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Il vento in tasca
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E-book483 pagine5 ore

Il vento in tasca

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Info su questo ebook

La vista casuale di una vecchia fotografia ridesta in un ex pilota di Deltaplani altri segni che lo convincono sia arrivato il momento di rivivere antiche emozioni e amicizie lontane.

Visto che il Destino lo ha tratto su questa Via, il vecchio pilota non si sottrae ed inizia a narrare come tutto iniziò nel lontano 1975.

Rivive così i primi due anni d'intensi voli dai monti, del primo Campionato Italiano e del primo Campionato Mondiale a Kossen, in Austria.

Le amicizie, i piloti, gli incidenti e la Via che il Drago tracciava dentro di lui, in un susseguirsi di emozioni e di avventure che ti porteranno in un mondo difficile da raggiungere e da interpretare.
LinguaItaliano
Data di uscita2 mar 2022
ISBN9791220393669
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    Anteprima del libro

    Il vento in tasca - Orazio Sguazzero

    PRIMO CAPITOLO

    La Foto

    La foto saltò fuori in casa di conoscenti, l’inverno scorso, in occasione di un compleanno.

    L’amico di un amico. Lo conoscevo di vista. Festeggiavano in casa, di sera.

    Si sa come vanno queste cose. Mi attardai. Vidi dei giovani raggruppati intorno ad un caminetto e

    li raggiunsi. Sempre interessante sapere cosa frulla nei cervelli giovanili.

    Uno di loro propose di riguardare vecchie immagini di vacanze.

    Ma che idea originale! Ci mancava. In verità, mi ero già rotto le palle.

    Non ero più tagliato per queste cose, anzi non lo ero mai stato.

    Si, ma avrei dovuto attendere che l’amico, finito di raccontar cazzate, mi riportasse a prender l’auto. Mi rassegnai. Ma si vediamo.

    Forte dei Marmi, Alassio, Tropea. Esclamazioni e sorrisetti. Si divertivano. Beati loro.

    Poi, improvvisa, la foto. Guardai. Osti. Quella foto!

    Rimasero muti per qualche secondo. Si guardarono. Non interessava. Aliena.

    La lasciarono cadere e ripresero a cinguettare. Bene. Meno male.

    L’ultimo, però, prendendola per riporla, la guardò di nuovo e...

    «Ehi! Perché non cerchiamo di scoprire chi diavolo sono questi tre e dov’erano e che ca...o stavano facendo?»

    Bravo un nuovo gioco? Cercai di svicolare. M’invitarono. Ovvio.

    Non potevano farne a meno, visto che da venti minuti ero seduto ad ascoltare le loro minchiate.

    Mi porsero la fotografia. La guardai a lungo. Ma, demonio, quanti anni erano passati?

    No, loro non potevano sapere chi diavolo fossero quei tre, in piedi e di spalle, allineati sull’orlo del dirupo. Ma quando mai?

    E sicuramente non potevano nemmeno sapere dove si trovassero o che diavolo stessero facendo.

    Certo vedevano case sparse, strade solitarie, ampi prati lontani, lontanissimi e così percepivano che là, sotto, c’era un salto, e che salto.

    I tre invece si stavano godendo il panorama.

    Mi domandarono cosa ne pensassi. Ci giocai.

    Dissi che erano abbigliati in maniera strana. Vedete, indossano caschi ed imbragature.

    Certo.

    Feci anche notare che mi sembravano in attesa.

    Sicuro, in attesa.

    Forse stavano per fare qualcosa di pericoloso, pericoloso quel tanto da doverci pensar su e bene prima d’iniziare. Convennero, si guardarono e mi pregarono di continuare. Bene bene.

    Presi la foto di nuovo, finsi di guardare con attenzione e continuai.

    L’ultimo a destra sembra aspettare, si aspetta... tranquillo. Si tranquillo, così dissi.

    Pericoloso o no, lui aveva già deciso. Si, si vede. Mostra un profilo baffuto.

    Il piede sinistro quasi sull’orlo del precipizio. Le braccia attaccate agli spallacci. La schiena diritta.

    Certo che rilassato è rilassato. Troppo.

    Vollero guardare di nuovo tutti quanti. Annuirono.

    Certo era proprio così: rilassato. Tranquillo.

    Ma che bravo! Che psicologo!

    Continuai visto il successo. Ascoltavano attenti.

    «Sicuro> dissi «lui non si è nemmeno posto il problema. Indifferente.

    Un cazzone pericoloso deve essere. Uno che non si preoccupa del rischio. Si e chi se ne frega!

    Una bestiaccia da prendere con le molle e guardate quello al centro, guardate, ha il braccio sinistro penzoloni ed il piede destro, si, il piede destro proprio sul ciglio del burrone.

