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Mary Mariù Maria
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E-book312 pagine4 ore

Mary Mariù Maria

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Info su questo ebook

Pubblicato dal celebre editore Sonzogno nel 1940, "Mary Mariù Maria" rappresenta uno dei romanzi più delicati mai prodotti dall'ingegno, quasi vulcanico, di Maria Volpi Nannipieri (in arte Mura). Incentrato sulla figura di una ragazza lavoratrice, legata al padre da un rapporto di affetto ma anche di gelosia, il libro ne segue le vicende di vita, con sguardo fra il divertito e il partecipe, delineandone i tratti anche proprio attraverso il nome, Maria, che ora diventa "Mary", ora diventa "Mariù". Emblematico di una metamorfosi continua, in lei, che la fa oscillare fra i vari ruoli che la società ammette in una donna: che sia figlia, impiegata, amante o moglie, Maria si confronta col mondo a nome di tutto il variegato universo femminile. Un romanzo prezioso, ancora al giorno d'oggi, per l'estrema modernità con cui ha saputo trattare un tema delicato come l'emancipazione femminile...-
LinguaItaliano
Data di uscita19 set 2022
ISBN9788728477236
Mary Mariù Maria

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    Anteprima del libro

    Mary Mariù Maria - Maria Volpi Nannipieri

    Mary Mariù Maria

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1936, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728477236

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    MARY - MARIÙ - MARIA

    I guanti di pelle, lavabili, avevano bisogno di una saponata. Mary li considerò in silenzio con molta attenzione e invece di calzarli li mise nella tasca del paletot.

    — Con la brutta abitudine di leggere il giornale in tram, la mattina, ogni tre giorni devo fare il bucato ai guanti.

    La signorina Bini, contabile, entrava in quel momento nel ripostiglio adibito a lavabo e guardaroba, con le dita spalancate a ventaglio, sporche di inchiostro e di polvere.

    — Non mi parli di pulizia: quando alla fine del mese ci sono le «chiusure» e per un’intera giornata debbo maneggiare i saldaconti, sono costretta a farmi pulire le unghie dalla manicure.

    Mary calzò sui capelli lisci il cappellino di feltro, rialzò il bavero del paletot, e con le mani nelle tasche profonde, si avviò per il corridoio.

    — Buon appetito…

    — La viene a prendere suo padre? — chiese la contabile con un indefinibile accento di compatimento.

    — No, no… ormai si fida di me… Vado a casa sola.

    S’incontrò faccia a faccia con l’ingegnere che usciva dal suo studio: si piantò dritta, immobile, sull’attenti, come un soldatino, rossa in faccia per un’inconsulta emozione, gli occhi sgranati come se stesse per ricevere una sgridata. Il principale si fece da una parte per lasciarle il passo e sorrise alla nuova dattilografa che, senza salutare, scappava di corsa verso l’uscita.

    Nel rinchiudere l’uscio si accorse che l’ingegnere, immobile nel corridoio, l’aveva seguita con lo sguardo: il cuore le sobbalzò improvvisamente come se le fosse accaduta una disgrazia; abbandonò la porta che sbattè con violenza, e scese le scale a precipizio. Sul portone si volse per accertarsi che nessuno l’avesse seguìta, e si calmò soltanto quando si trovò dinanzi ai Giardini Pubblici.

    «Che stupida! — pensò. — Come se l’ingegnere non fosse un uomo come un altro!».

    Rabbrividì, chiudendo gli occhi per un improvviso stordimento che aveva origini indefinite, e allungò la strada per passare dinanzi alla gabbia del leone. Di solito, quando il tempo era bello e il sole invernale caldo, Ras usciva dalla sua casetta di cemento armato e si stendeva con beatitudine sulle finte rocce del breve recinto a sbarre dove la sua prigionia prendeva luce e aria con una parvenza di liberta. Lo guardò per un momento, appoggiandosi alla rete metallica, come per riposarsi da una stanchezza improvvisa, e rimase immobile, senza pensare.

    Ras, leone cittadino, allevato ą Roma, ma educato, cresciuto e sposato a Milano, la fissò con uno sguardo di compatimento, come se in quella creatura prigioniera della sua gioventù e della sua ingenuità, vedesse se stesso, castigato a non conoscere mai l’ebbrezza della libertà nel deserto acceso di sole e di stelle, ad ignorare la gioia del ruggito potente tra le dune ininterrotte, a rinunciare per sempre agli agguati, alle prede, alle lotte, per occhieggiare, sbadigliando, le cameriere con i soldati la domenica, e i bimbi tutti i giorni.

