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O tu o lui
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E-book236 pagine3 ore

O tu o lui

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Info su questo ebook

Rosario De Luca, detto Sari, non ha conosciuto la sua famiglia. I suoi genitori sono morti in un incidente, ed è stato adottato da una famiglia lombarda che l’ha amato, cresciuto, regalandogli una vita felice, ottimi studi grazie ai quali è diventato un importante manager editoriale. Ma il passato l’ha seguito. Suo nonno era un boss della mafia: i nuovi padroni avevano bisogno dell’aiuto di Sari e contavano di ottenerlo, con il richiamo del sangue o con le minacce.

Sari, però, è riuscito a sconfiggere il suo persecutore e lo ha ucciso. Ma con il boss è morta Valeria, il grande amore di Sari. Ora che si sveglia, in ospedale, protetto dalle forze dell’ordine ma senza più la sua vita, sa che la mafia è pronta a fargli pagare il prezzo della vendetta.

Per scongiurarla intraprenderà un viaggio verso Palermo, prima, e poi verso New York, alla ricerca delle proprie radici e della propria salvezza, accompagnato da Stella, misteriosa e bellissima fotografa conosciuta in Sicilia.

Giuseppe Di Piazza torna al noir, riprendendo il protagonista del suo Un uomo molto cattivo. E lo fa con un romanzo che ricorda i grandi maestri americani del genere, da Ellroy a Winslow, ma sa raccontare l’Italia di oggi nei suoi aspetti oscuri, e nelle sue radici terribili. Le pagine di O tu o lui sono percorse da una tensione entusiasmante, fino all’indimenticabile resa dei conti finale.
LinguaItaliano
Data di uscita17 mar 2022
ISBN9788830538863
O tu o lui
Autore

Giuseppe Di Piazza

Palermitano, giornalista ed editorialista al Corriere della Sera, è responsabile del supplemento romano. Ha lavorato lungamente tra la Capitale e Milano, dove ha diretto i magazine Sette e Max e l’agenzia Agr-Cnr. Ha cominciato la sua carriera nel 1979 al quotidiano L’Ora di Palermo, occupandosi di mafia. È autore di tre romanzi, tra cui I quattro canti di Palermo pubblicato anche negli Stati Uniti. Ha fatto diverse mostre fotografi che.