    Lui indeciso? No, non è indeciso. No, no. Guardate la sua gamba sinistra, sembra quasi spingere, si spingere. Certo, quest’altro mentecatto è solo impaziente di agire. Si, non vede l’ora d’iniziare il casino. Tanto poi si vedrà. Ragazzi che coppia!»

    I giovani tutti a riguardare la foto di nuovo.

    Assentirono. Vero. Vero. È proprio così. Bravo.

    Il terzo si vedeva bene in volto ed alcuni, a loro volta, cercarono d’indagare.

    «Sembra quasi aver freddo, guardate la sua mano sinistra serrata sui guanti. Sta guardando lontano e con attenzione anche> così dissero «Preoccupato forse? Tu cosa ne dici?»

    Osti siamo al tu. Allargai le braccia e scossi il capo.

    «No, preoccupato no. Direi piuttosto che sta osservando; si forse sta osservando il tempo grigio, sperando che non arrivi una sfiga improvvisa. Così almeno mi sembra. Si deve essere così.

    Uno con la testa sulle spalle finalmente. Si, ma solo fino ad un certo punto e si vede. Poi avrebbe rischiato anche lui»

    I ragazzi ora molto curiosi. Convinti. Uno disse persino che il terzo gli sembrava contento.

    Si, lui percepiva addirittura un sorriso.

    «Ovvio che gli piaccia» risposi subito «altrimenti non sarebbe lì con gli altri due mentecatti. No?

    Ovvio, e mi sembra che sia lui a decidere il da farsi. Si deve essere così. In ogni caso, un bel gruppetto di fuori di testa»

    Il ragionamento non faceva una grinza.

    Ma chi fossero, dove e che cosa stessero facendo, in verità, ripetei due volte, non sapevo.

    A questo punto, sempre più incuriositi, domandarono al padrone di casa.

    Lui rispose un poco risentito per essere stato disturbato dal suo cazzeggio.

    «Si, è una vecchia foto, ma che ci faceva in mezzo alle altre? Si mi ricordo.

    Me la diede Caronti. Sapete, quello che volava con gli Aquiloni da traino e poi con i Deltaplani.

    Già voi queste cose non le avete mai viste. Caronti è quello a sinistra. Si è lui: Alfio.

    Gli altri due non ricordo. È una foto vecchia di quarant’anni. Si, vedo le imbragature ed i caschi.

    Penso stiano per partire per uno dei loro voli. Un momento. Ori, tu dovresti conoscerlo bene Alfio, no? Guarda bene la foto. Riconosci qualcuno?»

    Presi la foto, la guardai di nuovo e risposi calmo calmo.

    «Cribbio, hai ragione, vero questo è Alfio. Dio come era giovane. Gli altri due non saprei.

    Non li conosco. No, mi dispiace, non li conosco»

    Anche il mio amico volle vedere la foto. Stava per dir qualcosa ma lo fulminai.

    Mi versai da bere. Il padrone di casa continuò.

    «Si, si lanciavano dal Bisbino ed ammaravano di fronte a Villa d’Este. Li vidi diverse volte.

    Più di mille metri di dislivello, attaccati ad un Aquilone, si un Deltaplano. Ragazzi in gamba, debbo dire, si in gamba, ma fuori di testa. Non capii mai come funzionasse il loro cervello, ammesso che ne avessero uno»

    Mi venne da ridere e commentai.

    «Vero si, partivano dal Bisbino, anzi da Garzagallo. Conoscete?»

    No, non sapevano.

    «Ricordo che negli anni settanta, questo sport era qualcosa di nuovo, di sperimentale ed era anche molto pericoloso» continuò il festeggiato.

    Annuirono. Bene. Tranquilli. Un po’ delusi. Tutto qui.

    Non c’era più niente da scoprire. Il filo interrotto. Gioco finito. Meno male.

    Come fosse finita tra le altre la foto, non potevo saperlo, no, questo no, ma sapevo quando e dove la scattarono e chi diavolo fossero quei tre dannati.

    Si, certo, questo lo sapevo, lo sapevo benissimo.

    Per forza quello a destra, l’avrete capito, si quello baffuto ero io: Ori e quello al centro era Bruno.

    Si Bruno! Allora era maestro di sci nautico a Villa d’Este.

    L’ultimo a sinistra era Alfio, Alfio Caronti e non guardava solo il tempo a venire, no, no, lui guardava anche dove diavolo virassero quei maledetti uccellacci, perché era là, dove viravano, che finiva la spinta, si la spinta verso l’alto. Uccellacci? Si certo grifoni.

