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Il Segreto Arcano Dei Sumeri
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E-book294 pagine4 ore

Il Segreto Arcano Dei Sumeri

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Info su questo ebook

Una mostra sulle antiche civiltà dell’umanità darà inizio a una delle più intriganti ed appassionanti avventure tra le strade di New York, in cui agli inseguimenti si susseguiranno i più misteriosi incontri di personaggi enigmatici. Una ricerca incessante di ciò che si può supporre essere la più grande scoperta della civiltà occidentale, scoprire da dove proviene il sapere che ha fatto fare quel salto qualitativo che fece diventare un paese di pescatori quella che si considerò come la culla della cultura e lo sviluppo del mondo conosciuto anche per pochi secoli.
Un intrigo che ti terrà in suspense sino al finale, in cui le più avanzate tecniche di spionaggio si vedranno contrapposte alle conoscenze antiche più segrete. Tutto ambientato nell’odierna New York, città cosmopolita, che racchiude tra i suoi quartieri e le sue strade, una grande diversità culturale.
LinguaItaliano
EditoreTektime
Data di uscita29 ago 2019
ISBN9788893987318

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    Il Segreto Arcano Dei Sumeri - Juan Moisés De La Serna

    CAPITOLO 1. LA BIBLIOTECA

    Ero nervoso per quello che sarebbe stato il mio debutto in società, il mio esordio. Avevo investito tanti anni di studi in diversi paesi di tutto il mondo. Avevo dedicato molte ore di lavoro, da solo, in biblioteca per poter arrivare al culmine della mia carriera, a questo momento.

    A dir la verità, ebbi molta fortuna nel poter contare su tanto sostegno, altri, malgrado le loro possibilità, rimasero indietro per quel piccolo ma imprescindibile dettaglio che sono i finanziamenti. Grazie al mio vecchio direttore di tesi, conoscevo le persone giuste e, grazie all’interesse che loro ebbero per il mio progetto, ho potuto realizzare il mio sogno.

    Oltre al costo economico, ciò ha comportato un grande investimento di risorse umane, ma soprattutto la collaborazione con altre istituzioni, musei, università nonché con collezionisti privati che generosamente avevano ceduto le proprie opere perché fossero ammirate da altri.

    Credo che sia stata la prima volta nella storia, e ovviamente nella mia vita, che si sia riusciti a riunire tanti reperti archeologici di questa civiltà sotto lo stesso tetto; per quanto ci fossero stati altri precedenti, il numero di pezzi esposti era stato molto inferiore rispetto a quello che ero riuscito a ottenere per questo evento.

    Allo stesso modo mi considero privilegiato per avere l’opportunità di poter utilizzare per questo evento un luogo tanto straordinario come la New York Public Library (la Biblioteca di New York).

    Un edificio circondato da grattacieli, in marmo bianco e stile neoclassico, conosciuto come la Library Lion (la Biblioteca Leone), che deve il nome a due leoni di marmo rosa che fanno da guardia all’entrata, chiamati Patience (Pazienza) e Fortitude (Forza); con due fontane da entrambi i lati della scalinata che simbolizzano la Verità e la Bellezza. Una sontuosa costruzione, ubicata lungo la famosa Fifth Avenue (la Quinta Strada), che è considerata come una delle biblioteche più importanti del mondo e la più grande degli Stati Uniti.

    Una scalinata conduce a un portico a tre arcate che dà l’accesso all’edificio, iniziando il percorso verso l’Astor Hall con la sua spettacolare cupola di marmo bianco e da lì alla sala dove si realizza la mostra, la Gottesman Hall.

    Fortunatamente in questo momento era in ristrutturazione, altrimenti non avrei potuto fare nulla, dato il trambusto quotidiano di studenti e curiosi che consultano le sue postazioni bibliografiche, essendo uno degli archivi digitali migliori al mondo.

    Avevo dovuto spostarmi in diversi paesi, ancora ricordo le mie discussioni in Giordania per trasportare quei piccoli ma preziosi gioielli, e ciò è stato un problema ricorrente di fronte al quale non mi ero trovato fino a quel momento.