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    Anteprima del libro

    O tu o lui - Giuseppe Di Piazza

    «Mi chiamo Rosario De Luca, più conosciuto come Sari, sono amministratore delegato di VFP Publishing, ho cinquantun anni, e da quarantott’ore sono un prestanome della mafia. Ho accettato perché il boss Domenico Spadaro, detto Mommo, ha rapito cinque giorni fa la donna che amo, mentre era a Barcellona per un viaggio di lavoro. La mia fidanzata si chiama… si chiamava Valeria Zanotta. È stata uccisa ieri sulla Vigevanese da un uomo di Cosa Nostra. Andrò in ordine, cominciando da qualcosa che è depositato nel passato della mia famiglia. Sono figlio di una coppia di palermitani venuti al Nord alla fine degli anni Cinquanta: Giuseppe e Agostina De Luca. Io nacqui nel 1960. Pochi anni dopo mio padre e mia madre persero la vita in un incidente stradale sul lago di Como. Mi fu detto che a Palermo non avevamo più parenti diretti: mia nonna era morta da tempo e mio nonno era stato portato via da un cancro poco prima che io nascessi. Lo chiamavano don Sasà, diminutivo di Rosario. Il mio stesso nome. Don Sasà era un importante boss mafioso, ma morì con la fedina penale pulita grazie a ottimi avvocati. Io queste cose le ho scoperte da adulto, rileggendo ritagli di giornale, ricostruendo attraverso atti giudiziari le accuse che vennero mosse a mio nonno. Accuse che oggi ritengo fondate. Sono cresciuto in una famiglia meravigliosa, originaria della Brianza, che si prese cura di me quando rimasi orfano. Era la famiglia del socio di mio padre, insieme avevano avviato un’impresa di costruzione. Io non sapevo niente del mio essere siciliano, se non che venivo da lì e che a Palermo non avevo più parenti. Cinque giorni fa ho scoperto che mi sbagliavo: il sangue non si cancella, anche le più piccole gocce sono tracce che portano per sempre a noi. Una di queste tracce l’ha seguita il boss Mommo Spadaro, un cugino di lontani cugini, finché non mi ha trovato. E mi ha messo alla prova, senza che io sapessi, senza che io capissi. I suoi uomini hanno sequestrato la donna che amavo, che amo, e hanno osservato le mie reazioni. Dovevano decidere se si potevano fidare di questo cugino di lontani cugini. Poi sono stato avvicinato proprio da Mommo, che mi ha fatto capire che da me dipendeva la vita di Valeria. E io ho deciso di comportarmi come istintivamente si comportano i corrotti: non sono andato alla polizia, non ho denunciato nessuno, ho accettato di sottostare al suo ricatto. Il mio silenzio in cambio della vita di Valeria. Il mio consenso a diventare un prestanome di Cosa Nostra in cambio della mia pace e di alcuni milioni di euro. La mafia, attraverso il boss Mommo Spadaro, mi ha chiesto di diventare presidente di una società mista che sta per realizzare in Sicilia un enorme parco di energia eolica. La compagnia francese socia della mafia è la Eco-Eolian S.a.s. con sede a Ginevra. Il parco eolico, capace di dare energia a una città grande come Brescia, nascerà su dodicimila ettari di proprietà della mafia. Immagino che in quei terreni siano sepolte tonnellate di scorie tossiche. E nonostante questo, ho firmato le carte per diventare presidente della nuova società mista italo-francese. Nell’apporre la mia firma ho creduto di salvare la donna che amavo. Ora ho capito di averla condannata a morte, e sento la colpa gravare per intero su di me. Non so che uso verrà fatto di questa registrazione video. Voglio solo dire, a chi la vedrà, che ho deciso in pieno possesso delle mie facoltà di raccontare tutta la verità. So che servirà a poco, e che Valeria resterà un corpo freddo in un obitorio della periferia milanese. Ma ho voluto farlo perché sento un desiderio forte di vendetta: vorrei vendicarmi della mia debolezza, punirmi con mano dura. No, non mi ucciderò. Non è questo il punto. Voglio che si sappia che una vita, preziosa, è stata spezzata per colpa mia. E che farò di tutto per espiare questa colpa.»

    Il monitor diventa buio. Il video è finito.

    «Ha registrato lei la confessione di suo padre?» chiede il sostituto procuratore Giulio Sangermano, un tipo asciutto sui quaranta, con occhiali in policarbonato grigio antracite.

    «Sì» risponde Alessio guardando ancora il monitor.

    «Lo chiederò anche a suo padre, ma intanto mi dica lei, signor De Luca: cosa sa di questo ricatto?»

    «Quello che racconta mio padre nel video.»

    «La prego, lo ripeta, è una questione tecnica.» La signora seduta alla scrivania accanto – una donna di mezza età, sovrappeso, con i capelli biondi cotonati e un abito leggero che sembra un caftano – dà un’occhiata al nastro. Poi fa un cenno al magistrato: sta girando. «A posto, dottore.»

    Tutto resterà inciso.

    Alessio comincia. «Mio padre è venuto da me poche ore prima della sparatoria e ha voluto registrare la lunga dichiarazione che le ho mostrato. È successo all’improvviso, dovevamo vederci perché conoscesse la mia nuova fidanzata, Sophie…»

    «Di lei parleremo dopo. Continui.»

    «Sì, mi scusi. Invece papà ha voluto che registrassi subito il video. Io e lui, da soli nel daylight del Superstudio. Alla fine ero scioccato, credo pure di aver pianto.»

    La signora alla scrivania accanto alza gli occhi sul giovane uomo e prova a immaginare quel bel viso rigato dalle lacrime. Si intenerisce. Poi incrocia lo sguardo del magistrato e, deglutendo, torna a concentrarsi sul congegno hi-fi che sta registrando l’interrogatorio di Alessio De Luca.

    «Lei ha intuito quali fossero le intenzioni di suo padre?»

    «Ho temuto che volesse fare quello che poi ha fatto: affrontare quel boss e ucciderlo. Con tutte le conseguenze del caso.»

    «Sa che suo padre rischia una condanna molto dura?»

    «No. Non lo so. Però so che lui le direbbe che se la merita.»

