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Con il Vesuvio sotto i piedi
Con il Vesuvio sotto i piedi
Con il Vesuvio sotto i piedi
E-book188 pagine2 ore

Con il Vesuvio sotto i piedi

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Info su questo ebook

L'incredibile avventura di un'archeologa all'inizio della sua carriera. "Costretta" dalle circostanze a trasferirsi da Roma a Pompei, vive all'interno degli scavi lavorando nel territorio pompeiano e rendendosi protagonista di eccezionali scoperte.

Con il Vesuvio sotto i piedi restituisce al lettore una Pompei brulicante di vita quale doveva essere il giorno della fatidica eruzione. Ci svela aneddoti provenienti dal dietro-le-quinte degli scavi, l’emozione per una scoperta eccezionale, l’arguzia nel fronteggiare la criminalità locale; ma soprattutto ci rende la testimonianza di una donna forte, intelligente, colta e sensibile, che ha saputo sporcarsi le mani per riportare alla luce tesori a lungo sepolti. - Jason R. Forbus
LinguaItaliano
Data di uscita30 ott 2019
ISBN9788833464794
Con il Vesuvio sotto i piedi

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    Anteprima del libro

    Con il Vesuvio sotto i piedi - Marisa de' Spagnolis

    donna-archeologa.

    Capitolo I – La prima volta a Pompei

    L’amore per l’archeologia, l’interesse per il passato è qualcosa che mi porto dentro da sempre: un fatto quasi genetico. A darmene coscienza ha contribuito, senza dubbio, la mia prima visita a Pompei, la mitica città campana sepolta dall’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. e di cui Plinio ci ha lasciato il racconto particolareggiato dei momenti in cui l’esplosione sorprese gli abitanti dell’area, ignari che il Vesuvio fosse un vulcano.

    Era il 1964, avevo quattordici anni. Mio padre aveva organizzato una visita a Pompei e ad un cugino archeologo, a me allora sconosciuto, che lavorava e viveva addirittura all’interno dell’area archeologica. Si trattava del dottor Pietro Soprano, valido studioso e soprattutto uomo di grande spessore morale, collaboratore del grande archeologo Amedeo Maiuri.

    Ricordo tutto di quel giorno. Partimmo, prestissimo, da Itri, cittadina del Lazio meridionale dove risiedevamo, e di buona mattina raggiungemmo il casello autostradale di Pompei che immise, con le altre, anche la nostra auto direttamente in una piazza affollata di gente colorata e chiassosa, un’umanità effervescente. File di bancarelle sommerse da finti reperti archeologici, da coralli, da sculture di ogni genere, da libri dalle copertine vivaci, riducevano l’ampio spazio ad una semplice strada che, di colpo, si arrestò davanti a un grande cancello chiuso.

    La nostra macchina, con quella degli amici che ci accompagnavano, la famiglia D’Urso, vi si fermò davanti. Al di là del cancello si vedeva un viale alberato che sembrava allungarsi in un’area insolitamente silenziosa.

    Un custode ci chiese dove fossimo diretti. Mio padre gli spiegò che eravamo attesi da Pietro Soprano e così, aperto il cancello, avemmo via libera per entrare in una zona di Pompei non aperta al pubblico e percorremmo il lungo viale fiancheggiato sulla destra da un’ordinata ed estesa pineta.

    Pompei mi apparve all’improvviso, stagliata sulla collina come in una visione di sogno: una fuga di alte mura che attraversava lo spazio. La città antica era perfettamente conservata, o almeno dava quell’impressione. Le case di pietra guardavano verso il basso. Le finestre disegnavano sulle facciate illuminate dal sole un reticolo di buchi neri. Mi sorpresi a pensare quanto fosse strano non vedere alcuna persona affacciata a quelle finestre e immaginai forme vuote di viventi che si aggiravano all’interno e che volevano sottrarsi al mio sguardo.

    Il viale si perdeva in uno slargo sterrato che lambiva da una parte l’area archeologica e dall’altra una serie di modeste abitazioni. Lasciammo lì le auto. Entrammo nell’androne di una costruzione ottocentesca tappezzata d’edera che mi sembrò fatiscente. Havetis intro era la scritta che compariva su un mosaico moderno all’ingresso. Era un buon augurio. Dall’androne ci si immetteva su di un vasto e poco curato giardino. Sulla sinistra c’era una porta. Salimmo due rampe di scale dove frammenti di marmi antichi si alternavano a complesse trame di ragnatele.

