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La verità sul caso Beth Taylor
La verità sul caso Beth Taylor
La verità sul caso Beth Taylor
E-book507 pagine7 ore

La verità sul caso Beth Taylor

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Info su questo ebook

«Un esordio straordinario!»
Stephen King

Un grande thriller

Mai fidarsi delle apparenze. Hanno sempre un lato nascosto.

Estate 1999.
Kit e Laura sono diretti al festival di Capo Lizard, in Cornovaglia, per assistere a un’eclissi solare. Kit è un vero appassionato e Laura non ne ha mai vista una dal vivo. Sono giovani e felici e non vedono l’ora di vivere la loro avventura. Ma negli istanti successivi all’eclissi, mentre fanno ritorno alla loro tenda, Laura intravede un uomo sopra una donna. Il suo istinto le dice che ha assistito a qualcosa di terribile, ma l’uomo nega. Ciò nonostante viene arrestato. È la sua parola contro quella di Laura. Nei mesi che seguono, Beth, la vittima dell’aggressione, mostra una crescente gratitudine nei confronti di Laura e Kit, tanto da diventare eccessiva. E quando cominciano a verificarsi alcuni episodi inquietanti, in Laura comincia a sorgere un timore: avrà dato fiducia alla persona giusta? 
Quindici anni dopo, Kit e Laura sono sposati e vivono sotto falso nome. Il passato però riesce a raggiungerli di nuovo e minaccia di sconvolgere per sempre le loro vite… 

Un bestseller del Sunday Times
Oltre 200.000 copie in Inghilterra

Nella penombra di un’eclissi totale Laura assiste a una brutale aggressione e quattro vite cambiano per sempre

«Ci sono così tanti elementi degni di nota in questo libro: una trama solida, una prosa descrittiva, personaggi tanto realistici da riuscire a immedesimarsi facilmente… E per finire un colpo di scena grandioso che vi toglierà il fiato.»
Sunday Mirror

«Un’autrice che sembra avere un istinto particolare per mantenere alta la suspense. La trama, la caratterizzazione dei personaggi, la scrittura fluida e l’umorismo sottile garantiscono per il suo successo.»
Daily Mail

«È il thriller del mese. Inquietante, intricato e disturbante. Erin Kelly vi farà rimanere incollati alle pagine nel tentativo di indovinare che cosa accadrà. Si dimostra una maestra nel delineare i dettagli e tratteggiare quel grigiore sfocato dietro cui si nasconde la verità.»
The Guardian
Erin Kelly
È un’autrice inglese che ha avuto un grande successo con i suoi thriller psicologici, di cui alcuni diventati serie TV. Lavora come giornalista e i suoi articoli sono apparsi su «Sunday Times», «Sunday Telegraph», «Daily Mail», «marie claire», «Elle» e «Cosmopolitan».
LinguaItaliano
Data di uscita28 mag 2018
ISBN9788822720504
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    Anteprima del libro

    La verità sul caso Beth Taylor - Erin Kelly

    1947

    Titolo originale: He Said/She Said

    Copyright © ES Moylan Ltd 2017

    All rights reserved

    Traduzione dall’inglese di Mara Gini

    Prima edizione ebook: giugno 2018

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l, Roma

    ISBN 978-88-227-2050-4

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Erin Kelly

    La verità sul caso Beth Taylor

    Indice

    PRIMO CONTATTO

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    SECONDO CONTATTO

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    TOTALITÀ

    Capitolo 39

    Capitolo 40

    Capitolo 41

    Capitolo 42

    Capitolo 43

    TERZO CONTATTO

    Capitolo 44

    Capitolo 45

    Capitolo 46

    Capitolo 47

    Capitolo 48

    Capitolo 49

    Capitolo 50

    Capitolo 51

    Capitolo 52

    Capitolo 53

    Capitolo 54

    Capitolo 55

    Capitolo 56

    Capitolo 57

    Capitolo 58

    Capitolo 59

    Capitolo 60

    Capitolo 61

    QUARTO CONTATTO

    Capitolo 62

    Capitolo 63

    Capitolo 64

    Capitolo 65

    Capitolo 66

    Ringraziamenti

    A mia sorella Shona

    Un’eclissi solare totale attraversa cinque fasi:

    - primo contatto. L’ombra della luna diviene visibile al di sopra del disco solare. Sembra che qualcuno abbia dato un morso al sole;

    - secondo contatto. Il sole è quasi interamente coperto dalla luna. Gli ultimi raggi solari filtrano dalle fessure tra i crateri lunari, dando ai due corpi celesti sovrapposti l’apparenza di un anello di diamanti;

    - totalità. La luna oscura completamente il sole. Si tratta della fase più drammatica e spettrale di un’eclissi solare totale: il cielo si rabbuia, le temperature precipitano e spesso gli uccelli e gli altri animali non emettono alcun verso;

    - terzo contatto. L’ombra lunare inizia ad allontanarsi e riappare il sole;

    - quarto contatto. La luna si separa dal sole e l’eclissi ha termine.

    illu.1.png

    Stiamo in piedi l’una accanto all’altra di fronte allo specchio macchiato. I nostri riflessi evitano di guardarsi negli occhi. Come me, lei veste di nero, e come nel mio caso è evidente che anche lei ha scelto i propri abiti con cura e attenzione. Nessuna di noi due è sotto processo, non ufficialmente, ma sappiamo entrambe che in situazioni simili è sempre la donna a venire giudicata.