    «Ne è sicuro?»

    «Ha presente cos’è il senso di colpa per un uomo come mio padre?»

    «Ho conosciuto diversi manager, mi sembra che molti di loro ignorassero il significato di questa espressione.»

    «Pensavo anch’io che mio padre fosse così. Ha lasciato mia madre quando ero poco più che un neonato. Non sa niente di me. In questi anni ha avuto mille storie. Si è risposato con una donna che non ama, e che tradisce… cioè tradiva con Valeria…»

    «Dei fatti personali parleremo in un altro momento. La prego di tornare alla mia domanda.»

    «Mi scusi. Però devo dirle che l’arrivo di Valeria nella sua vita l’ha cambiato. Forse dovrei dire la fine di Valeria…»

    «In che senso?»

    «La rabbia per la sua morte. La furia nera che c’era nel suo sguardo quando l’altro giorno registrava. Non l’avevo mai visto così. Io sono un fotografo. Quando scatto, leggo tutto negli occhi delle ragazze e dei ragazzi che stanno davanti al mio obiettivo. Piccoli brillori, luci opache…»

    «La seguo, anch’io fotografo» dice il magistrato con un certo sussiego. Da collega a collega. Poi con l’indice spinge in su il ponte dei suoi occhiali da vista.

    «E negli occhi di papà c’era il nero della rabbia, un nero lucido. Forse erano anche lacrime trattenute. Non lo so. Ma se vuole riguardiamo il video.»

    «Suo padre è un dirigente d’azienda molto importante. Avete discusso a telecamere spente della possibile fine della sua carriera?»

    «Non gliene importava niente. Parlava solo di equilibrio, di giustizia, e poi di Valeria.»

    Il sostituto procuratore fa cenno alla signora in caftano di interrompere la registrazione.

    «Per oggi è tutto» dice.

    Alessio si sistema la sahariana blu. Sente il sudore farsi strada malgrado l’aria condizionata del Palazzo di Giustizia. Sono le sette di sera, fuori la luce è pallida. Non ci sarà crepuscolo a tinte forti, per capirlo basta guardare la porzione di cielo che si scorge dalla finestra d’alluminio anodizzato su corso di Porta Vittoria.

    Lunedì

    «Mi sente?»

    La voce giunge dall’alto con tono metallico, come nei supermercati quando annunciano la chiusura delle casse.

    «Mi sente?» È una donna ma sembra un amplificatore. Il volume è troppo forte per le mie orecchie abituate al silenzio.

    Apro lentamente le palpebre, e mi costa uno sforzo sovrumano: capisco che incontrerò la luce dopo un periodo di buio. Di totale assenza. Mi chiedo quanto sia durato.

    Il chiarore dei neon invade i miei sensi. Avverto il bianco intorno a me, un colore che non ricordavo. Il viso della donna riempie l’inquadratura e si mette a fuoco man mano che le palpebre si schiudono. Avrà cinquant’anni, mi sorride.

    «Allora riesce a sentirmi.»

    Rispondo sì con gli occhi. O almeno credo di farlo: non sono mai stato sicuro della comunicazione fatta di sguardi.

    Compio uno sforzo aggiuntivo e sussurro, per maggior chiarezza, la mia prima sillaba dopo non so quanto tempo: «Sì».

    «Bene! Avviso il medico.»

    Provo a toccarmi il viso. Non ci riesco. Qualcosa blocca le mie braccia lungo i fianchi. Sono disteso e chiuso in un letto che è come un sarcofago. Mi accorgo che da sotto le lenzuola escono diversi tubicini dentro cui scorrono fluidi. Devono avermi operato.

    Ora ricordo.

    I proiettili di Mommo.

    Il sushi che mi volava addosso.

    In bocca il sapore del mio sangue.

    La buona notizia è che sono vivo. La cattiva notizia è che non so ancora che vita avrò.

    «Rosario De Luca?»

    Dovrei rispondere sì, ma evito: non capisco perché il medico, apparso alla mia sinistra, in piedi, elegante nel suo camice operatorio verde acqua, mi faccia questa domanda. Pensa che possa essere qualcun altro?