    Ci trovammo su uno stretto ballatoio, prospiciente il giardino sottostante, sul quale si apriva una porta. Entrammo in casa. La famiglia di mio zio ci aspettava e ci accolse affettuosamente. Seduta su un vecchio divano scuro, badavo poco a quanto lo zio raccontava ai miei genitori; ero attratta, invece, guardando da un piccolo balcone, dallo spettacolo della città antica che avevo di fronte e che riuscivo ad abbracciare dall’alto, in gran parte.

    La colonia di case, di un colore uniforme imposto dal tempo, si disponeva lungo il pendio della collina in maniera armonica e piramidale. Le abitazioni erano quasi generalmente prive di copertura e i loro muri sembravano sostenuti dalle stesse piante rampicanti che vi si abbarbicavano; altre avevano tetti di tegole rosse. Ai piedi della collina troneggiavano il teatro grande e l’odeion. In alto, la linea dei tetti era sovrastata da una costruzione borbonica, ad uso degli intendenti di scavo dell’epoca: la Casina dell’Aquila. Ancora più in alto, in lontananza, ostentava la sua grandezza il Vesuvio, il vulcano cui la città doveva la morte e la vita, ultima e definitiva quinta scenografica.

    Una strada pavimentata di pietre scure saliva con andamento dritto e ripido verso la sommità della collinetta, dove Pompei si adagiava. Mi aspettavo che giungesse il rumore prodotto dalle ruote dei carri, che entravano in città. Zio Pietro, messo al corrente da mio padre del mio ancora sognato e confuso interesse per l’archeologia, mi guardò sorridendo. «La strada è lunga» disse con malcelato scetticismo, e mi regalò un libro di Storia dell’Arte. Si offrì poi di farci visitare l’area archeologica e non solo quella. Ad accompagnare me, i miei genitori, la mia sorellina Brunella e il nostro amichetto Angelo D’Urso, con i suoi genitori, fu una piccola guida d’eccezione: il cugino dodicenne Franco, già profondo conoscitore degli scavi di Pompei. La frequentazione e l’interesse per la città antica non gli impedirono di scegliere, da adulto, la seconda Pompei: quella del Santuario.

    Franco Soprano era allora un ragazzino. Sapeva tutto della Pompei antica, o almeno così mi parve. Lo ascoltavo a bocca aperta anche se non capivo a fondo tutto ciò che diceva. Le case, i templi, le fontane sembravano assorbire ogni voce e ogni suono intorno a me e cancellarli per aprire la via all’immaginazione.

    Erano in atto degli scavi. Non ricordo quali. Avrei visto anche quelli. Franco ci guidò dentro quello che mi sembrò un grande sbancamento, una colossale buca che, in pochi metri, ci proiettava duemila anni all’indietro. Avevo la sensazione di travalicare con la fantasia una soglia che mi introduceva fuori dal mondo finora conosciuto e di trovarmi anch’io seppellita da quella massa enorme di pomici bianche, come i pompeiani d’allora.

    Da quel momento ho sempre ritenuto fondamentale la visione diretta della stratigrafia di interro, per cogliere appieno la tragedia dell’evento che nell’agosto del 79 d.C. distrusse la città, e ho preso atto di quale importante elemento di valutazione sono privati, in ogni punto dell’area esplorata, milioni di visitatori.

    Continuammo la visita della città morta. I calchi di gesso, ombre delle presenze umane raggiunte dalla morte nel corso dell’eruzione, stavano lì a testimoniare una tragedia e a perpetuarne il ricordo.

    FIG.1 – Pompei. Particolare della megalografia della Villa dei Misteri

    La Villa dei Misteri, con i celeberrimi affreschi della megalografia che raccontavano il ciclo dei misteri dionisiaci, concluse il nostro itinerario (FIG.1). Sulla strada del ritorno, fuori Porta Ercolano, ci incamminammo lungo la via dei Sepolcri tra gli edifici funerari che, biancheggianti come filari di pietra, si allineavano armonici lungo il percorso. Questi, stranamente, non suscitavano funerei pensieri: raccontavano storie di vite passate e apparivano proiettati in una dimensione quasi irreale. Mi sorpresi a guardare l’erba che spuntava con forza vitale tra le grandi pietre, rotondeggianti e scure, di un incredibile color oro, che sembrava riflettere lo splendore del sole. Dal sole e da Pompei rimasi abbagliata.

    Quella giornata rimase indimenticata. L’ammirazione per la città archeologica superò la mia immaginazione di bambina; ritenni che la professione di archeologa potesse essere per me il modello di vita ideale e Pompei il sogno di ogni archeologo. Ignoravo in quel momento quello che il destino mi avrebbe riservato.

    Rividi solo un’altra volta mio zio, due anni dopo, a Itri, paese d’origine mio e di sua madre. La notizia della sua morte a soli cinquant’anni mi rattristò molto. Ripensai al libro avuto in dono. Vent’anni dopo, a Pompei, avrei abitato la sua stessa casa!