    I cubicoli alle nostre spalle sono vuoti, le porte accostate; in tribunale questo è il massimo della privacy. Il banco dei testimoni non è l’unico luogo in cui si debba fare attenzione a ciò che si dice.

    Mi schiarisco la voce e il suono rimbalza contro le pareti piastrellate, che replicano in miniatura l’acustica perfetta dell’atrio. Nei corridoi risuona l’eco istituzionale di porte che si aprono e chiudono, e di schedari troppo pesanti che vengono trasportati su carrelli dalle ruote cigolanti. Gli alti soffitti si mangiano le tue parole e te le rimandano indietro in forme diverse.

    Il tribunale, con i suoi ampi spazi e le aule sovradimensionate, gioca strani scherzi agli occhi. È deliberato, progettato per ricordarti che sei insignificante a paragone della macchina della giustizia penale, per smorzare il fulgido e pericoloso potere delle parole pronunciate sotto giuramento.

    Anche i soldi e il tempo sono distorti. La giustizia inghiotte l’oro: garantire la libertà a un uomo costa decine di migliaia di sterline. Nella galleria destinata al pubblico, Sally Balcombe indossa gioielli che costano quanto un piccolo appartamento londinese. Persino il cuoio della sedia del giudice puzza di denaro. Quasi si riesce a sentirne l’odore da qui.

    Ma i bagni, come in qualsiasi altro luogo, sono il grande livellatore: in quello delle donne, lo sciacquone è ancora rotto, il portasapone ancora vuoto e le porte non si chiudono bene. Lo sgocciolio delle cassette difettose dei water rende impossibile parlare in modo discreto; se volessi dire qualcosa, dovrei gridare.

    Osservo con attenzione il suo riflesso allo specchio: l’abito sopra al ginocchio le nasconde le curve. Io ho raccolto i capelli, lunghi e lucenti, in una crocchia da maestrina dietro la nuca; i miei capelli sono stati la prima cosa di cui si è innamorato Kit, sosteneva di poterli vedere al buio. Abbiamo entrambe un aspetto… dimesso, suppongo che si dica così, anche se non sono mai stata descritta in questi termini, prima d’ora. Nessuno riconoscerebbe in noi le ragazze del festival, quelle che si sono dipinte il corpo e la faccia d’oro per danzare e ululare alla luna. Quelle ragazze sono sparite, sono morte, seppur in modi diversi.

    All’esterno, il rumore di una porta pesante che sbatte ci fa trasalire. Mi rendo conto che lei è nervosa quanto me. Finalmente incrociamo gli sguardi allo specchio e ognuna rivolge all’altra una domanda silenziosa, troppo grave – e troppo pericolosa – per darle voce.

    Come siamo arrivate a questo punto?

    Come andrà a finire?

    Primo contatto

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    1

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    Laura

    18 marzo 2015

    Londra è la città con il maggiore inquinamento luminoso di tutta la Gran Bretagna, ma persino qui nella periferia settentrionale si riescono a vedere le stelle, alle quattro del mattino. Le luci sono spente nel nostro studio mansardato, e non ho bisogno del telescopio di Kit per vedere Venere: la luna crescente indossa il pianeta azzurro pallido come un orecchino.

    La città giace alle mie spalle; la vista da qui spazia sui tetti dei sobborghi ed è dominata dall’Alexandra Palace: di giorno è una mostruosità vittoriana in ghisa, mattoni e vetro, ma al mattino presto è uno spuntone nel cielo; l’antenna della radio culmina in un puntino rosso lucente. Un autobus notturno dello stesso colore sfreccia in un parcheggio semideserto. Questa parte di Londra è la vera rappresentante della cultura della città che non dorme mai rispetto al West End: il kebabbaro turco non fa in tempo a chiudere che il panettiere polacco è già alla sua prima consegna. Non ho scelto io di viverci, ma ora amo questo quartiere. C’è qualcosa di anonimo nel suo trambusto.

    Due aeroplani si salutano lampeggiando nel cielo. Al piano di sotto, Kit dorme profondamente. È lui che se ne sta andando, ma sono io quella che non riesce a chiudere occhio per la tensione prepartenza. È passato parecchio dall’ultima volta che ho riposato una notte intera, ma il mio stato di veglia non dipende dai bambini nella mia pancia che ballano il tip tap sulla vescica e scalciano, svegliandomi. Una volta Kit aveva descritto la vita vera come il noioso intervallo tra due eclissi, ma a me piace paragonarla a un congedo retribuito. Beth ha girato il mondo due volte per trovarci; siamo visibili solo quando siamo in viaggio. Un paio d’anni fa ho ingaggiato un detective privato e l’ho sfidato a scovarci utilizzando solo la documentazione cartacea delle nostre vecchie vite. Non è riuscito a rintracciarci. E se non ci è riuscito lui, allora non può farlo nessun altro; certamente non Beth, e neppure un tizio alle dipendenze di Jamie. Sono passati quindici anni da quando mi è arrivata una delle sue lettere.