    Come curatore della mostra, sapevo tutto ciò di cui c’era bisogno per l’organizzazione degli spazi, la selezione dei pezzi, la classificazione delle tematiche, le assegnazioni dei periodi, ma di sicurezza non ne sapevo nulla.

    Ha dovuto essere il Comune stesso a offrirsi di darmi dei consigli, o meglio, a decidere in ogni caso cosa fare, dato che la mostra si realizzava in un edificio pubblico della città.

    Mai avevo visto tante telecamere, sensori e rilevatori di movimento, fumo o calore in un solo posto. Avevo sentito della sicurezza invisibile, quella che si prende carico della vigilanza e di individuare i problemi senza che il cittadino comune se ne renda conto, ma cento telecamere installate in quel complesso mi davano un’idea di ciò a cui può arrivare la sicurezza.

    Fu necessario adibire una delle sale che già avevo previsto come parte della mostra, esclusivamente a sala di sicurezza per il controllo di tutte le telecamere, nonché per il coordinamento del personale di sicurezza.

    Secondo me era esagerato avere tanta vigilanza, sarebbe stato solo sufficiente mettere davanti la porta una persona incaricata di assicurarsi che nessuno si portasse via alcun reperto, ma dal Comune avvisarono che o si sarebbero rispettati i loro requisiti di sicurezza o non si sarebbe fatta la mostra.

    Alla fine avevo dovuto cedere, sebbene di malavoglia, al fatto che tutti noi che lavoravamo lì nell’organizzazione, quelli che facevano i trasporti, quelli della sicurezza e persino il personale delle pulizie, fossimo scrupolosamente controllati in un’anticamera per evitare che entrasse qualsiasi tipo di sostanza sospetta, grazie a quella narice elettronica.

    Niente più portali di sicurezza, ora era tutto sulla base del controllo dell’aria, come lo chiamavo io; ancora non avevo capito bene come funzionasse, nonostante me lo avessero spiegato in varie occasioni.

    Si trattava di un processo in quattro blocchi, il primo, e il più complesso per me, era quello di trasduzione, costituito da sensori chimici o di gas; quello di acquisizione del segnale e conversione in un formato digitale, quello di elaborazione, e il quarto, e ultimo, quello di presentazione dei risultati.

    Per quanto mi riguarda l’unica cosa che vedevo è che dovevo mettermi davanti a uno sfondo verde, aspettare qualche secondo un getto d’aria e basta; si suppone che questo sia speciale e che espanda le molecole dell’odore del mio corpo e, se si rileva qualche sostanza potenzialmente pericolosa, suonano gli allarmi.

    Ciò accadde più di una volta con i montatori delle teche, che qualcuno di questi lavorasse la sera nell’edilizia e quando voleva entrare il giorno dopo, suonavano tutti gli allarmi, perché era stato in posti dove si facevano le saldature con prodotti come acetilene, propano o butano.

    Tutto uno spettacolo sonoro e visivo di allarmi che parlavano con ansia alla persona e la assillavano fino a controllare tutti i suoi effetti personali e a farle il riconoscimento dell’iride e delle impronte digitali.

    Uno spreco di ingegno e un lavoro meticoloso per qualcosa di tanto innocuo come una mostra di antiche cianfrusaglie come le definì il capo della polizia della città quando vide il catalogo dei pezzi da esporre nella mostra.

    Personalmente ero molto orgoglioso di presentare la mia prima mostra come curatore e, nonostante avessi avuto alcune proposte in precedenza in diversi musei di città lontane, preferii fare le cose in grande e per questo cercai con tutti i mezzi a mia disposizione di impressionare il pubblico, trasportandolo letteralmente nel modo antico.

    La cosa più difficile fu realizzare un modello al centro della sala della mostra, una replica dello ziqqurat di Ur, vicino a Nassiria (Iraq), santuario del dio della Luna, Nanna. Un antico edificio della Mesopotamia, costruito su base rettangolare, con una sovrapposizione di piattaforme che vanno restringendosi dalla base alla sommità, che è piana e su cui era posto un piccolo tempio. Una struttura simile a una torre o una piramide a gradoni, formata da varie terrazze collegate tra loro da rampe.