    Il futuro sognato si stava ormai delineando.

    Capitolo II – Arrivo a Pompei

    Terminati gli studi universitari, cominciai a lavorare presso la Soprintendenza per i Beni Archeologici di Roma. Mi occupavo del centro storico. Ero entusiasta del mio lavoro, che ogni giorno mi offriva emozioni e sorprese. Avevo la certezza di non dovermi mai più separare da quella che ritenevo e ritengo tuttora la mia città d’elezione.

    A suggellare questa certezza intervenne di lì a poco il mio matrimonio con un archeologo, Baldassarre Conticello, il conseguente impianto familiare nella capitale e la nascita di Maria.

    Nell’ottobre 1984 venni raggiunta in Grecia, dove eravamo per motivi di lavoro, dalla notizia, del tutto inattesa, che mio marito era stato nominato Soprintendente per i Beni Archeologici di Pompei. Fu una sorpresa sgradevole. Non era quella la sede di cui lui desiderava occuparsi. Obtorto collo, il 12 novembre 1984 prese servizio presso la giovane Soprintendenza di Pompei che si era resa autonoma da quella di Napoli e Caserta solo nel 1981.

    Ci sembrò uno scherzo del destino! Mio marito, palermitano di nascita, romano di adozione, non aveva mai visto di buon occhio il mondo napoletano. Non lo capiva e lo trovava profondamente diverso da quello siciliano. Accettò, comunque, l’incarico di dirigere una Soprintendenza piccola territorialmente, che comprendeva Pompei, Ercolano, Boscoreale, Castellammare e altri centri vesuviani, ma difficilissima da gestire, sia per la presenza di numeroso personale di custodia abituato a ritenere la famosa cittadina una propria esclusiva proprietà, sia per i condizionamenti legati all’eco che aveva sulla Stampa nazionale ed internazionale ogni più piccola notizia proveniente dalla cittadella degli scavi.

    D’altra parte, l’arrivo di un Soprintendente da Roma era avvertito dalla cittadina vesuviana come una sorta di imposizione non gradita, inconscia reazione o atavico retaggio di intolleranza verso un potere proveniente dal di fuori del mondo napoletano, il cui popolo aveva metabolizzato, con i secoli, un proprio personale percorso di convivenza con i governi e i poteri. Mi parve di comprendere che la più importante area archeologica italiana, che tutto il mondo ci invidia, oggetto di studio da parte di migliaia di archeologi, nell’immaginario collettivo locale dovesse restare un bene da gestire con metodi e mentalità tipicamente del luogo.

    Questo dato mi fu confermato da un curioso episodio avvenuto qualche tempo dopo. Ero dentro la città antica e seguivo da vicino lo scavo di una abitazione diretto dal prof. Antonio De Simone. Appena entrata nell’ambiente che si stava esplorando, sotto ai miei piedi vennero alla luce tredici monete d’oro. Un custode presente alla scoperta prese da parte mio marito e gli chiese se le monete d’oro in antico avessero avuto una circolazione anche al di fuori di Pompei!

    Le parole del custode riflettevano la mentalità di tanti pompeiani. Per loro era Pompei il centro del mondo: niente era più importante.

    Un altro episodio, all’apparenza insignificante ma indicativo di un certo tipo di mentalità, mi colpì nei primissimi tempi delle mie frequentazioni a Pompei. Nel Viale delle Ginestre, un dipendente degli scavi si avvicinò a mio marito per parlargli. Gli afferrò, per baciarla, la mano che venne prontamente e bruscamente retratta.

    Mai avrei pensato che il baciamano alla siciliana potesse connotare una situazione reale. Fu un gesto esagerato, un caso per fortuna unico che mi fece riflettere. Ero in una terra dove chi aveva una carica importante veniva ossequiato per il potere che deteneva. Nel momento però in cui il potere era ossequiato, veniva anche odiato per il semplice fatto che non lo si possedeva e si era costretti a subirne il peso.

    Chi ricopriva una qualche carica che comportasse la gestione di un potere sembrava obbligato a esibirlo, come se solo l’esibizione potesse renderlo manifesto e contribuire ad accrescerlo. Mi sorpresi a pensare che il vero potere, per resistere in quella terra, dovesse invece essere tenuto nascosto. Solo così sarebbe stato in grado di espandersi veramente e costituire una sorta di forza invisibile, tanto più efficace proprio perché occultata.

    Di contro alla consapevolezza di essere i detentori dell’area archeologica più importante d’Europa, gli abitanti di Pompei, eredi di una storia molto lontana nel tempo, sono del tutto privi di storia recente. La popolazione rivelava chiaramente un’assenza di radici

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