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I miei occhi hanno paura
I miei occhi hanno paura
I miei occhi hanno paura
E-book275 pagine4 ore

I miei occhi hanno paura

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Info su questo ebook

"I miei occhi hanno paura – disse come se parlasse a qualcuno – Paura di che cosa?"Pubblicato da Sonzogno nel 1938, "I miei occhi hanno paura" raccoglie venti racconti di vita quotidiana, scritti nell'inconfondibile stile che ha reso Maria Volpi Nannipieri (in arte Mura) una delle scrittrici più celebri della prima metà del Novecento. Difficile non farsi conquistare dalla prosa elegante, bilanciata e mai banale, con cui l'autrice bolognese ha saputo allestire alcune brevi perle nere di malinconia. A fare da padrone, nel libro, sono i personaggi femminili: perennemente animate dalla voglia di lavorare, di mettersi in gioco in un mondo che sembra non comprenderle, le donne descritte da Mura sono figure dotate da una forza intimamente umana, che si esprime anche – e soprattutto – nei momenti di fragilità... -
LinguaItaliano
Data di uscita23 set 2022
ISBN9788728078891
I miei occhi hanno paura

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    Anteprima del libro

    I miei occhi hanno paura - Maria Volpi Nannipieri

    I miei occhi hanno paura

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1938, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728078891

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    I MIEI OCCHI HANNO PAURA

    Marcella posò ad un tratto il pettine sulla toeletta e spalancò la finestra guardando giù nella strada come se qualcuno l’avesse chiamata. Ma la strada era deserta e i fanali ancora accesi. All’orologio che portava al polso mancavano pochi minuti alle sei. Il mattino era freddo, sui tetti la brina diventava grigia, affumicata dalla polvere di carbone dei comignoli.

    — Puzzo di bruciato — disse, richiudendo i vetri con un brivido, e riprese il pettine. Rimase però con il braccio sospeso a guardarsi negli occhi, riflessa nello specchio.

    — I miei occhi hanno paura — disse come se parlasse con qualcuno. — Paura di che cosa?

    Si guardò attorno, immerse il pettine nella spazzola, e uscì nella piccola anticamera. Nessuno poteva esservisi nascosto perchè non esistevano altri mobili che un attaccapanni di ferro verniciato di nero e uno sgabello. La porta del gabinetto da bagno con la mezza vasca a sedile era spalancata: ma il puzzo di bruciato si faceva più sensibile attraverso la finestra socchiusa.

    — Che cosa brucia?

    Ritornò in camera, e fu subito vestita con paltò e cappello. Prima di uscire ebbe un momento di esitazione per il disordine che lasciava dietro di sè, ma richiuse la porta di colpo e scese a precipizio dalla sua soffitta al settimo piano.

    Tutta la casa dormiva, lei sola era sveglia e spaventata. Aperse il portone e uscì nella strada odorando l’aria prima di prendere una direzione. Un uomo le passò d’accanto e disse con un accento di sicurezza:

    — Si son presi il gusto di buttar degli stracci nella stufa di qualche termosifone…

    — Forse… — balbettò Marcella, e si avviò verso la destra perchè da quella parte veniva più forte l’odore della stoffa bruciata.

    Più tardi si trovò dinanzi allo stabilimento di tessitura nel quale lavorava da un anno, come se l’avesse guidata il destino. Il puzzo di bruciato qui era più forte, ma non si vedevano nè fiamme nè fumo. Camminò su e giù rapidamente, cercando i guanti nelle tasche del paltò, ma si accorse che li aveva dimenticati: le mani, per il freddo, le dolevano. Rimpianse la sua camera attraversata dalle grosse canne del riscaldamento centrale e pensò di tornare a casa, ma non si mosse; non si mosse nemmeno quando ricordò di aver lasciata accesa la lampada elettrica dinanzi allo specchio. Sul piazzale non passava nessuno. Nessuna luce nella portineria. «Dormono ancora tutti…». Alzò il capo verso il tetto dello stabile e le parve di vedere un filo di fumo salire alto e chiaro nel cielo che impallidiva.

    Chiamò un ufficiale che passava nel viale in fondo alla piazza.

    — Senta!… — L’altro la guardò, interrogandola con un movimento del capo. — Non le pare che esca del fumo, lassù?

    Il militare seguì l’indicazione della mano paonazza di freddo al termine di un braccio alzato e tremante.

    — Brucia, perdiana! — gridò, accorrendo. — Non vede che brucia? — E spaccò con l’elsa della sciabola il vetro dell’avvisatore per incendi.