    Alzo di qualche grado la testa e riesco a scorgere il suo viso. È un bell’uomo, avrà una quarantina d’anni, le tempie già brizzolate, un naso importante. Mi sorride. Tutti mi sorridono in questo ospedale. Provo a ricambiare: bisogna tenersi buoni i medici quando si è in uno dei loro letti, legati come un arrosto.

    «Vedo che sta meglio. Controlleremo adesso se l’anestesia ha lasciato segni. Poi le spiegherò che cosa abbiamo fatto al suo apparato digerente. Intanto iniziamo con le domande.»

    Annuisco.

    «Riferirò questa conversazione al funzionario di polizia che è nel corridoio. Comunque non si preoccupi, in questa fase vogliamo soltanto verificare che lei sia tornato in possesso delle sue facoltà di base. Memoria vicina, memoria lontana… Cominciamo: come si chiama?»

    «Lo ha detto lei» rispondo con un filo di voce.

    «Lo so, ma è prassi. Come si chiama?»

    «Sari De Luca.»

    «All’anagrafe?»

    «Rosario. Rosario De Luca.» La mia voce sembra uscire da una radio a onde corte. Distorta. Ma forse è un’impressione solo mia.

    «Che lavoro fa?»

    «Dirigente editoriale.» Almeno, questo facevo.

    «Quanti figli ha?»

    «Uno.»

    «Come si chiama?»

    «Ale.»

    «Alessandro?»

    Mi fermo un istante, chiudo gli occhi. I neon mi impediscono di pensare.

    «Ha detto Ale: cioè?»

    «Sì. Lo so come si chiama mio figlio: si chiama Alessio.»

    Il medico appunta qualcosa sul suo bloc-notes.

    «Ha fratelli? Sorelle?»

    «Una sorella.»

    Ripete, scandendo: «Una so-re-lla».

    «Laura. Si chiama Laura. Non è mia sorella.»

    «Allora non ha sorelle?»

    «È complicato.»

    Il medico fa un’altra annotazione.

    «Sa che cosa le è successo?»

    «Mi avete fatto l’anestesia, me l’ha detto lei.»

    «Intendo prima dell’anestesia.»

    «Mi ricordo che ero a terra e pensavo di morire.»

    «Tre giorni fa le hanno sparato. E lei ha sparato a un uomo.»

    «Mommo.»

    «Spadaro Domenico» legge sul bloc-notes. «Pregiudicato per reati di mafia.»

    «Lei sa molto di me.»

    «Sono un medico, e ogni tanto do una mano alla polizia.»

    «Come Duca Lamberti» sussurro.

    «Lamberti? È un collega? Lavora per l’Arma?»

    «No, lasci stare, è un nome che mi è venuto così.»

    «Si ricorda dov’è accaduto il fatto?»

    «In un ristorante, in centro. Che ne è stato di lui?»

    «Spadaro Domenico? Deceduto. Un solo colpo che è entrato dal seno frontale distruggendogli il cervello.»

    «E io?»

    «Lei stava per andarsene. Dico… all’aldilà. La pallottola le ha portato via un pezzo di fegato, perforando l’intestino e intaccando il lobo inferiore del polmone per poi uscire dalla schiena. Pochi centimetri più su e il suo cuore… Mi ha capito? Quell’uomo le ha sparato in pancia dal basso verso l’alto. Lei ha perso molto sangue. Ma i ragazzi del 118 sono stati bravi.»

    «Sono legato al letto?»

    «No. È bendato. Abbiamo lavorato sette ore per ricucirle tutto. È sotto sedativi.»

    «Come sarà la mia vita?»

    «Vuol sapere che conseguenze avrà? Oltre a doversi moderare col whisky? Non molte. Poi comunque le dirò. Prima vediamo di farla guarire bene.»

    Il medico è un uomo cordiale, e ora il biancore dei neon intorno a lui, che illumina la stanza, mi dà meno fastidio.

    Io sono vivo. Mommo è morto.

    E gli altri?

    Martedì

    Il sostituto Sangermano apre il fascicolo e alza il mento. Lo fa per leggere gli appunti della polizia giudiziaria: è un ipermetrope, e gli occhiali progressivi funzionano in lettura solo nella parte inferiore delle lenti.

    «Dunque…»

    «Allora Giulio, questo De Luca che ha fatto?» Il procuratore della Repubblica, Luciano Cucuzza, è un meridionale sbrigativo. Dal suo accento si direbbe siciliano, ma potrebbe essere anche calabrese, figlio di quel confine ideale rappresentato dallo Stretto.