    Improvvisamente ella si allontanò camminando a passi brevi, malsicuri, la personcina rigida sulle gambe ancora magre e i fianchi incerti della bambina ignara di ogni morbidezza di gesto e di espressione; della bambina nata e cresciuta in provincia tra parenti dell’Ottocento, abitudini patriarcali, e studi vaghi, in bilico tra la letteratura e il commercio, cosicchè, interrotti gli studi, non era riuscita ad avere un diploma qualsiasi e tremava all’idea di dover rispondere al telefono, apparecchio col quale non riusciva a prendere confidenza.

    Si volse due o tre volte, disturbata dallo sguardo di Ras che la seguiva, come incuriosito di lei e dei suoi movimenti, e svoltò nel primo viale che la nascondeva alla gabbia del leone.

    — Oggi sono più sciocca del solito! — disse, sottovoce, e guardò l’orologio del piazzale sottostante. Poichè era tardi, affrettò il passo per non arrivare a casa a colazione cominciata. Suo padre non ammetteva ritardi: le aveva permesso di prendere il tram la mattina e la sera, ma all’ora della colazione l’aveva accompagnata nell’andare e nel tornare durante la prima settimana, unicamente per dimostrarle che si poteva compiere il tragitto dallo studio a casa in meno di mezz’ora, camminando di buon passo.

    — Arrivi prima, a piedi, e ti fa bene alla salute! Non ti fermare con qualche sfaccendato per nessuna ragione.

    Ma il papà non aveva calcolato nè preveduto le sue distrazioni, e certa voglia di camminare adagio quando c’è il sole dopo che per tanti giorni è piovuto o è nevicato; non aveva pensato che le avrebbe fatto piacere fermarsi dinanzi ad una vetrina per studiare la forma di un cappellino da ricopiare poi in casa con l’aiuto della mamma, o per ammirare il colore d’una stoffa che avrebbe comprata tanto volentieri se avesse guadagnato qualche cosa di più delle quattrocento lire da portare a casa fino all’ultimo centesimo, alla fine del mese.

    Non pensava nemmeno come un probabile avvenimento la possibilità di uno stipendio maggiore. Dei lavori di ufficio ignorava i più elementari e riusciva a trarsi d’impaccio soltanto perchè era intelligentissima, attenta, osservatrice, precisa e rapidissima dattilografa. Le riusciva di scrivere a macchina con la rapidità delle imbattibili, e con la precisione delle pedanti; e questa sua bravura non era dovuta alla pratica perchè era impiegata soltanto da pochi giorni, nè a un lungo esercizio perchè aveva frequentato il corso di dattilografia soltanto por due settimane, ma costituiva un dono particolare alle sue manine magre, bianche, snodate, che, un tempo, quando la famiglia viveva in provincia, si erano esercitate per eterne ore sui tasti del pianoforte. Questa padronanza della macchina da scrivere le faceva perdonare la sua inesperienza per gli altri lavori di ufficio e le comunicava una superiorità e una sicurezza di cui aveva assolutamente bisogno in quei primi giorni di pratica. Bisognava che vincesse ora quella sensazione di smarrimento che le veniva dalla presenza dell’ingegnere, presenza che le paralizzava le idee, che distraeva la sua attenzione e che le faceva confondere i bianchi tasti della macchina.

    — Non s’impressioni, signorina! Non ho mai fatto del male a nessuno! — le aveva detto la prima volta che lei s’era tutta scolorita quando, per verificare una cifra dettata, ringegnere s’era curvato sulla macchina, sfiorandole i capelli con le spalle.

    Ma c’erano voluti due buoni minuti per riprendere la padronanza della macchina e per distinguere un tasto dall’altro.

    La signorina Bini, contabile trentenne, che faceva le somme «a occhi chiusi» tante erano le colonne del «giornale» che in quindici anni d’impiego aveva sommate e controllate, l’aveva consolata subito con uno di quei gesti di bontà che non hanno un’immediata spiegazione ma dei quali si valuta l’importanza quando vengono distrutti da quattro o cinque frecciate ben dirette a suo tempo.