    Mentre egli era curvo sul bottone elettrico, Marcella suonò il campanello della portineria ininterrottamente. Appoggiata allo stipite, si premeva una mano sul cuore che le spaccava il petto, e il sangue le mugghiava con tale forza nelle orecchie che in certi momenti non sentiva più nulla che non fosse il suo spavento.

    La porta si aperse di scatto, ma ella era così stordita e disperata che continuava a suonare. Con una manata il portinaio semivestito le abbassò il braccio e soltanto in quel momento la riconobbe.

    — Che cosa c’è, Marcella?

    — Brucia… — disse la ragazza, indicando insieme il fumo che era aumentato e l’ufficiale dritto accanto all’avvisatore: — Ora verranno i pompieri. Ho sentito il puzzo dell’incendio da casa mia.

    Tardone spinse la donna giù dal marciapiede, annusò l’aria, terminando di allacciarsi le bretelle, poi rientrò di colpo, gridando come un pazzo:

    — Su, tutti, svegliatevi… brucia lo stabilimento!

    Nella piccola casa appartata e chiusa, il puzzo di bruciato entrava ora dalla porta spalancata. In quel momento arrivarono i pompieri con due pompe gigantesche, seguiti da un’automobile con quattro ingegneri. L’ufficiale che aveva rotto il vetro era un capitano che si recava al maneggio: fu interrogato da uno degli ingegneri e anche Marcella fu chiamata, mentre, guidati dal custode, una parte dei pompieri entrava nello stabilimento e gli altri preparavano le pompe.

    Marcella disse quello che aveva fatto, perchè era uscita presto di casa e come si fosse accorta del fumo. Un urlo la fece tacere. «È Tardone», pensò.

    Tardone pareva impazzito. Le fiamme s’erano alzate improvvisamente dinanzi a lui quando uno dei pompieri aveva spalancato la finestra. Fino allora il fuoco aveva bruciato e incenerito a poco a poco quanto aveva trovato sulla sua strada, riempiendo di fumo lo stabilimento, ma la ventata gelida entrata dalla finestra aveva subito scatenato il rogo. Nel fumo denso, Tardone tossiva e urlava. Un pompiere lo sospinse verso la scala perchè un uomo simile ingombrava, senza riuscire a guidare gli uomini verso i solai. Non per nulla gli operai lo chiamavano Tardone. Ora tutte le finestre erano spalancate. Gli uomini del fuoco erano sul tetto e dirigevano le colonne d’acqua lanciate dalle pompe.

    Più tardi anche i pompieri dovettero ritirarsi. Una leggera brezza alimentava l’incendio; i depositi del cotone, i magazzini di legname e gli uffici con tutti i registri bruciavano, ribelli all’acqua che pareva evaporasse prima di attraversare le fiamme.

    Marcella, respinta dai cordoni delle guardie fino al viale di fronte allo stabilimento, si era seduta su una panchina e v’era rimasta immobile. Aveva infilate le mani gelide nelle maniche del paltò e guardava come allucinata la distruzione del «suo» stabilimento e insieme la distruzione della sua vita. Le veniva incontro a ondate un calore denso che toglieva il respiro, ma aveva le spalle quasi congelate. Accanto a lei, attorno a lei, gli operai e gli impiegati seguivano il progredire delle fiamme e la violenta, intelligente ed eroica difesa degli uomini. Già due dei più temerari erano stati portati all’ospedale. Un terzo, a cavalcioni di una trave mezzo bruciacchiata, a tre piani d’altezza, non poteva più muoversi e rischiava di cadere nella voragine. Marcella aveva chiusi gli occhi e nascondeva il volto tra le mani. Pensava che la morte doveva essere meno crudele di quel martirio. Un aeroplano passò tre volte a velocità minima sul rogo, lanciando un grande cappio di corda. Ma l’uomo, mezzo asfissiato e soffocato dal calore, non aveva più la forza di muoversi. Un getto d’acqua lo investì e parve rianimarlo. Alla quinta volta, rischiando tutto per tutto, si protese verso la corda e l’afferrò con una mano. L’aeroplano lo portò via come uno straccio. Un momento dopo l’uomo, esausto, cadeva dall’alto sulla terrazza di una casa. La folla urlava. Urlava per una colonna d’acqua mal diretta, per un crollo del quale giungeva l’eco, per un’automobile che arrivava e per una che partiva. Marcella si mordeva le labbra e taceva, ma dentro era tutta un urlo. Quando l’incendio fu spento era quasi sera: già si erano accesi i lampioni sulla città. Le ritornò in mente di aver lasciata accesa una lampada nella sua camera. Allora si alzò: aveva le gambe indolenzite e i piedi gonfi. Mosse i primi passi con difficoltà, e arrivò a casa lentamente, sfinita. Si tolse le scarpe e si buttò sul letto disfatto senza levarsi il paltò, coprendosi fino al mento. La lampada rimase accesa. Dormì fino all’indomani, senza sogni. La svegliò il lattaio che picchiava alla porta, suonando contemporaneamente il campanello.