    «Ha ammazzato un boss mafioso che aveva fatto uccidere la sua amante.»

    «Un giustiziere» commenta il procuratore, con tono ironico.

    «Da encomio, se non fosse che il De Luca prima di questo nobile gesto aveva accettato di diventare prestanome della mafia in una super operazione di riciclaggio fondata sulle centrali eoliche.»

    «Quindi?»

    «Per ora è in ospedale, seguito da un ufficiale medico. L’hanno ricucito per bene. Io lo accuserei di complicità, di associazione mafiosa e omicidio volontario, lo metterei sotto pressione, lo farei collaborare e poi derubricherei tutto, concordando il suo ingresso, se è il caso, nel programma di protezione.»

    «Piano interessante, anche se ambiziosetto. Non ti pare, Giulio?»

    «Era un top manager, non è abituato a questo circo. Vedrai che accetterà.»

    «Possiamo fare grossi arresti?» chiede il procuratore.

    «Dici a Milano?»

    «Ovunque. Mi servono bei nomi.»

    «Qualche boss, qualche colletto bianco, manovalanza assortita.»

    «E allora procedi. Accusalo di tutto. Poi trattiamo.»

    Mercoledì

    Il direttore sta sfogliando il giornale, senza fermarsi a leggere niente. La sua non-lettura è un rito del mattino: è come se osservasse immagini su un catalogo d’arte; pura estetica delle notizie. Questa pagina è bella, non so se utile, direbbe, se il caso gli avesse fatto dono di un pizzico di sincerità. Invece mente dalla mattina alla sera: quindi è considerato un buon direttore.

    Si sofferma su una pagina interna. La verità sul manager assassino. Un titolo efficace, pensa.

    Pigia un tasto del telefono, mette l’interlocutore in viva voce.

    «Direttore, dica.»

    «Chiamami, per favore, De Stefanis.»

    «Subito» risponde la sua assistente, la quale sa che dovrà cercarlo a casa: manca un quarto d’ora alle nove.

    Dopo venti secondi De Stefanis è in linea.

    «Buongiorno, direttore» dice con voce bassa.

    «Bravo, Francesco, hai fatto un buon lavoro. Hai particolari esclusivi, bravo.»

    «Grazie. Sai che ci lavoravo da un paio di giorni prima della sparatoria…»

    «Lo so, lo so» e intanto disegna una piccola forca sui margini della pagina di giornale. Un disegno da bambino, schematico. Come quello che si fa per il gioco dell’impiccato. Non ha molto altro da dire al suo giornalista, quindi ripete: «Bravo, Francesco, continua così».

    «Grazie, direttore.»

    Clic.

    Francesco De Stefanis riattacca e si mette i boxer. Guarda Roberta ancora a letto, accucciata su un fianco. La pancia di otto mesi e il luglio milanese le hanno impedito un sonno tranquillo. Ora sta recuperando. E quello squillo non ci voleva, anche se i complimenti di un direttore non sono poi male, pensa.

    Va in cucina, prepara un tè che lei potrà scaldarsi quando si alzerà. Va in bagno e venti minuti dopo è fuori, sulla sua Ducati, diretto al giornale. Si dà i compiti per la giornata. Al primo posto c’è che dovrà scoprire, se il capocronista gli darà tempo, ancora un paio di cose su Sari De Luca e sulla sparatoria al ristorante giapponese più chic di Milano.

    Tre mesi dopo

    La luce d’autunno rende opaco il paesaggio. Un’auto passa veloce, non faccio lo sforzo di seguirla con gli occhi. Resto a fissare il grigio totale che ho davanti a me: i pioppi sono inghiottiti dal cielo, l’asfalto ha lo stesso colore dei pioppi e, quindi, del cielo. Sono i miei primi minuti di libertà, e li sto vivendo in piedi, da solo, in una tela di Malevič.

    Alessio sarebbe già dovuto essere qui. Eravamo d’accordo. Infatti lo vedo, dentro la Prius bordeaux, il cui colore – come tutto il resto – sparisce nel paesaggio. Scende, mi viene incontro. Lascio andare sull’asfalto la

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