    Questa sarà la prima eclissi totale che Kit vedrà senza di me, dai tempi dell’adolescenza. Persino le eclissi che si è perso, le ha perse accanto a me, per colpa mia. Non è una buona idea viaggiare nelle mie condizioni e sono così grata di essere in stato interessante da non rimpiangere di perdermi quest’esperienza, anche se sono terrorizzata per Kit. Beth mi conosce, conosce entrambi. Sa che per distruggermi basta fargli del male.

    Osservo la luna percorrere lentamente la sua parabola discendente. Seguirla con lo sguardo è un deliberato gesto di attenzione cosciente, la terapia di vivere l’attimo che in teoria dovrebbe bloccare i miei attacchi di panico prima che possano prendere il sopravvento. Avverto i primi sintomi: il lieve rizzarsi dei peli del corpo, la sensazione che qualcuno mi stia passando un tessuto leggero sul braccio. La chiamano somatizzazione, la manifestazione fisica di un danno psicologico. Concentrarsi dovrebbe aiutarmi a separare il corpo dalla psiche. Gioco a dare una forma alle costellazioni, unendo le stelle come fossero puntini. Lì c’è Orione, una delle poche costellazioni che chiunque è in grado di identificare e, poco più a nord, le Sette sorelle che danno il nome alla zona celeste accanto.

    Dondolo avanti e indietro sui talloni, focalizzandomi sulla sensazione delle fibre del tappeto sotto la pianta dei piedi nudi. Non posso lasciare che Kit mi veda ansiosa. Tanto per cominciare gli guasterebbe il viaggio e poi mi suggerirebbe di farmi vedere ancora da qualcuno, e ne ho decisamente abbastanza. Ci si può spingere solo fino a un certo punto quando si custodisce un segreto come il mio. Gli psicoterapeuti dicono sempre che le sedute rimangono confidenziali, come se una poltrona dell’Ikea fosse un confessionale sacro, ma la mia rivelazione riguarda l’infrazione della legge e non posso fidarmi di nessuno; non c’è alcuna prescrizione per ciò che ho fatto, in questo Paese, e nemmeno nel mio cuore.

    Quando il mio respiro torna normale, mi allontano dalla finestra. C’è abbastanza luce per riuscire a distinguere la mappa di Kit. Non è l’originale, certo, perché è andata distrutta, ma una dolorosa ricreazione. È una gigantesca cartina in rilievo del pianeta, attraversata da un reticolato di fili dorati e rossi, misurati al millimetro, incollati con straordinaria precisione. Le arcate dorate rappresentano le eclissi che ha già visto, le rosse quelle che ci aspettiamo di vedere prima di morire. Parte del rituale consiste nel rincasare dopo un viaggio per sostituire i fili rossi con quelli dorati. (Trattandosi di Kit, ha calcolato la sua aspettativa di vita basandosi sulla storia familiare, lo stile di vita e i trend di longevità, limitando i viaggi per ragioni di salute una volta passati i novanta. Perciò dovremmo assistere alla nostra ultima eclissi nel 2066).

    Anni fa Beth aveva accarezzato la prima mappa con le dita ed era stato allora che le avevo rivelato i nostri piani.

    Mi domando dove si trovi ora. Certe volte mi chiedo se sia ancora viva. Non ho mai desiderato la sua morte – nonostante tutto quello che ci ha fatto passare, era una vittima anche lei – ma spesso ho desiderato che venisse… cancellata, immagino che sia questa la parola giusta. Non c’è modo di saperlo. Basta provare a cercare Elizabeth Taylor per scoprire quanto in là ci si possa spingere senza che l’attrice o la scrittrice rendano la ricerca infruttuosa. Usare il diminutivo, Beth, serve a ben poco per restringere i risultati. Sembra essere svanita con altrettanta efficienza di noi due.

    Da tempo non cerco nemmeno notizie su Jamie; è troppo spiacevole considerato il mio ruolo in tutta la faccenda. La sua crociata di pubbliche relazioni ha funzionato e ora quando cerchi il suo nome il crimine spunta solo in un contesto specifico. Le prime occorrenze riguardano la sua campagna, il sostegno che fornisce alle persone accusate ingiustamente e non, invocandone l’anonimato fino al momento della condanna. Non riesco mai ad andare oltre le prime righe senza provare un senso di nausea. Ho comunque bisogno di tenermi informata, perciò ho aggirato il problema installando un avviso di Google che collega il suo nome all’unica parola che abbia importanza. Non c’è ragione di unire il suo nome a quello di Beth in una ricerca; il suo anonimato è garantito a vita. È la legge, quale che sia il risultato di questo genere di processo. Immagino che sia stata fortunata – lo siamo stati tutti, in un certo senso – che il caso sia avvenuto prima dell’era dei social e dei leoni da tastiera, il cui passatempo preferito è l’identificazione.

    La luce accesa sul pianerottolo mi rivela che Kit si è svegliato. Inspiro a fondo ed espiro ancora più a lungo per calmarmi. Ho sconfitto questo attacco. Mi arrotolo le maniche della felpa. Appartiene a Kit e non mi dona un granché, ma è comoda e ormai sembrano anni che prediligo la comodità allo stile. Anche prima che partorissi, gli steroidi mi avevano regalato fianchi e seno per la prima volta nella mia vita e non ho ancora capito come vestirmi con queste curve.