    — Che cosa c’è? — chiese, ancora mezza addormentata.

    — Ah… — fece il ragazzo con un sospiro di sollievo: — ieri non ha preso il latte e credevo fosse ammalata.

    — È vero… — mormorò Marcella. — Ieri è stata una brutta giornata e ho dimenticata la bottiglia.

    Chiuse la porta e portò il latte fresco nell’armadio che, nel gabinetto da bagno, nascondeva il fornello elettrico. Aveva dormito più di dodici ore: erano le otto.

    Sentì di aver fame perchè il giorno prima non aveva nè mangiato nè bevuto, nemmeno un caffè. Sbattè un uovo col latte caldo, mise in ordine la camera, fece il bagno. Non aveva fretta: le pareva che fosse domenica e si sentiva tranquilla nonostante l’incendio che l’immaginazione continuava a farle divampare dinanzi agli occhi. Ma la sua tranquillità era così opaca che rassomigliava a una malattia. Poi si vestì e si diresse verso lo stabilimento. Aveva indossato il vestito verde oliva di lana, guarnito di castoro. E aveva i guanti marrone. A ventiquattro ore di distanza, ancora qualche mucchio di macerie fumava, e gli agenti tenevano lontani i curiosi. Pompieri e operai procedevano allo sgombero e al ricupero di quello che il fuoco non aveva distrutto. La portineria, intatta, era unita allo stabilimento crollato da un solo muro che i pompieri avevano rispettato. Il resto era stato demolito. Tardone si aggirava nelle macerie, come smemorato. La moglie, sull’uscio, con le mani sui fianchi e i capelli arruffati, pareva una statua. I bimbi erano stati accolti ai trovatelli per qualche giorno.

    — E ora che cosa si fa? — chiese Marcella al direttore dello stabilimento che pareva invecchiato di dieci anni.

    — Non si sa nulla. Il Consiglio di amministrazione si riunirà oggi. Ma dovremo cercarci lavoro altrove.

    — Tutti?

    — Qualche operaio potrà lavorare, ma chissà quando.

    Marcella sospirò. «Grazie» disse allontanandosi. Incontrò anche il capitano che aveva chiamato i pompieri la mattina dell’incendio. Egli la riconobbe all’ultimo momento, quando già l’aveva sorpassata. La salutò portando la mano al berretto, sorridendo. In quell’istante Marcella sentì che la rovina dello stabilimento e la rovina della sua vita avevano trovato un compenso di consolazione in quel sorriso e in quel saluto. Tornò a casa tardi, dopo aver camminato a lungo nei viali del Parco e dopo aver a lungo meditato seduta su una panchina al sole. Aveva qualche soldo da parte: di che vivere modestamente tre mesi, compreso il trimestre d’affitto della sua camera all’ultimo piano. Bisognava trovar lavoro prima di tre mesi. Non era facile. Cento impiegati nuovi erano forse alla ricerca di un’occupazione, e lei non conosceva nessuno; e doveva aiutare la mamma vecchia in campagna. Calcolò di poter resistere quasi cinque mesi vendendo il collo di castoro, il manicotto, l’orologio d’oro e il brillante della nonna. Non si sentì sgomenta; era tutta animata da speranze che dovevano avere una realtà. L’ufficiale che aveva incontrato per la seconda volta l’aveva riconosciuta e salutata. Era il primo uomo che si occupava di lei, e per quel saluto, ora che aveva venti anni e che era povera, pensò per la prima volta all’amore. Fino a quel momento non ne aveva avuto il tempo: troppe disgrazie in famiglia, poi troppe preoccupazioni per vivere.

    Cominciò a cercare un impiego, ma non sapeva scrivere a macchina e non aveva tempo per imparare. Tutte le mattine verso le nove passava dal viale di fronte allo stabilimento e le accadeva, una volta o due per settimana, d’incontrare il capitano che tornava dal maneggio. Si salutavano. Un giorno il capitano si fermò.

    — Sono contento di vederla ogni tanto — le disse. — Saremo chiamati presto e interrogati sull’incendio per l’assicurazione.

    — Almeno la Società è assicurata. Per noi impiegati è andata peggio.

    — Non ha ancora trovato da lavorare?

    — Non ancora.

    — Venga con me nel caffè all’angolo della piazza. Le darò un biglietto di presentazione per un mio amico.