    — Non si spaventi! È la soggezione dei primi giorni! Arriverà il momento in cui lei non si accorgerà nemmeno che l’ingegnere esiste, e magari gli risponderà per le rime quando le osservazioni non le sembreranno accettabili… Fra la soggezione di adesso e l’indifferenza di allora, sarà passata molta acqua sotto i ponti, e molti avvenimenti l’avranno scaltrita…

    — Non esageri! — aveva detto timidamente Mary. — Se anche rimanessi qui per dieci anni, la presenza dell’ingegnere mi metterà sempre un grande sgomento addosso. È un uomo che dà così poca confidenza…

    — È ancora presto…

    Mary aveva spalancati gli occhioni meravigliati, accesi da una luce d’incomprensione. Dopo essere rimasta per un attimo sopra pensiero, aveva domandato timidamente:

    — Che cosa vorrebbe dire con quelle parole «è ancora presto?».

    — Che due persone non possono darsi del tu, subito il primo giorno!

    Poichè Mary s’era infiammata in volto per una improvvisa ribellione, la signorina Binil’aveva subito placata e rasserenata con un complimento.

    — Non diventi troppo rossa altrimenti si arriva al tu più presto di quanto lei immagini! Con un musino giovane come il suo e con quegli occhi, un principale è sempre disposto a dare confidenza! E non sia permalosa… Scherzo!

    Giunse a casa affannata, con gli occhi lucidi e le labbra aride. Ma l’odore della colazione già in tavola dissipò ogni sua preoccupazione, e distrusse tutti i pensieri che aveva rigirati fino allora come se si fosse divertita ad avvolgere il suo cervello con una matassa dalle file imbrogliate. Un improvviso appetito le scavò un vuoto languido nello stomaco; uno di quegli appetiti di vent’anni, solidi, scuri, disposti a tutto, sdegnosi degli aperitivi, e sazi soltanto dopo mezz’ora di silenzio masticato minuto per minuto con molto pane e molta minestra.

    — È in tavola, Maria! — le aveva detto la mamma nell’anticamera, mentre andava in cucina. — Spicciati!

    — Ciao, mammina! Mi lavo le mani e vengo!

    Dalla provincia pittoresca aveva portato con sè tutte quelle piccole manìe e tutte quelle scusabili debolezze che vanno dalla saponetta immancabilmente profumata, al vestito riserbato per le feste, allo spettacolo cinematografico nel pomeriggio della domenica. Era giunta a Milano con qualche gesto alla Greta Garbo e il muover degli occhi fatale della Fola Negri, persuasa che queste maniere ricercate, difficili ad eseguirsi con naturalezza e non sempre adattabili alla vita quotidiana, si portassero bene nella grande città come si portavano i capelli corti e le vesti al ginocchio. Si era accorta invece che i capelli cominciavano ad arricciarsi sull’orlo dei cappelli, e questa nuova moda non le era piaciuta; che le sottane erano scese di qualche centimetro verso il polpaccio; e questo non, le era dispiaciuto; e che la fretta di vivere non permetteva la lentezza di certi gesti da schermo cinematografico e da donne fatali alla luce del riflettore guidate attimo per attimo da un direttore artistico.

    Aveva ripreso allora la sua semplicità un po’ stupita, il suo vago tremore per quello che ignorava; semplicità e tremore che avevano origine nella sua timidezza appena temperata di un’intelligenza non comune e da una prontezza d’idee e di comprensione rara.

    — Buon appetito, papà!

    Il babbo l’accarezzò su una spalla quando gli passò d’accanto per sederglisi di fronte.

    — E il pupo? — chiese Mary, volgendosi a Carla, la sorella sposata ad un viaggiatore eternamente in viaggio e madre d’un maschietto di cinque anni. — Dov’è il bimbo?

    — Bobi è in castigo! — disse la madre ad alta voce perchè il colpevole la udisse. — Bobi ha fatto i capricci, si è preso gli sculaccioni e ora è a letto senza colazione! Nemmeno il nonno è andato a salutarlo perchè non se lo merita!

    — Il nonno ha fatto benissimo! — rispose forte Mary, ridendo poi sottovoce.

    La nonna entrò con la minestra per il colpevole e la porse a Mary.

    — Portagliela te! — disse. — Come se noi non si sapesse nulla…

    Mary sorrise di gioia. Raccolse con le due mani un po’ infreddolite la scodella di metallo di Bobi ed entrò nella camera buia con la faccia scura di una zia imbronciata anche se indulgente.

    Bobi, inconscio della sua colpa, accolse battendo le manine la luce che si accendeva e la minestra che fumava.

    — Brava zietta! Evviva la zietta!

    — Ssssst! — fece Mary mettendo la scodella sul comodino e allargando sul petto il tovagliolo. — Non ti far sentire… Non si sono accorti che ti ho portato la mia minestra… Mangia presto presto, prima che venga qualcuno…

    — Scotta! — disse Bobi con un filo di voce. — Zietta, scotta, non posso far presto.