    Scendo le scale con passo felpato, supero le culle da montare sul pianerottolo. Quando Kit rientrerà dovremo convertire la stanza di Juno e Piper sul retro della casa in una nursery. La superstizione, e la riluttanza a fare qualsiasi cosa finché non sia tornato sano e salvo dal viaggio, mi hanno trattenuta dal farlo prima.

    Lo trovo seduto sul letto, già intento a controllare le previsioni del tempo sul telefono, con i capelli color rame pallido sparati in tutte le direzioni. Le parole non partire mi affiorano sulle labbra. Sapere che resterebbe se glielo chiedessi è precisamente il motivo per cui devo lasciarlo andare.

    2

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    Kit

    18 marzo 2015

    Rimango sdraiato a letto per qualche secondo, ascoltando i passi di Laura al piano di sopra e assaporando quella sensazione da mattina di Natale. L’eccitazione non si riduce mai, quando i numeri astratti sul calendario finalmente prendono la forma dei giorni. So da anni che il 20 marzo la luna oscurerà il sole, creando un disco nero nel cielo. Le eclissi totali di sole hanno scandito il calendario della mia vita fin dalla prima volta in cui sono stato sotto l’ombra della luna. Quella del 1991 in Cile è stata l’eclissi per antonomasia del secolo scorso: sette minuti e ventuno secondi di pura totalità. Avevo dodici anni e in quel momento ebbi la certezza che avrei dedicato il resto della mia vita a rivivere quell’esperienza. Non c’è nulla di paragonabile all’assistere a un’eclissi totale di sole in un cielo privo di nubi. Finché non ho conosciuto Laura, non mi ero mai avvicinato tanto a capire la religione.

    Le lenzuola dal suo lato del letto sono fredde. Quando entra nella stanza, preceduta dalla sua pancia, ha le guance scavate per la stanchezza. Ha raccolto i capelli e se ne vedono le radici, un millimetro di castano che sembra quasi nero a confronto del biondo platino delle lunghezze. Indossa una delle mie vecchie felpe, con le maniche tirate su fino ai gomiti; non è mai stata più adorabile di così. Quando avevamo cercato di avere un bambino, all’inizio, ero preoccupato di sentire la mancanza della sua goffaggine ectomorfa, ma provo un nuovo tipo di orgoglio al vedere il corpo di Laura cambiare perché al suo interno c’è un po’ di me.

    «Torna a letto», le dico. «Non ti fa bene andartene in giro».

    «Ah, ormai sono sveglia. Tornerò a letto dopo che sarai uscito».

    Sotto la doccia ripasso per un’ultima volta l’itinerario, i piccoli dettagli del mio grande piano. Prenderò la metro delle 05:26 da Turnpike Lane, poi il treno delle 06:30 da King’s Cross a Newcastle, dove mi incontrerò con Richard alle 09:42. Da lì un minibus a noleggio ci condurrà al porto di Newcastle e verso le 11:00 ci imbarcheremo sulla Princess Celeste, una nave da crociera da seicento posti letto su cui attraverseremo il mare del Nord, oltrepasseremo la Scozia e ci fermeremo a metà strada dall’Islanda, dove si trovano le isole Fær Øer. Quasi tutta l’eclissi di venerdì la vedrò sull’acqua, ma persino un mare calmo non lo è mai completamente e le fotografie migliori si scattano sulla terraferma. Dovevo scegliere tra le Fær Øer e le Svalbard, a nord del circolo polare artico. (Era stata Laura a insistere per le prime. La folla maggiore si sarebbe riunita a Tórshavn, sull’isola di Streymoy, la più grande dell’arcipelago, e secondo lei in mezzo alla gente si è più al sicuro). Nel giro di due giorni, alle 08:29, la luna inizierà a insinuarsi sopra la sagoma del sole, portando lentamente a due minuti e mezzo di eclissi totale.

    Mi asciugo la barba che Laura ha insistito nel farmi crescere per il viaggio e indosso gli abiti che ho preparato ieri sera. I miei abiti da lavoro – non un’uniforme, ma quasi – sono appesi ordinatamente nell’armadio, rimordendomi la coscienza. Per quanto sia felice alla prospettiva di allontanarmi per cinque giorni dal laboratorio ottico, non posso fare a meno di sentirmi in colpa a prendermi le ferie per viaggiare, quando avrei potuto usarle per il congedo parentale. Poi mi ricordo degli agenti chimici che ho inalato per così tanto tempo che ormai mi foderano i polmoni e del collo rigido dovuto allo stare chino sulle lenti per tutto l’anno e che finalmente posso stendere verso il cielo, quindi mi dico: Al diavolo! Ho il resto della vita per giocare al padre di famiglia. Cosa saranno mai cinque giorni nello schema generale delle cose?