    Sulla carta intestata del locale il capitano scrisse due righe di raccomandazione.

    — Non si offenda — disse porgendo il biglietto — se il mio amico penserà che fra noi c’è stata una relazione. È un uomo che non ammette si possa esser gentili con una donna che non rappresenta nulla nella nostra vita.

    — Non mi offenderò — fece Marcella arrossendo: — ho bisogno di lavorare.

    — Ora le scrivo il mio nome e il mio indirizzo: se il commendator Modesti non potrà far nulla per lei, m’avverta.

    — Sì. Non oso dirle grazie.

    — È troppo presto.

    — Fin dal primo momento ho sentito che averla incontrata poteva rappresentare un gran bene per me. Sono sicura che ho ragione.

    Uscirono, si strinsero la mano. E Marcella si sentì consolata e felice. Andò subito dal commendator Modesti con la mano ancora calda della stretta amichevole del capitano.

    Modesti la ricevette con l’aria di chi pensa: «Vediamo di quale donna Fredi vuole sbarazzarsi». Non c’è male, non c’è male! — dicevano i suoi occhi. «Perchè poi non se lo tiene un fiore come questo?».

    — Che cosa sa fare?

    — Lavoravo alla Tessitura che è stata distrutta dall’incendio. Tenevo il carico e lo scarico dell’Ufficio Magazzino.

    — Vedo, vedo… e poi?

    Marcella arrossì perchè il tono di quell’«e poi» era offensivo.

    — E poi basta. Era il mio primo impiego.

    — C’è da riordinare l’archivio, qui. È un lavoro provvisorio, ma è sempre qualche cosa. Trecento lire al mese. Avrà da lavorare per tre o quattro mesi.

    — Grazie. Quando posso cominciare?

    — Lunedì. Ora le scrivo due righe di conferma.

    Chiamò la stenografa, dettò, fece battere a macchina in doppia copia.

    — Ecco — disse, firmando. — Lunedì passi da me prima di cominciare il suo lavoro.

    Non sapeva spiegarsi il perchè, ma non era contenta, nonostante la conferma scritta dell’impiego che aveva nella borsetta. Ma visse due giorni di fervore. Ricominciare la vita la esaltava. Trecento lire non le bastavano per vivere, ma bastavano per non morire. E quando il lunedì si presentò al commendator Modesti, le pareva di avere la febbre.

    — Lei che cosa vuole? — le chiese il Commendatore quando la ricevette dopo un’ora di anticamera.

    — Sono la nuova impiegata per l’archivio, ecco la lettera. Mi disse di presentarmi a lei prima di cominciare il lavoro.

    Egli la guardò un momento senza ricordare. Poi sorrise:

    — Sì, l’amica di Fredi. — Le si avvicinò e le pose una mano sulla spalla con un gesto paterno. Marcella rabbrividì. — La presento io all’archivista. Sarà contento di avere un aiuto. Venga con me.

    Attraversarono un lungo corridoio poco illuminato e il commendatore le prese una mano per condurla meglio. Marcella non ebbe il coraggio di ribellarsi. L’archivista accolse l’aiuto con una diffidente simpatia. In generale non gli piacevano le impiegate per le quali il principale si disturbava fino a presentarle ai capufficio.

    In seguito divennero buoni colleghi, silenziosi e solerti tutti e due, pronti ad aiutarsi e a compatirsi. Di tanto in tanto Modesti capitava in archivio con una scusa, pronunziava qualche parola gentile e se ne andava.

    — Viene per lei, Marcella: stia in guardia.

    — Controlla il nostro lavoro: di me personalmente non gliene importa.

    — La guarda come un ragazzo sorveglia una bella torta in una vetrina. La ruberebbe volentieri… ma c’è il vetro.

    — Anche se non ci fosse il vetro, non mi ruberebbe… Sono una torta amara.

    Ma pensava sempre al capitano che era stato buono con lei senza quasi conoscerla. Il vetro che la difendeva dalla golosità altrui era fatto di questo pensiero magnifico e trasparente: Fredi. Un giorno ricevette due lettere. Una dalla Tessitura e una dall’Assicurazione. La prima era un semplice licenziamento motivato dalla forza maggiore: conteneva lo stipendio dell’ultimo mese e l’indennità. L’altra era un invito a presentarsi negli uffici dell’Assicurazione per comunicazioni.

    Chiese mezza giornata di permesso. «Rivedrò Fredi — pensava, indossando il vestito verde oliva guarnito di castoro. — Rivedrò Fredi. Parleremo ancora una volta insieme. Lo ringrazierò…».