    E allora mangia da solo! Dopo, ritornerò a portarti la frutta e riprenderò la scodella vuota.

    — E la pietanza?…

    La zia guardò il nipotino con occhi così eloquenti di rimprovero che il piccino non fiatò. Raccolse un cucchiaio di minestra, soffiò per farla raffreddare e non alzò lo sguardo nemmeno quando la zia se ne andava perchè l’appetito in quel momento aveva il sopravvento su tutto.

    — Che tesoro… Io non riuscirò mai ad essere una zia severa… — disse Mary sedendo al suo posto.

    — Che almeno qualcuno in casa abbia il diritto di essere indulgente quanto tutti dobbiamo fare degli sforzi di severità… — osservò il nonno.

    Fecero colazione in silenzio come sempre quando Bobi era in castigo e non dava quindi motivo ad una conversazione generale sui bambini, sulle loro bizze, sui pettegolezzi dei vicini a proposito di altri monelli. Quando il piccolo Bobi mancava non c’era quasi mai motivo per parlare, a mene di qualche avvenimento importante, come una lettera del marito di Carla: si conoscevano tutti ormai così bene che non trovavano nulla da dire; il babbo compreso degli affari d’ufficio, le due donne dell’andamento della casa, Mary del suo lavoro del quale non parlava per evitare raccomandazioni, consigli e magari appunti paterni.

    Dopo la frutta, nascose una pera in tasca ed entrò nella camera di Bobi. Il bimbo s’era addormentato mezzo seduto sul guanciale, con la scodella vuota tra le manine e il cucchiaio sulla coperta. Intenerita per un confuso sentimento un po’ materno e un po’ fraterno, Mary posò la pera sul comodino, prese cucchiaio e scodella e uscì in punta di piedi.

    — Dorme! — disse alla sorella.

    — Gli farà bene.

    S’incipriò alla meglio perchè il babbo non se ne accorgesse, calzò il cappello e aiutata  dalla mamma mise il paletot. Sulla soglia fece un gesto di addio a tutti e scese allegramente le scale, alleggerita da una tiitnidezza che in casa e particolarmente alla presenza di Carla la obbligava a gesti e a pensieri un po’ contenuti. Ella sentiva — e forse senza confessarlo lo sentivano anche gli altri — di aver diritto ad un’indipendenza che nessuno, e lei per la prima ne conveniva, poteva accordarle, ma della quale avrebbe potuto servirsi all’occorrenza.

    E Mary se ne faceva spesso una soggezione silenziosa con un segreto bisogno di farsi umilmente perdonare di bastare quasi del tutto a se stessa.

    Sulla soglia del portone si fermò un momento per godere il tepore del sole e la freschezza d’una tramontanina invernale che la faceva rabbrividire: poi si strinse nelle spalle e si avviò a passi rapidi verso i Giardini Pubblici. Li attraversava due volte al giorno, cambiando spesso i viali, contenta come una bambina in vacanza. Quella possibilità di andare e venire sola, fuori di casa, le dava un senso di libertà e di padronanza che le faceva bene: sentiva giorno per giorno sovrapporsi alla sua anima di bambina un’anima di donna che faceva esperienza d’ogni piccolo incidente, d’ogni vaga osservazione, d’ogni profonda sensazione. E in certi giorni camminava con baldanza, a passi sicuri, come se avanzasse alla conquista del mondo.

    — Buon giorno, signorina!

    — Oh, ragioniere!… A piedi anche lei?

    — Con questa bella giornata… Un po’ di verde, e un po’ di sole, anche se e cosi debole, fa bene prima di chiuderci fra quattro mura…

    Il ragioniere Belli le si era messo accanto ed aveva abbreviato il passo su quello di lei. Mary, a disagio, non aveva osato nessun gesto per allontanarlo e, del resto, non avrebbe saputo come impedirgli di continuare insieme lo stesso tragitto.

    — La disturbo se l’accompagno?

    — Ma le pare! — fece Mary con accento esagerato. — Cosi la strada sembrerà più breve.

    Ma si raccomandava a Dio perchè all’uscita dai Giardini non sbucasse da via Principe Umberto il tram sul quale il padre ritornava in ufficio il pomeriggio: non avrebbe saputo giustificare la presenza di un giovanotto al suo fianco, anche se questo giovanotto era il collega d’ufficio.