    Mi metto una canottiera termica a maniche lunghe e poi la mia maglietta portafortuna, ricordo della prima eclissi. C’è scritto Cile ’91 – i Paesi rivendicano sempre le eclissi come proprie, persino quando l’ombra copre tre continenti – e ha i colori della bandiera cilena. Un cerchio nero abbozzato al centro rappresenta il sole coperto, circondato dal bagliore della corona. Quando mio padre l’aveva comprata da un ambulante sul ciglio della strada mi faceva praticamente da vestito. Mac rifiutava di indossare la propria, ma io non me la toglievo nemmeno per lavarmi. Adesso mi va giusta, ma tra qualche anno non mi andrà più, a meno che non segua il suggerimento di Mac di andare in palestra. C’è un segno di bruciatura sul colletto, dove Mac mi aveva toccato con uno spinello acceso durante una discussione ad Aruba, nel 1998. Sopra a questi strati aggiungo il superbo tocco finale: un’opera d’arte di pesante lana bianca e nera. Un mese fa io e Richard abbiamo comprato online due maglioni coordinati delle Fær Øer. Stiamo incidendo parecchio sull’ambiente riportandoli a casa, nel Paese in cui hanno pascolato le pecore e dove la loro lana è stata filata e tessuta.

    Ricontrollo il telefono, in caso le condizioni meteo siano migliorate negli ultimi dieci minuti, ma le previsioni rimangono tetre: una spessa coltre di nubi avvolge l’intero arcipelago. Caccia all’eclissi suona fuorviante, ma ho imparato a difendere quest’etichetta nel corso degli anni. Come si può inseguire un fenomeno, se tu ti muovi e quello resta immobile? Innanzitutto, non vi è nulla di immobile in un’eclissi: l’oscurità procede alla velocità di più di milleseicento chilometri l’ora. Be’, è vero che le coordinate non cambiano: l’ombra cade dove cade, secondo un modello stabilito quando eravamo ancora brodo primordiale, ma le nubi non sono così prevedibili. Un cumulo inatteso può deludere una folla di migliaia di persone che appena pochi minuti prima se ne stava tronfia sotto il sole. Il brivido sta nel fregare il tempo atmosferico. Il mio ricordo più bello di mio padre risale al Brasile ’94: io e Mac sul sedile posteriore della Volkswagen, che sfreccia lungo l’autostrada dissestata finché non troviamo un fazzoletto di cielo azzurro. (A ripensarci era ubriaco al volante; preferisco non soffermarmi troppo su questo particolare).

    Al giorno d’oggi, certo, esistono le app; gli sprazzi tra le nubi si individuano con una precisione infinitamente maggiore e non è insolito che intere comitive ignorino la destinazione finale fino a cinque minuti prima del primo contatto. Appoggio il telefono a faccia in giù. Se mi focalizzo troppo sul tempo finirò per impazzire. Per fortuna sono sempre stato bravo a escludere i pensieri che mi distraggono o mi mettono di cattivo umore. Nei momenti in cui mi concedo di riflettere sul passato, cosa che non accade troppo spesso – si riaffaccia alla mia memoria solo quando c’è un’eclissi all’orizzonte e Laura ha i nervi a fior di pelle – in quei rari momenti, mi sembra che dai tempi del Lizard io abbia vissuto sotto una luce al neon malfunzionante, uno stroboscopio dal pulsare delicato ma costante con il quale impari a convivere, anche se sai che un giorno ti scatenerà un attacco epilettico o un aneurisma.

    L’aroma del caffè appena fatto aleggia per le scale. Laura è in cucina, cinque passi più giù, sul retro della casa. Il nostro giardinetto spoglio è avvolto nel buio. Mi ha riempito una tazza e sta confezionando un panino nella carta stagnola. La bacio dietro l’orecchio destro e ne inspiro il profumo burroso. «Finalmente, la mogliettina obbediente e servizievole che ho sempre desiderato. Dovrei lasciarti da sola più spesso». Sento la pelle del suo collo tendersi, mentre sorride.

    «Sono gli ormoni», risponde. «Non ti ci abituare».

    «Promettimi che ti rimetterai a letto non appena sarò uscito», le dico.

    «Promesso», mi risponde, ma la conosco. Speravo che la gravidanza l’avrebbe rallentata, ma gli steroidi hanno avuto l’effetto opposto, perciò resterà arzilla tutto il giorno fino per poi accasciarsi spompata intorno alle nove di sera. Pulisce il piano della cucina con una spugna e butta nel cestino le cialde consumate del caffè. Dandomi le spalle, fa un gesto impercettibile, comprensibile solo a me e che mi fa attorcigliare lo stomaco: si strofina gli avambracci nudi, come a volersi togliere delle ragnatele immaginarie dalla pelle. Sono passati mesi, se non anni, dall’ultima volta che gliel’ho visto fare e ha un unico significato: sta pensando a Beth. Per la milionesima volta desidero che anche lei abbia la mia stessa autodisciplina quando si tratta di gestire il passato, o piuttosto il modo in cui questo possa influenzare il futuro. Perché sprecare energie nell’anticipazione di qualcosa che potrebbe anche non succedere mai? Diventa così a ogni eclissi, anche se sono passati nove anni dall’ultima volta che abbiamo avuto notizie di Beth. Si volta verso di me con un sorriso fin troppo ostentato, indossa letteralmente una maschera di coraggio a mio beneficio. Non sa che l’ho vista sfregarsi le braccia. Probabilmente non sa nemmeno di averlo fatto.