    Anche se c’erano stati altri esempi più attendibili della costruzione originaria, come il caso dello ziqqurat di Dur-Untash a Susa (Iran). L’abbandono, l’erosione del deserto e il trascorrere del tempo, ha cancellato la maestosità dell’edificio lasciando appena qualche segno di una costruzione tanto gigantesca.

    Un tentativo, il mio, di mostrare uno dei pilastri della cultura sumerica, il culto delle loro divinità e la relazione tra la religione e il popolo, dato che questi monumenti venivano eretti come veicolo per avvicinarsi ai loro dei, luoghi in cui potevano entrare solo i sacerdoti, ma che, essendo costruiti nella parte più alta delle pianure, erano visibili da grandi distanze.

    Costruire questo modello mi portò molti problemi, dato che alcune comunità religiose dissero che era una provocazione contro la propria storia come popolo, e fu tale il clamore che nacque che alla fine dovetti desistere.

    Mi dovetti accontentare di realizzalo, fotografarlo e smontarlo, lasciando soltanto una grande fotografia del modello ricreato in una delle pareti della sala della mostra con un piccolo cartellino indicativo del modo di costruire nell’antichità senza entrare in maggiori dettagli.

    Erano molti i pezzi che ero riuscito a riunire in quella mostra sul mondo sumero, culla dell’umanità, sebbene il mio preferito fosse la stele di Hammurabi, dato che riflette ciò che c’è ancora di attuale in quella cultura.

    Una lunga carrellata di reperti di quella che per alcuni è la più inquietante civiltà perduta, a un passo tra realtà e finzione, spingendosi a paragonarla con le mitica Atlantide per i suoi straordinari progressi in un lasso di tempo relativamente breve e per aver lasciato un’impronta indelebile nella storia dell’umanità.

    Per gli amanti dell’insolito, delle leggende e delle congetture, quelli erano resti di una civiltà che aveva mantenuto un contatto diretto con i propri dei e che grazie a questi, i sumeri avevano potuto imporsi come civiltà, estendendo la propria cultura sulle popolazioni circostanti.

    Un fatto quantomeno sorprendente è che in questo luogo, la Mesopotamia, situato tra i fiumi Tigri ed Eufrate, si concentrò tanto potere e tanta conoscenza, quando al suo intorno non c’erano ancora le condizioni perché sorgessero tali sviluppi.

    Ciononostante alcuni gruppi ricercatori criticarono la mia visione parziale della storia del mondo, che tralasciava altre zone, perché erano lontane ma non per questo meno importanti, come la Cina, l’India o l’America precolombiana.

    Seguendo tale ragionamento, la storia si dovrebbe riscrivere per integrare la civiltà cinese, dimenticata dall’occidente, che secondo la mia opinione è stata l’unica che ha avuto una certa continuità nel tempo, essendo quelle occidentali di qualche centinaia d’anni scarsi, nonostante ci sia stata una notevole successione di popoli dominanti nelle varie epoche.

    A molti sembrò strano che scegliessi questo popolo e non gli egizi, com’era usuale fare. Personalmente, benché ammirassi quella cultura, capivo che già era stato detto quasi tutto, sebbene ancora ci fossero innumerevoli segreti e domande a cui rispondere come Chi costruì le piramidi? Dove va la sfinge? Come riuscì a formarsi un popolo apparentemente disperso nel deserto e a diventare una civiltà?

    Nonostante il poco che sappiamo, di giorno in giorno ci sono nuove scoperte su questo mondo che ha affascinato tanti. Lasciai in secondo piano insieme a questo anche altri siti di interesse nella zona come potevano essere le piramidi del Sudan, che, malgrado abbiano una dimensione minore, conservano comunque una certa somiglianza e soprattutto mantengono un alone di mistero.

    Altri mi criticarono che non la facessi la mostra sulla Grecia, culla della civiltà occidentale. Per lo meno così si diceva, poiché furono gli artefici della scrittura odierna, però soprattutto del modo di pensare, grazie a filosofi come Socrate, Platone o Aristotele che lasciarono i loro ragionamenti immortalati per le generazioni successive, e che divennero materia di studio obbligatoria da allora.

