più antiche della nazione stando a quanto ho origliato poco prima, il cui unico intento è di monopolizzare il mondo, decidendo chi deve essere aiutato e chi no, a discapito di quello che il loro giuramento dovrebbe realmente rappresentare, ossia la possibilità di elevarsi spiritualmente verso la perfezione attraverso atti di grande generosità e altruismo. Indistintamente. E senza ricevere nulla in cambio, solo mettendo al servizio della Loggia le loro capacità.

    Un sorriso colmo di sarcasmo mi esce dalle labbra. Quante idiozie ho già sentito in soli diciotto anni della mia esistenza.

    Gli occhi del ragazzo splendono anche al buio, sono due fanali dai contorni grigi in mezzo a tutta quest’oscurità. Si è tolto la mantella, il ridicolo grembiule, la giacca nera che ricopriva il gilet del medesimo colore e la camicia bianca splende come se avesse un neon sul suo corpo.

    Il tartan dei kilt che rappresentano maggiore potere, qui, è solitamente verde e blu, quello che indossa lui che indossava il Gran Maestro...

    <>, gli chiedo conferma dei miei pensieri che stanno correndo più veloci di quanto riesca a fare io.

    <>, mi dice, porgendomi un bicchiere di… di cosa? Il colore è ambrato, l’odore, una droga per l’olfatto.

    Scuoto la testa. <>, rifiuto.

    <>, ribatte immediatamente lui, quasi consapevole che gli avrei risposto in quel modo.

    Deglutisco e afferro tentennante il bicchiere che mi è porto. Annuso. E’ qualcosa di alcolico, qualcosa che, anche se temo, non ha bisogno di grandi sforzi per finire in gola.

    Scivola con piacere lungo la trachea, un sapore dolciastro tuttavia non stucchevole, fresco, fruttato, frizzante ma non troppo.

    Un’estasi. Un mugolio di piacere esce spontaneo dalla mia bocca mentre odo il suo sospiro soddisfatto e dei movimenti, i miei occhi chiusi, persi in campi fioriti e frutta fresca estiva da raccogliere.

    Mi volto e lo vedo trafficare con un cellulare.

    <>, chiedo agitata.

    <>, dice prima di uscire.

    Ne sono certa. Mi volto tentando di trovare i miei lunghi, pesanti e orribili panni, ma i miei movimenti cominciano a essere rallentati. Devo uscire, andarmene da qui. Più in fretta del vento. Inciampo nel lungo abito e un’imprecazione è d’obbligo.

    Mi rimetto in piedi e arruffo le mie cose per raccoglierle al meglio. Indossarle nuovamente sarebbe un’impresa eroica, nelle mie attuali condizioni.

    Non faccio in tempo a raccogliere ogni lunga stoffa che sento dei passi correre verso di me. <>, sento dire da qualcuno che non è il ragazzo.

    <>, dice infine il ragazzo. Bellissimo… maledetto… ragazzo… se ti vedo, forse ho davvero le allucinazioni… Con l’ultimo brandello di forza che mi resta, allungo la mano per raccogliere il cordoncino, infilando tutto sotto il mantello che copre la mia nudità.

    L’ultima cosa che faccio prima di chiudere gli occhi è guardare lo sconosciuto in volto e mimargli ti odierò per tutta la vita.

    Poi anche le mie orecchie si arrendono e la mia mente varca la soglia della nebbia.

    La mattina dopo fui trovata dal maggiordomo dei nonni, i quali erano stati informati da una chiamata sconosciuta della mia presenza da ubriaca a una festa.

    Fu nella mia stanza che mi resi conto che avevo preso il cordoncino, ma avevo perso la mia spilla.

    E fu in quel momento che mi resi conto che mai nessuno mi avrebbe creduto e sicuramente non potevo cambiare il mondo.

    Quella notte, infatti, scoprii che la massoneria circondava ogni centimetro di città, di mondo, di vita. Affondava le sue radici nel profondo della società per far sorgerne i frutti dovunque, sommergendo il mondo fiorito come un’edera da estirpare ma che continua a rinascere.

    Solo dopo, però, mi resi conto che avrei rivissuto quei momenti in eterno. L’imbarazzo per l’essermi spogliata davanti a quello sconosciuto mi avrebbe distrutto anche a distanza di un milione di anni. Ma soprattutto non gli avrei mai perdonato quello che mi aveva fatto.

    Mi aveva reso schiava di un’unica allucinazione. La sua.

    Nonna diceva sempre che non avrei mai dovuto lasciarmi incantare dall’aspetto delle persone, perché dietro di esso si nasconde ogni genere di segreto. Non avrei capito il vero significato di quelle parole per molti anni ancora.