    «Che programmi hai per oggi?», le chiedo per sondare il suo umore, se non altro.

    «Come prima cosa devo chiamare un cliente», risponde lei. «E poi questo pomeriggio pensavo di dedicarmi alla partita

    IVA

    , tu invece?».

    La sua battuta mi rincuora: in genere, quando è sul punto di crollare, il suo senso dell’umorismo scompare.

    Il mio zaino è pronto da tre giorni ormai. Metà del peso è dato dall’equipaggiamento fotografico: lenti, caricabatterie e treppiede, batterie e impermeabili, più un pezzo di ricambio per ogni cosa. La macchina fotografica è dentro la custodia, troppo preziosa per abbandonarla nel portabagagli. Il telefono finisce nel taschino della mia giacca a vento arancione.

    «Molto elegante», commenta Laura asciutta. «Hai tutto quello che ti serve?». Sistemo i panini nell’altra tasca, controllo che la mia Oyster card sia a portata di mano e poi mi infilo lo zaino. Per poco non cado all’indietro per il peso.

    Senza preavviso, Laura smette di sorridere e si sfrega le braccia, due volte di seguito. Ci guardiamo negli occhi e negare è superfluo quanto dare una spiegazione. Non posso fare altro che rassicurarla.

    «Ho controllato la fedina penale di ogni passeggero», le dico. «Non ci sono Beth Taylor sulla lista. Nessun Taylor, nessuna Elizabeth, nessun passeggero di sesso femminile con la

    B

    né con la

    E

    ».

    «È del tutto inutile, lo sai».

    Lo so. Laura pensa che Beth abbia cambiato nome, ma io non sono d’accordo; è una conseguenza della sua paranoia. Con un nome come quello, ci si può nascondere in piena vista. Del resto è da lì che abbiamo preso l’ispirazione per cambiare i nostri. Perché nascondere un ago in un pagliaio, quando puoi nasconderci un filo di paglia? «E anche se fosse», insiste lei, «significherebbe solo che non è sulla tua nave. Ma se fosse già a terra?».

    Parlo piano apposta. «Se così fosse, cercherà un festival, un posto con l’impianto audio e un sacco di bonghi

    ,

    è lì che si aspetterà di trovarci. Viaggerò in compagnia di decine di americani in pensione. E comunque, Tórshavn è una grande città che brulica di turisti, almeno undicimila persone». Mi liscio la barba. «Poi ho il mio brillante travestimento e starò all’erta, me ne andrò in giro col periscopio, controllando ogni angolo prima di muovermi». Faccio finta di sbirciare tra le dita, ma lei non ride. «Mac è dietro l’angolo, Ling due strade più in là, mia madre a meno di un’ora e tuo padre al telefono quando avrai bisogno di lui».

    «Non posso farne a meno, Kit». Mi rendo conto che si odia per le sue lacrime dal modo in cui si morde il labbro. La attiro a me e con l’altro braccio districo i capelli dallo chignon in disordine e li pettino con le dita, come piace a lei. Una lacrima cade sulla superficie impermeabile della mia giacca. Faccio un respiro profondo e le dico l’unica cosa che ha bisogno di sentire.

    «Se vuoi che rimanga, resterò».

    Si stacca dall’abbraccio e per un terribile istante penso che l’abbia fatto per permettermi di sfilarmi lo zaino. Invece prende la custodia della fotocamera e me la appende al collo, con un gesto solenne, quasi mi stesse conferendo una medaglia olimpica. È la sua benedizione e capisco che le è costato molto.

    «Riguardati», mi dice.

    «Anche tu, voi anzi», mi correggo e senza pensare alle conseguenze mi abbasso per baciarle la pancia. Le mie cosce gridano vendetta per lo sforzo di rimettermi in piedi.

    «Potrebbe andare peggio», le dico. «Sarei potuto andare alle Svalbard. Un tizio è stato dilaniato da un orso polare la scorsa settimana».

    «Aha», commenta, ma senza partecipazione. Per lei Beth Taylor è più terrificante di qualunque orso sbrana-uomini. So cosa la turba: la prima volta che Beth si era vendicata, ci aveva detto di essersi fermata solo perché l’avevano presa. Aveva ammesso che le cose si sarebbero messe molto peggio se se la fosse presa con la persona, anziché con la proprietà.

    Fuori l’alba non è ancora spuntata e un bagliore arancione chiazza le strade. Due gradini di pietra separano il portone d’ingresso dalla strada. Arrivato al marciapiede, mi volto per guardare Laura, che ha srotolato le maniche della felpa fino ai polsi, con le mani sopra il pancione. Sperimento quello che Mac definirebbe un momento d’illuminazione. Sto per lasciare mia moglie incinta, sotto farmaci e in preda all’ansia, per attraversare il mare fino a un Paese dove è possibile che la donna che ci ha quasi annientati mi stia aspettando.

    «Non vado», le dico e non sto cercando di metterla alla prova. Laura mi guarda con la fronte corrugata.

    «Sì, invece», replica. «Questo viaggio è costato più di mille sterline. Fila». Mi spinge per la strada. «Spassatela, fa’ qualche foto e torna con storie meravigliose da raccontare ai nostri bambini».