    Senza spiacermi del tutto, l’idea mi sembrava un po’ pretenziosa, volere assegnare ad un popolo come quello greco, il qualificativo di culla della cultura, quando ebbe soltanto una influenza relativa.

    Certamente segnò il corso della cultura del mondo conosciuto, per lo meno davanti ai nostri occhi occidentali, però nella Terra esistevano altre civiltà che contemporaneamente si sviluppavano in altre latitudini, ed è per questo che penso che abbia avuto un’incidenza solo parziale.

    Allo stesso modo, una minoranza mi sollecitò a rendere onore anche ai primi abitanti dell’America Latina, la cui civiltà si sviluppò in parallelo, nonostante l’evidente distanza e separazione fisica, nonostante non esistesse alcun contatto tra culture di luoghi tanto lontani tra loro.

    Ma il mio interesse era più ambizioso, volevo dare una visione ancora più globale, rivelare la natura dell’uomo contemporaneo dalle origini della civilizzazione, condividendo le mie inquietudini su un punto essenziale che resta invariato nel corso del tempo, cioè che il passato ci serva per spiegare cosa siamo e quindi ciò che saremo.

    Alcuni hanno criticato il mio tentativo di cambiare il modo di concepire la storia attraverso la mostra, ma questo più che una critica mi sembra un attacco al mio lavoro.

    Mostrare le tracce di una civiltà millenaria con le scoperte attuali ha indotto che alcuni critici a etichettarmi come fautore di illusioni, per volere creare una finzione rispetto alla realtà invece di presentare solo i dati, e tutto questo lo hanno detto senza neanche aver visto la mostra, dato che non c’era ancora stata l’inaugurazione.

    Oltre a ciò che sarebbe stata in sé l’esposizione, per più di un mese, delle opere rappresentative, insieme ai tabelloni esplicativi, le fotografie, le ricostruzioni dei momenti della loro vita quotidiana, politica, commerciale e religiosa, alle spiegazioni auditive, i pannelli interattivi e le proiezioni video, c’era dell’altro.

    Infatti, a parte quello che riguardava la mostra, avevo programmato una serie di giornate porte aperte per poter ascoltare i relatori più autorevoli in materia in modo che esponessero il loro punto di vista su quella civiltà quasi sconosciuta dal grande pubblico.

    Ciò, che all’inizio sarebbe potuto essere facile, risultò essere un compito davvero complicato, dato che gli studi si erano sviluppati principalmente negli anni Sessanta e di conseguenza restavano pochi ricercatori vivi, insieme al fatto che esisteva un grande malcontento nella comunità scientifica sul mio approccio alla mostra, il che mi rendeva ancora più difficile incontrare esperti disposti a collaborare.

    Però, dopo innumerevoli chiamate e sforzi, ottenni ciò che volevo, malgrado avessi dovuto accettare alcuni invitati quasi imposti, come il direttore del Museo d’Arte Egizia del Cairo (Cairo, Egitto) o del Museo Nazionale Cinese, nella mitica piazza Tienanmen, la più grande del mondo (Pechino, Cina). Questi volevano dare i loro rispettivi punti di vista, contestualizzando secondo loro, l’importanza della mostra nell’idea globale del percorso dell’umanità.

    Un’imposizione per ottenere i fondi che ci sarebbero stati temporaneamente concessi, uno scambio equo, nonostante temessi il giorno in cui se ne sarebbe parlato, poiché sarebbe potuto essere perlomeno scoraggiante e demoralizzante ascoltare un relatore tanto famoso perdersi nelle celebrazioni delle proprie scoperte mentre parlava della mostra.

    Ma il rischio era accettabile, riuscendo a trovare un momento nel quale si capiva che non ci sarebbe stata troppa gente, perché magari coincideva con un evento sportivo in città, e per tale ragione, senza che questi lo sapessero, avrebbero incontrato un pubblico ridotto, e così l’effetto delle loro rimostranze sulla mia mostra sarebbe stato poco incisivo.

    Per la mostra mi sono dovuto spostare varie volte nella zona, andando museo per museo chiedendo i pezzi da esporre. Sarò andato in così tanti musei, grandi e piccoli, che mi è impossibile ricordarne il numero.