    Quello che avrei scoperto molto tempo dopo, infatti, era che un giorno quella vicenda l’avrei vissuta con altre prospettive mentre il mio nome sarebbe diventato un lontano ricordo. Un ricordo soppiantato da un falso. Una falsità che sarebbe entrata nella mia vita e avrebbe occupato il posto della verità.

    Una falsità che avrebbe fatto parte della mia quotidianità, che sarebbe diventata essenziale per me così come l’aria che respiro. Una falsità che sarebbe stata complice e artefice della mia salvezza.

    Sì, perché Briar Rose era il mio vero nome. Questa, invece, è la mia storia.

    1

    E quindi scende giù il silenzio,

    Sulle ali del pensiero

    La bimba sogna che percorre

    La terra del mistero […]

    Accogli questa fiaba

    E con gentile mano

    L’intreccio di ricordi e sogni

    Riponilo, ma piano,

    Come del pellegrino i fiori

    Che vengon da lontano.

    -Carroll, Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie-

    Briar

    <>, mi dice Yana con una punta d’invidia. <>, si domanda mentre ripiega sulla penisola della cucina una camicia stirata da poco.

    Io le cederei volentieri il mio posto, se non fosse per zia Sarah.

    <>, le dice con un pizzico di gelosia Chase, il suo fidanzato, seduto sul nostro divano a sorseggiare una birra.

    Gli sorrido. <>

    Lui mi lancia uno sguardo condiscendente che mi fa ridere. Quando lo vedo in azione alla frontiera aeroportuale, è tutto serio e ligio al dovere, ma con noi e con gli amici è un gran burlone. Fatto proprio per stare con Yana.

    <>, insiste lei.

    Inizio a ridere di gusto, Chase che scuote la testa. <>, dico tra una risata e l’altra.

    Yana mi lancia una mia maglietta e mi guarda di traverso, la mia risata che non cessa per nulla. <>, mi prende in giro.

    Mi levo la t-shirt dal viso e la piego alla bene e meglio, poi la poso sul tavolo da pranzo.

    <>. Abbasso la voce, non voglio sembrare inopportuna e indolente. Non più di quanto so esserlo normalmente, almeno. Lei non capirà mai fino in fondo la mai decisione di restare a Londra a lavorare in aeroporto quando potevo avere una vita agiata a Dublino, con la famiglia di mia madre, o a Strasburgo, con i miei genitori.

    Yana sospira. <>.

    <>. Lei non sa che tentare di affermare la verità spesso è un sentiero incerto e sconnesso e che perfino quello che ti pare giusto, se non lo ispezioni a fondo, può apparire ciò che non è.

    Mi concentro su Yana, tornando al salotto tranquillo. Il suo curato e splendido caschetto corvino illuminato con qualche filo argentato che lei adora farsi aggiungere, le incornicia perfettamente il viso morbido, dolce, colpito da un’eterea bellezza il cui unico segreto sta nel sapersi concedere pur restando sempre se stessa, senza mai prevaricare i sentimenti altrui. È un piacere aver trovato una ragazza affidabile con cui condividere l’appartamento.

    <> mi domanda Chase guardando con occhi famelici Yana e baciandola come fosse il suo ultimo giorno di vita. Lei sbatte un paio di pugni scherzosi sul suo petto poi si lascia andare a un affettuoso scambio di baci. Sdolcinati.

    Allungo un dito verso di loro. <>. Li guardo sbuffando poi entrambe scoppiamo a ridere e Chase mi fa l’occhiolino. <>, mi dice.

    Scuoto la testa e alzo gli occhi al cielo. <>.

    <>, dice elettrizzata Yana, gli occhi a stellina come fosse una faccina.

    <>, la avverte amorevolmente il suo fidanzato.

    Sorrido. <>, affermo fiera.

    <>, ribatte lei contenta.

    <hooligan>>. La guardo con un sorrisetto vittorioso.

    Lei sbuffa, evitando di ribattere nuovamente su quella battuta. <>, mi rimprovera Yana.

    <>, le risponde Chase.

    <> gli domanda lei lanciandogli una felpa.

    Lui la afferra e poi la solleva, facendola ridere.

    Sorrido. La felicità è così semplice.

    2

    Thomàs

    <> esclama quella folle di Gwen.

    <>, le rispondo sull’orlo di una crisi di nervi.

    Apro e chiudo ogni cassettiera dello studio ma nulla. Quella foto di dieci Capodanni precedenti che tanto cerca, proprio non la trovo.

    Aspetta! <>, la ammonisco, lei che scuote la sua testa bacata ed io che sospiro.

    Salgo in direzione della mia stanza facendo tre gradini alla volta, fino a giungere davanti a quella scatola, quella dove tengo le uniche cose che ho deciso di tenere da quando me ne sono andato da casa.