    — Gliel’ho demandato perchè con le signorine non si è mai sicuri di far bene o di far male quando si propone loro di accompagnarle.

    — Che c’entra? Dal momento che le ho detto di sì…

    — Non volevo alludere a lei, ma alle signorine in genere. Del resto, chi può giurare che magari io non dia ombra a qualcuno…

    Mary si fermo sui due piedi e lo guardò negli occhi, indignata.

    — No, sa. Proprio no. Non mi sono mai accompagnata con nessuno, e la sua presenza, se mai, può dare ombra soltanto a me.

    — Tanto meglio. Non volevo offenderla: anzi! Una bella signorina e giovane, ha tutto il diritto di avere un innamorato.

    Mary alzò le spalle.

    — Non ho innamorato. Le pare che un uomo si possa occupare di me? Comincio ora a lavorare, non ho un soldo di dote e la bellezza dei vent’anni tramonta presto.

    — Non diciamo sciocchezze, signorina Mary! Verrei poterla accompagnare io tutti i giorni, sia nell’andare che nel tornare, per farle vedere se, qualcuno può o no occuparsi di una creatura come lei…

    Mary non seppe che cosa dire. Se si fosse inquietata, il ragioniere le avrebbe ripetuto che non intendeva offenderla, e, d’altra parte, sentiva che a non protestare in alcuna maniera, permetteva involontariamente altre dichiarazioni assai più gravi. Proseguì in silenzio, rossa in volto per un’emozione e per un’irritazione che non riusciva a nascondere, frettolosa nel passo e nella maniera di rispondere «sì», oppure «no», brevemente, alle banalissime domande di Belli.

    Giunsero tutt’e due ansanti in ufficio tanto ella aveva camminato in fretta. Nell’anticamera, togliendosi il cappello, il ragioniere disse ridendo:

    — Lo sa che siamo venuti quasi di corsa e che abbiamo anticipato di dieci minuti?

    Mary ebbe un attimo di sgomento. Temette che il collega pensasse ad una sua riposta intenzione di voler rimanere sola con lui in studio, prima del ritorno degli altri.

    — Non credevo di anticipare troppo… Mi scusi.

    — Si figuri.

    — E poi, tanto meglio. Ho da fare e sbrigo subito il lavoro più urgente.

    L’altro non insistette e la lasciò presso lo spogliatoio con un «Buon lavoro!» senza rancore, per quella scusa di voler rimaner sola, scusa che le occupazioni non giustificavano.

    «Finalmente!» — sospirò Mary chiudendo la porta del ripostiglio. — «Non so proprio come sbrigarmela con un uomo!». — E si sorrise nello specchio che la rifletteva fino al busto. Il volto era fasciato, quasi, nel feltro calzato basso sulla nuca e rialzato sulla fronte; gli occhi profondi sotto il folto arco sopraccigliare apparivano più grandi e più puri. Ella fece un rapido e attento paragone tra il suo volto e quello delle colleghe.

    La signorina Bini doveva essere stata graziosa dieci anni prima: ora l’henné le aveva striati i capelli di rosso, e il lavoro le aveva scavati gli occhi e asciugato il volto: le rimanevano bellissimi i denti. Per questo rideva e sorrideva sempre, anche da sola, per mostrare l’unica vera bellezza non truccata che le era rimasta. La signorina Emma, aiuto-contabile a vita, era secca, allampanata, con gli occhiali: inutile fare un paragone. Alzò le spalle e scosse i capelli lunghi che le pesavano sulle orecchie, raccolti in trecce che la mamma tutte le mattine pettinava scrupolosamente col pettine fitto, e le appuntava poi con molte forcelline sulla nuca.

    Sospirò profondamente. Il babbo non le aveva permesso di tagliare i capelli, nemmeno ora che, per recarsi in ufficio, era costretta ad alzarsi e a fare alzar la mamma mezz’ora prima di quanto fosse necessario. Si tolse il vestitino e infilò un grembiulone di satin nero, cucito in famiglia, come quelli che portano le bambine alla scuola elementare. Unico diversivo: la cintura di cuoio e un colletto di pizzo bianco che riusciva a ringiovanire i suoi diciott’anni. L’ingegnere, il primo giorno che l’aveva vista seduta alla macchina da scrivere, non le aveva nascesto la sua piacevole impressione:

    — Signorina, mi pare di avere una scolara… È tanto giovane che m’invecchia.

    Mary era balzata in piedi, tremando, e non aveva saputo come comportarsi. Aveva sorriso, arrossendo, poi aveva abbassato il capo e non lo aveva rialzato se non quando l’ingegnere era tornato nel suo studio.