    Mi osservo i piedi un’ultima volta; l’asfalto è abbastanza insidioso senza bisogno di una scarpa slacciata. «Le probabilità che mi trovi sono esigue», dico, ma Laura ha già chiuso la porta e mi rendo conto che, comunque, lo stavo più che altro dicendo a me stesso.

    Ci vogliono cinque minuti a piedi da casa nostra in Wilbraham Road fino alla stazione di Turnpike Lane, sempre che non si tagli per Harringay, un sottopasso tanto utile quanto dickensiano che divide a metà la rete delle nostre strade. Attraverso Duckett’s Common, aggirandomi tra le altalene e gli scivoli dove giocano i figli dei nostri amici. Vetri rotti scricchiolano sotto i miei piedi.

    Sto già sudando copiosamente e la barba si bagna. Più che il sale sulle labbra, è la bugia ad avere un sapore amaro sulla lingua. Non avrei mai potuto controllare la lista dei passeggeri, è protetta dalla privacy. Non riesco a credere che Laura non ci sia arrivata. Quando è così ansiosa, il suo intuito si tramuta in una sorta di superpotere; la paranoia le fa notare i più piccoli cambiamenti del mio linguaggio corporeo e riesce a cogliere la minima sfumatura di menzogna.

    Le tengo nascoste solo le cose che so che la faranno stare male.

    Al mio arrivo la stazione della metro è ancora chiusa, il suo splendore art déco svilito da pessimi cartelloni pubblicitari e manifesti stracciati. Alle 05:20 in punto il graticcio di ferro che fa da barriera viene aperto da un dipendente con indosso un maglione di lana blu reale. L’unico altro passeggero è una donna dall’aria stanca con un tabarro, diretta probabilmente a pulire qualche ufficio in centro.

    Scendo sovrappensiero lungo la scala mobile. Sembra improbabile che Beth sia sulla mia nave, ma non è impossibile che si trovi da qualche parte sulle Fær Øer. Sono felice di viaggiare da solo e di non dovermi preoccupare della sicurezza di Laura. Sto proteggendo mia moglie dalle conseguenze di quanto è successo a Capo Lizard da tanto tempo ormai, e farei di tutto perché le cose rimangano tali.

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    Laura

    10 agosto 1999

    L’autobus della National Express era bloccato sulla

    A303

    fuori da Stonehenge. Pareva che mezzo mondo si fosse messo in viaggio verso il West Country per l’eclissi. Il cielo era dello stesso grigio dei megaliti, l’antico orologio astronomico in cima alla collina verdeggiante. Se dovevo restare imbottigliata nel traffico, sembrava il posto più appropriato per farlo; la gente non si rendeva conto che Stonehenge un tempo veniva utilizzato per prevedere le eclissi, oltre che per segnalare il giorno di mezza estate. Ma dopo un’ora passata a fissare il sito sacro, anche io faticavo a restare estasiata.

    Ogni volta che la radio dell’autobus trasmetteva le previsioni meteo, un ometto magro come un fuso con la barba druidica arruffata, seduto sui sedili anteriori, si alzava in piedi, batteva le mani e ci ragguagliava sugli aggiornamenti. C’erano probabilità che le nubi oscurassero il fenomeno. I miei compagni di viaggio diretti al festival in Cornovaglia per lo più esultarono e gridarono lo stesso, in una versione più giovane e chic del famoso stoicismo britannico che aveva accompagnato i nostri nonni durante il blitz nazista e i nostri genitori durante le gite in camper. A quanto pareva, per loro l’eclissi era solo una scusa per fare festa; un bonus, se fossero stati fortunati, ma in caso contrario ci sarebbe comunque stata la musica. Kit teneva molto all’eclissi e mi resi conto che il suo umore ne avrebbe risentito notevolmente.

    Lui, in compagnia di Mac e Ling, si trovava al sito del festival già da due giorni per allestire il chiosco del tè da cui sperava di guadagnare qualcosa. Io non mangiavo niente dall’incontro a colazione con l’impiegato dell’agenzia di collocamento e mi ero cambiata nei bagni della stazione Victoria. Avevo infilato i vestiti del colloquio nello zaino. Diedi un calcio con gli anfibi militari, calcando i piedi a terra come se stessi premendo su un acceleratore immaginario e mi domandai se saremmo arrivati a Capo Lizard prima del calare della notte.

    Alla fine l’autobus riuscì a sgusciare fuori dall’ingorgo causato non da lavori stradali, ma dai guidatori che rallentavano per osservare i rottami di un tamponamento a catena. Nel giro di poco Wiltshire lasciò il posto ai bianchi cavalli del Dorset. Verso ora di pranzo eravamo arrivati nel Somerset. Il bagno chimico si intasò da qualche parte nel Devon e non appena entrammo in Cornovaglia partì un genuino grido di esultanza. I camini delle miniere di stagno abbandonate sembrarono germogliare dalla collina non appena attraversammo il confine e qua e là sventolavano con orgoglio le caratteristiche bandiere nere a croce bianca della contea. Sentii la pressione del mare da entrambi i lati, quando l’Inghilterra si assottigliò in una penisola, e avvertii dentro di me un peso familiare, poiché sapevo che all’estrema punta meridionale della contea Kit mi stava aspettando.