    Invece non lo ringraziò, ma gli disse che aveva pensato sempre a lui e che, assunta per tre mesi, aveva invece da lavorare almeno per sei.

    — Non è ancora una sistemazione, ma mi permette di cercarne una con un po’ di pace.

    — Vedrò di aiutarla, Marcella.

    La voce di Fredi era dolce e i suoi occhi erano lucidi di emozione e insieme eloquenti di parole non dette. Marcella li fissava e capiva. Ma parlare di quella dolcezza e di quel silenzio non si doveva: e non sapeva dire, perchè. Glielo disse Fredi dopo il colloquio con i periti dell’Assicurazione.

    — Marcella, sono un uomo sposato. Voglio bene a mia moglie che è la madre dei miei figliuoli. Se fossi un giovanotto e avessi vent’anni invece di quaranta, lei sarebbe il mio amore.

    Marcella non parlò, non aveva proprio nulla da dire, ma era certa di amare Fredi, ora che egli aveva parlato d’amore.

    — Ti ho amata subito la mattina dell’incendio per la paura che era nei tuoi occhi. Tu eri tutta coraggiosa e i tuoi occhi avevano paura: ho cominciato ad amare i tuoi occhi spaventati.

    — Vedevano la fine di tutte le mie risorse i miei occhi, ed erano impauriti per me.

    — Povera piccola Marcella…

    — Ma ora non ho più paura. Ora che capisco.

    — Così non ti meraviglierai se cercherò di aiutarti a trovare un lavoro che ti porti la sicurezza della vita.

    — Non mi meraviglierò.

    Uscirono insieme recando con loro una tristezza dolce, quasi pietosa. Camminarono a lungo su e giù per il viale di fronte allo stabilimento di tessitura. Sembrava che, attorno ai resti della costruzione sventrata, si fosse fatto il deserto. Sedettero sulla panchina che aveva accolta per quasi dodici ore l’immobilità di Marcella. Ora parlavano di se stessi, delle loro famiglie, di quello che avrebbero voluto realizzare e di quello che avevano realizzato. Era come se si fossero conosciuti da ragazzi e come se avessero la stessa età perchè si comprendevano e si amavano.

    — Però non dovremo cercarci: affidiamo al caso i nostri incontri.

    Egli era convinto che fidarsi del caso lo assolvesse dall’amore che gli gonfiava il cuore.

    Una mattina di sabato il commendator Modesti entrò in archivio. Era cordiale e bonario, inoffensivo.

    — Signorina Marcella — disse appoggiandosi ad uno scaffale, — ho il mio tavolo di lavoro ingombro di carte da archiviare. Bisognerà dividerle insieme. Annoteremo tutte le lettere e le sarà facile poi metterle al loro posto. Vuole ritornare nel pomeriggio? Non saremo nè interrotti, nè disturbati.

    — Certamente, commendatore.

    — Alle tre, allora.

    Dopo qualche momento, l’archivista, che non aveva levato gli occhi dalla sua rubrica, alzò il capo e disse piano:

    — In guardia, Marcella.

    Marcella, che stava incipriandosi dinanzi ad un pezzo di specchio appeso dietro la porta, tacque, fissandosi. «I miei occhi hanno paura» pensò. E a colazione non potè inghiottire. Sentiva in agguato un pericolo contro il quale doveva andare per forza. L’urto fu penoso. Le carte non vennero annotate. Scappò dall’ufficio con gli occhi pieni di lagrime e il cuore gonfio di avvilimento. Pensò che se avesse avuto cinquant’anni e i capelli grigi non sarebbe stata insultata dal desiderio maschile: e le parve che l’ostacolo più arduo della sua vita fosse la sua giovinezza.

    A casa, sola, si senti quasi perduta; poi, proprio in virtù della sua giovinezza, ritrovò la serenità ed il coraggio. Ricominciò a lavorare e ad attendere con fede. Modesti la chiamava di tanto in tanto nel suo ufficio. E l’urto si ripeteva, sempre più concitato e sempre più serrato. Promesse: aumento di stipendio, trapasso dall’archivio all’amministrazione, e generosità non chieste e facilitazioni offerte.

    — No.

    — E se la licenziassi?

    La minaccia, una sera, divenne quasi un fatto compiuto, perchè pronunziata dinanzi al direttore del personale. Ella discese per la scala di servizio, piangendo. Meglio era rinunciare che lottare ancora. Non ne poteva più. Tutti s’erano accorti delle attenzioni di Modesti per lei e s’erano formati due partiti: quello che la detestava per la preferenza che aveva destata nel principale e quello che la disprezzava perchè lei non voleva o non sapeva sfruttare la preziosa preferenza.

    Da molto tempo,

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