    Curva sulla macchina, ella stava già copiando una relazione per il Consiglio d’una Società Anonima, quando le colleghe entrarono, e ancora col cappello in testa si fermarono dinanzi alla porta del suo studio.

    — Troppo zelo! — esclamò la signorina Bini.

    — Sono venuta prima senza accorgermene… — mormorò Mary confusa. Allora ho pensato di approfittarne per terminare questo lavoro noioso.

    — E l’ingegnere sarà contento.

    —  Lo spero! — disse Mary ingenuamente, senza afferrare l’intenzione che l’altra aveva posta nelle sue parole.

    — La signorina Emma sorrise, guardò la collega con un’occhiata d’intesa e insieme andarono a spogliarsi.

    — Si comincia con lo sgobbare — fece la signorina Bini stirandosi pigramente: — poi si finisce col lavorare appena quel tanto che lo permette la decenza…

    — E poi — soggiunse la signorina Emma, eterna aiuto-contabile — si riprende a sgobbare, altrimenti si perde il posto.

    La signorina Bini, che si toglieva il cappello fissando nello specchio gli occhi visibilmene segnati di piccole rughe che non poteva ormai più mascherare nemmeno con le creme d’importazione francese, sorrise amaro: vedeva ormai prossimo il momento in cui il sorriso dei suoi bei denti non avrebbe dissipato il malumore di nessun principale per un lavoro non terminato a tempo o terminato male.

    — Ma nel mezzo c’è sempre qualche anno buono. Tutto sta a non lasciarselo scappare stupidamente come ho fatto io. Ma quella — e accennò col gesto allo studio dove Mary batteva rapidamente i tasti della macchina — con la sua aria di nonmitocchi e con quei capelli lunghi arrotolati sulle orecchie, è più furba di me e di lei, cara signorina! Quella, alla nostra età, avrà tanto di marito con l’automobile, e tanto di figlioli a «San Luigi Gonzaga».

    — Può darsi. Oppure avrà un marito che la manderà ancora in ufficio per sostenere il bilancio di famiglia.

    — Uff! che vita!

    Nel corridoio sostarono presso la porta dello studio di Mary che stava correggendo le pagine già scritte.

    — Si consoli — aveva soggiunto Emma: — domani l’altro riposa!

    L’altra subito sorrise, come se una giornata di riposo portasse con sè giovinezzá, denari, salute e allegria. Mary, distratta dalle voci vicine, ascoltò.

    — Domenica mattina alle sette mi vengono a prendere con la macchina e vado a fare una gita a Como se il tempo appena lo permette. Siamo due signorine e due giovanotti: torniamo la sera tardi. Ho voglia d’un po’ di sole e del lago.

    Emma non disse nulla: ormai a lei non erano più concesse le gite a Como in macchina, e l’argomento «avventura» non la riguardava più.

    — Una macchina più elegante di quella dell’ingegnere: centodieci chilometri di media.

    Mary s’era alzata ed era venuta sulla soglia. Disse rabbrividendo:

    — Io avrei paura.

    — Ne ho fatti il doppio in aeroplano.

    Mary la guardò con molto rispetto. Non poteva immaginare che una signorina di studio conoscesse una velocità superiore a quella dei taxi o, al massimo, a quella d’una modesta macchina per uso di famiglia. S’intende, che si riferiva ad una signorina di studio che la pensasse come lei, o quasi. Lei, all’aeroplano, aveva pensato qualche volta premettendo sempre questa idea inconfondibile: «Se fossi un uomo…».

    — E che impressioni ha provato?

    — Nulla…

    Mary sorrise:

    — È poco…

    — Voglio dire che non c’è nulla di diverso dall’automobile. Se lei non guarda giù, il pensiero di essere per aria scompare.

    Mary non insistette per non vedere distrutto con tanta leggerezza iconoclasta uno dei suoi sogni non sognati ancora.

    — È mai stata a Como, lei?

    — Mai.

    — E allora dica a suo padre di accompagnarla una volta sul lago: ne vale la pena.

    Le due signorine rientrarono in «contabilità» c Mary rimase sulla soglia dell’ufficio «corrispondenza», immobile nel pensiero d’una gita sul lago, in automobile, due signorine e due giovanotti. Una delle signorine era lei, seduta nel fondo della Lambda, coi capelli corti, gli occhi bistrati e la bocca rossa: la gente si voltava a guardarla perchè era

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