    All’epoca stavamo insieme da sei mesi; in quel periodo ci sentivamo più due fuggiaschi che due sposini in luna di miele. I nostri esami universitari ne avrebbero dovuto risentire, ma Kit raccolse i benefici di una vita di studi e della memoria fotografica e io me la cavai con una domanda sull’unico testo che avessi studiato e un rifornimento di amfetamine pronto all’uso. Kit insiste che fu amore a prima vista; secondo me, ci vollero almeno dodici ore. Siamo d’accordo nell’essere in disaccordo.

    Io e Ling eravamo al terzo anno al King’s College di Londra, quando lei iniziò a uscire con uno studente di scienze della comunicazione che si chiamava Mac McCall (persino sua madre non lo chiamava con il suo vero nome, Jonathan). Mac mi piaceva, fino a un certo punto – aveva un fascino rugginoso, per così dire, era divertente, eccitante e generoso con le droghe, ma aveva il vizio di invadere gli spazi altrui e ce l’avevo un po’ con lui per essersi intromesso nella mia amicizia con Ling. Non avevo alcuna fretta di incontrare il fratello gemello, che studiava astrofisica teorica a Oxford. Erano come il giorno e la notte, avevo pensato, e ci avevo visto giusto. Mac è il classico tipo estroverso – attinge energia dalle persone, dalla folla – mentre Kit è un introverso da manuale: le conversazioni lo lasciano spossato, le idee gli danno la carica.

    Le eclissi ci avevano avvicinati tutti, in un certo senso. Da giovanissima inseguivo ogni genere di esperienza originale o alternativa alla cultura mainstream che ero solita disprezzare. Mi piacevano solo i club malfamati e le band di cui nessuno aveva mai sentito parlare e uscivo con un sacco di ragazzi che somigliavano a Gesù. Credevo che starmene in un campo a guardare una stella sparire fosse l’apice del non plus ultra dei rave party, un effetto speciale al di là di ogni immaginazione e budget per qualunque promoter di night club. Quando Ling mi aveva detto che lei e Mac avevano trovato il modo di vedere l’imminente eclissi totale in Cornovaglia facendosi pagare, ero stata subito dei loro.

    Mac viveva a Kennington, in una ex casa popolare con i soffitti bassi e le pareti tappezzate di poster psichedelici di frattali fluorescenti. Mi ero addentrata su un pavimento cosparso di pacchetti di sigarette aperti; la lampadina in soggiorno era bruciata e l’unica illuminazione era data da candele in vasetti di marmellata. Kit, tornato da Oxford per il week-end, era una figura raggomitolata in un angolo in ombra, con il viso nascosto dietro un ciuffo cascante color biondo fragola e un maglione nero di lana con le maniche tirate giù fino ai polsi. Sembrava più pallido e sbiadito di Mac, in tutti i sensi.

    «Mia cara», aveva esordito Mac, con le mani occupate da un mucchietto di hashish e un accendino (era in grado di conversare e rollare uno spinello con la stessa naturalezza con cui la gente parla e sbatte le palpebre). «Siamo qui riuniti oggi per trovare un modo per andare al festival senza dover pagare. Secondo i miei calcoli, il miglior margine di guadagno è con le bibite calde, i tè e i caffè e se facciamo a turno dovremmo ricavare un bel gruzzoletto». Mac aveva sorprendenti attitudini affaristiche per uno che si autodefiniva anarchico. Indossava magliette di Amnesty International e predicava la pace e l’amore, ma solo a chi condivideva i suoi valori. Salutava con il segno della pace, ma non gli importava minimamente di tener svegli i vicini tutta la notte al suono di assordante musica techno.

    «Bene», aveva detto, accendendo lo spinello. La fiamma dell’accendino mi aveva mostrato per un secondo i lineamenti di Kit: sopracciglia dritte come righelli, naso lungo dalla punta incurvata verso il basso sopra la bocca decisa. «Vi sono almeno dieci festival nella zona del West Country quella settimana. Sono ancora tutti in fase di pianificazione, ma ho raccolto abbastanza informazioni da aiutarci a decidere quale faccia al caso nostro e sia adatto al nostro ethos».

    Cercai di incrociare lo sguardo di Ling per sorridere insieme della pomposità di Mac, ma lei lo fissava adorante. Avvertii la solita fitta al sentirmi esclusa.

    «Il festival più grande è in Turchia, ma è decisamente oltre il nostro budget», aveva spiegato Mac. «E poi quanto spesso ci ricapiterà sul suolo di casa?»

    «Meno di una volta nella vita», si era intromesso Kit dal suo angolino. Aveva una voce da home counties, da letterato: Mac senza la parlata lenta e strascicata finta cockney. «Un’eclissi totale ha bisogno di un allineamento davvero preciso. È difficile fare una media, ma l’ultima è stata nel 1927 e la prossima sarà solo nel 2090. E tra il 1724 e il 1925 non ne abbiamo avuta nemmeno una».

    «Ok, Rain Man», aveva commentato Mac, tornando a concentrarsi sulla sua lista. Aveva eliminato tre festival in cui la musica era «troppo mainstream» e un altro dove lo sponsor

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