    Ciò che mi ha più sorpreso è sapere che la grande maggioranza dei reperti di questa civiltà si trovano in mano di privati e solo i più grandi sono nei musei.

    Ciò mi condusse ad un vicolo cieco, perché nessun grande collezionista voleva concedere il proprio tesoro a uno sconosciuto neanche per un attimo.

    Ma è qui che tornò a entrare in gioco il mio vecchio direttore di tesi, lui è un rinomato ricercatore nel suo campo e grazie al suo nome mi presero in considerazione e mi prestarono pezzi che mai avrebbero visto la luce.

    Tanto è vero che per noi fu sorprendente avere la possibilità di vedere alcuni reperti, dato che non avevamo né la datazione e nemmeno un’idea di cosa fossero e cosa significassero.

    Dovemmo chiamare alcuni di questi relatori per farci aiutare ad organizzare quei pezzi apparentemente disconnessi e senza senso; a poco a poco ricostruimmo quel puzzle che mi portò via tanto tempo dal momento in cui elaborai l’idea fino a quando questa prese forma.

    Un nutrito gruppo di esperti all’ultimo minuto volle collaborare per ottenere, in questo modo, che il proprio nome apparisse nei crediti di ringraziamento. Ma alla fine non vennero ammessi, primo per motivi di sicurezza, perché secondo quello che diceva la polizia, meno saremmo stati, più facile sarebbe stata l’operazione di controllo, secondo per una questione di principio.

    Sapevo di non poter accontentare tutti, ma quello era un impegno personale e il successo o il fallimento della mostra volevo attribuirlo esclusivamente a me stesso e ai pochi amici che dall’inizio avevano creduto al progetto.

    Malgrado le molte discussioni che ho dovuto intrattenere con tutti i tipi di persone che ostentavano incarichi pubblici e privati, sembrava che quella colossale opera avrebbe dato i suoi frutti, mancavano già solo tre giorni all’inaugurazione.

    I cartelloni che annunciavano l’evento erano da settimane in tutta la città, e ugualmente si fece una campagna pubblicitaria che promuoveva l’evento attraverso la stampa e la radio per stimolare l’interesse del pubblico generalista, al quale non era chiaro all’inizio di quale civiltà si trattasse.

    Il mio maggiore sbigottimento fu conoscere le opinioni della strada, quando un tassista mi disse che si sarebbe attirato un pubblico più ampio se avesse avuto le parole Egitto o semplicemente Medio Oriente.

    Io ero così eccitato di mostrare al mondo quelle che furono le sue origini, un dato tanto fondamentale per la sua storia, e l’unica cosa che volevano era vedere mummie, sarcofagi ed antichi dei con la testa di sciacallo.

    Ciò mi irritò abbastanza, ma non mi fece vacillare, al contrario, mi motivò ad essere ancora più tenace nel mio tentativo di dare un po’ di luce alla popolazione newyorkese, che almeno le risuonasse in testa chi fossero i primi padri dell’umanità.

    Gli striscioni sospesi ondeggiavano da settimane sulle tre arcate della porta d’entrata. In quello di mezzo si annunciava il nome della mostra e la sua data. Su entrambi i lati si mostravano le immagini dei pezzi più significativi della mostra, il codice di Hammurabi e la stele sulla quale si commemora la vittoria di Naram-Sim.

    Ognuna di esse ha la sua particolarità e il suo fascino. Il codice di Hammurabi, un blocco di basalto nero di quasi due metri e mezzo, è una delle prime raccolte di leggi scoperte e uno dei maggiori esempi conservati di scrittura in caratteri cuneiformi accadici.

    Leggi immutabili di origine divina, come indica l’intestazione dove si mostra come il dio della giustizia consegna queste leggi al re Hammurabi. Un reperto archeologico che, nonostante sia di origine babilonese, una civiltà posteriore situata nello stesso luogo geografico, è una raccolta di leggi sumere.

    In questo codice come in altri simili, si stabiliscono le norme della vita della comunità, sottolineando, tra gli altri argomenti, il diritti della donna, dei minori, una retribuzione corretta e i giorni di riposo mensili per gli operai, così come le pene per ciascuna delle norme infrante, condanne che potevano arrivare fino alla pena di morte.