    Allungo le braccia e la tiro giù dallo scaffale di legno bianco, poi mi siedo sul pouf di pelle che sosta al centro della cabina armadio e il peso dei ricordi mi costringe a posarla a terra. È tutto quello che mi resta della mia vita, della mia famiglia.

    Non appena la apro il profumo di lavanda m’investe. Odio quel profumo. Mi fa odiare me stesso.

    Rovisto velocemente fra quelle poche cianfrusaglie, fino a quando il mio dito indice è pizzicato da qualcosa.

    Estraggo dal fondo della scatola quell’oggetto malefico e il primo sorriso della giornata sembra far capolino sulle mie labbra.

    Giro e rigiro fra le mani quella spilla. È rimasta nelle mie mani per così tanti anni che non pensavo nemmeno più di averla.

    Quel piccolo oggetto rappresenta una delle notti più strane della mia vita. Fu la notte nella quale la rividi. Mi urlò contro di tutto, e prima ancora quel no gridato… prima di spogliarsi da quel lungo abito blu e tentare alla mia salute mentale con quel corpo mozzafiato per la seconda volta in un anno. Ero abituato ad avere ragazze pronte a spogliarsi per me, ma non così giovani. Il mio target era un po’ più elevato. Eppure lei, con quelle gambe deliziose e quei seni appena abbozzati, con la delicatezza della giovinezza e la dolcezza dell’imperfetta perfezione, mi fece desiderare di avere qualche anno in meno. Ma ne avevo venticinque e lei poteva averne al massimo diciassette. Nessuno seppe mai del nostro incontro. Nessuno tranne il mio socio. Soprattutto, grazie a lei diventai anch’io nessuno.

    Quella notte perse questa spilla. Un piccolo fleur-de-lis come lei, un bocciolo non ancora sbocciato, quel viso delizioso, quei lineamenti perfetti, quegli occhi grandi e celestiali… chissà come sarà ora, dopo tanto tempo.

    E chissà se sarà meno arrabbiata con me, penso fra me e me, sorridendo.

    <>. Sono risvegliato da ricordi che sembrano appartenere a un’altra epoca da Gwen, immobile davanti a me che mi fissa con le braccia conserte e un’espressione sconcertata sul viso.

    La guardo, infilo la spilla nella scatola, e rimetto via tutto. <>, le rispondo veloce, uscendo dalla cabina armadio.

    Lei mi segue e dai passi veloci non ha intenzione di mollare il colpo. <>, dice con tono malizioso.

    Felice che non mi possa osservare, getto gli occhi al cielo e sbuffo silenziosamente. <>, la liquido.

    <>, insiste.

    <>, le domando indispettito.

    <>, dice fingendosi offesa mentre entrambi raggiungiamo la porta.

    Lei esce ed io la richiudo.

    Corro di nuovo nella cabina armadio e prima che mi dimentichi, estraggo la spilla e la infilo nel trolley che uso ogni volta che torno a Dublino. La riporterò a casa e in qualche modo la farò avere ai Davis. E’ stata mio ostaggio per troppo tempo.

    Apro il borsone della palestra che avevo abbandonato in ingresso prima dell’arrivo di Gwen e controllo di non aver dimenticato nulla, poi esco e m’infilo nell’ascensore per dirigermi alla mia auto.

    Una volta all’interno dell’auto accendo la playlist e quasi inconsciamente inciampo nei ricordi.

    Continuo a pensarla. Lei, quella ragazzina dal capello castano dorato e da una sfacciataggine figlia del temperamento dell’adolescenza mescolata sicuramente a una grande intelligenza.

    Chissà se l’alcol di quella sera le avrà fatto dimenticare ogni cosa.

    Probabilmente una parte di me spera di no, ma la ragione mi dice che va bene così. A ogni modo resta ancora una bambina, vista dai miei anni.

    Sorrido quando la canzone finisce e i Train iniziano a cantare Drops of jupiter.

    3

    Briar

    Da quella notte, sono passati dieci anni. Dieci anni nei quali mi sono tenuta alla larga da quei luoghi, da quelle feste, da quelle persone. Soltanto che, adesso che hanno dedicato la fondazione alla miglior benefattrice, zia Sarah, non posso non tornare.

    La mattina seguente mi alzo come sempre all’alba, indosso i leggins grigi, la maglia blu, annodo i lunghi capelli biondo-rame in una coda di cavallo alta ed esco per fare jogging.

    Infilo le cuffie nelle orecchie e mi lascio trasportare dalle note della musica. Esco dal grazioso appartamento che condivido con la mia coinquilina e mezza collega.

    Il

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