    Questo costituisce un chiaro esempio della Legge del Taglione, occhio per occhio, dente per dente, o come si dice modernamente Legge di azione e reazione, essendo le conseguenze proporzionali ai fatti, ma con la particolarità che la pena si identificava con il crimine commesso.

    Alcuni studiosi sostengono che questo sia l’origine di alcune delle leggi contenute nella Legge di Mosè sulla quale si basano gli ebrei.

    Questi stessi ricercatori indicano che furono adottate durante la schiavitù di questo popolo in terra babilonese, quando furono scacciati dalle loro terre per un periodo di quasi cinquant’anni nel VI secolo, prima della nostra era.

    Un esodo di buona parte del popolo ebreo dopo la distruzione del primo Beit Hamikdash (Tempio di Gerusalemme) situato sul monte Moria o Moriah, per mano di Nabucodonosor II.

    La stele sulla vittoria di Naram-Sin, realizzata in arenaria rosa, rappresentava il successo della campagna di questo re sui suoi nemici. Quello che ha fatto tanto parlare è stato che sopra la testa di questo re è rappresentato il nostro sistema solare, con il sole al centro e dieci pianeti nella sua orbita, e con la luna intorno la Terra.

    Secondo alcuni ricercatori gli antichi sumeri conoscevano la cosmologia talmente bene che furono capaci di individuare i nove pianeti attuali e di identificare un decimo pianeta nel nostro sistema solare, che venne denominato Nibiru.

    C’è da considerare che ciò che per noi può sembrare un’ovvietà, che qualsiasi bambino sin da piccolo è capace di capire correttamente, sapere che il nostro sistema solare è formato da nove pianeti, non è stato ugualmente noto lungo il corso della storia.

    Dalla Grecia Classica si credeva che la Terra fosse al centro dell’universo e che tutti gli astri, incluso il sole, le girassero intorno, assunto formulato da Aristotele e conosciuto come teoria geocentrica, che è stata in vigore fino al XVI secolo.

    Fino a poco più di settant’anni fa non si sono conosciuti tutti i pianeti che formano il nostro sistema solare, di questi gli ultimi tre furono Urano nel 1781, Nettuno nel 1846 e Plutone nel 1930.

    Si arriva così alla cifra di nove pianeti, questo ovviamente prima che la comunità scientifica eliminasse nel 2006 Plutone dalla lista dei pianeti, creando una nuova categoria specifica per denominarlo e chiamandolo plutoide o pianeta nano.

    Il decimo pianeta, chiamato Nibiru, sarebbe ancora più lontano di Plutone, con un’orbita attorno al sole di 3.600 anni; alcuni ricercatori hanno tentato di individuarlo, seppur con scarso successo, perché, se il resto dei calcoli era stato corretto, come potevano essersi sbagliati per questo?

    Per questo era diventato un’icona dei misteri senza comunque che si riuscisse a capire questa civiltà tanto avanzata per il suo tempo; allo stesso modo quell’immagine è la prova sulla quale si basano alcuni per sostenere l’esistenza di un meteorite intorno al sole che colpirà presto la Terra, ed in apparenza questo è legato ad un’antica profezia Maya.

    Sebbene le fotografie mostrassero entrambi gli aspetti, quello del significato antico e di quello attuale, rimaneva comunque una sorpresa per il visitatore che non era svelata nella pubblicità diffusa ed esposta.

    Coloro che alla fine si fossero decisi ad entrare, avrebbero potuto fruire di una sezione della mostra dove si presentavano delle opere inedite ed il cui simbolismo ed il cui significato ci era ancora sconosciuto, nonostante le innumerevoli congetture che si erano potute formulare.

    Pezzi provenienti soprattutto da collezioni private che erano stati poco studiati dagli scienziati e pertanto lasciavano volare l’immaginazione dei visitatori verso i loro possibili significati, facendoli diventare per un giorno eminenti ricercatori, capaci di elaborare le proprie congetture sul senso e sul significato di quei pezzi.

    Però, se per caso non venisse loro in mente nulla, in un pannello interattivo si mostrano reperti simili di altri siti e il significato che avevano, invitandoli in questo modo a mettersi nei panni degli antropologi e provare a dare senso e

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