    Grifoni che volavano sotto e sopra di noi.

    Veleggiavano avanti ed indietro lungo la Falesia e non muovevano nemmeno le ali.

    Maledetti stronzi.

    Filavano via lisci lisci sino ad un punto preciso, lontano, poi viravano e tornavano indietro senza perdere un metro di quota. Si ma non tutti. Anzi. Chiaro. Chiarissimo.

    Quando raggiungevano una quota sufficiente, uno di loro si staccava e volava via ancora più lontano. Ma certo!

    Si distribuivano per poter sorvegliare miglia e miglia di terreno ed appena uno iniziava a scendere, ecco che tutti gli altri lo seguivano. Preda in vista. Avvoltoi no?

    Non erano molti. Ne contammo solo nove o forse qualcuno di più.

    Eravamo noi tre, a quel tempo, sui monti del paese Basco.

    Si, in Spagna e dove sennò con tutti quei grifoni!

    Ci avevano invitato degli amici spagnoli. Uno di loro si chiamava Jesus.

    Aveva un albergo ed una Range Rover. Invitati per poter imparare e veder volare.

    Ovvio che ci portarono in luoghi dove loro avrebbero voluto ma non potuto ancora volare.

    Ecco, uno di questi, era una Falesia alta più di 800 metri. Imponente sopra la pianura sottostante.

    Una partenza a sbalzo. Un vero salto.

    Nessuna possibilità di errore ed in più anche quei maledetti uccellacci.

    E lì sopra, sul ciglio, noi tre a rimirare il panorama. In attesa.

    Gli Spagnoli, stavano aspettando a debita distanza che noi partissimo.

    Non solo loro pensai, anche i grifoni.

    Non ci pensammo su molto in verità e la foto fu scattata pochi minuti prima della partenza.

    Era la Pasqua del 77. Si del 77.

    Unico vero dilemma era conoscere le intenzioni di quei maledetti volatili.

    Certo, ma chi poteva saperlo? Nessuno. Nessuno aveva mai volato in mezzo ai grifoni.

    Certo nessuno e da lassù, in ogni caso, eravamo noi i primi a scendere.

    Insomma trovarsi in volo con un paio di quelle bestiacce al fianco e magari uno sopra ed uno sotto, non era il massimo per dei pellegrini come noi.

    Avevano un’apertura alare di quasi tre metri ed erano forniti di un becco niente male e di due occhi da criminali, si giallastri. Li vidi quando passarono la prima volta di fronte a noi a meno di cinque metri. No, non erano proprio dei passerotti.

    Scontri aerei ravvicinati.

    Poi Bruno ridacchiò e disse che in fin dei conti noi eravamo uccellacci ancora più grandi e che se la sarebbero fatta nelle mutande quei grifoni del cazzo. Altrimenti peggio per loro. Così disse Bruno.

    La Folgore non si smentiva mai. Sempre avanti a tutto gas! Si tocchiamoci le palle.

    «Si, ha parlato il Barone rosso» risposi.

    Bene. Dette le ultime battute, non restava che partire e toccare con mano. O no?

    Alfio si ridestò e giratosi verso di noi, sputò la sentenza. Sentenza ovvia.

    «Bene. Mi sembra buona. I grifoni? Vedremo ed allora... via si va!>

    Bruno saltellò come un piccio.

    «Si, si! Si va! Si va! Figata!»

    «Va bene, va bene, partiamo pure, ma chi va via per primo? Così tanto per vedere cosa ne pensano gli stronzi in volo lì fuori?»

    domanda infantile la mia ed infatti ecco la solita risposta. Maledetti.

    «Ori! Ma che domande fai ancora? Tu hai solamente un cane puzzolente che ti aspetta e lo sai ti aspetta solo per le polpette e poi sei talmente rompicoglioni che non ci mancherai, anzi non mancherai proprio a nessuno e quindi... ma che figata, ti vedremo volare con gli avvoltoi e se ti spenneranno, meglio, ci faremo anche delle belle risate»

    «Era solo per vedere quanto bene mi volete e poi, diavolo, non parlate sempre male del mio cane, sapete che s’incazza e poi non è puzzolente»

    Così iniziò con queste vecchie e stantie battute, il nostro primo volo in Spagna.

    Storie antiche che ormai non interessano più a nessuno. Del resto, nessuno ci avrebbe mai creduto.

    Mi venne da ridere nel pensare a come tutto iniziò. Voglio dire a come iniziai a volare. Io e gli altri.

    Si, ma ora era tardi, volevo andar via. Salutai subito ed il mio amico mi riportò all’auto.

    Mi domandò come mai non avessi detto niente.

    Risposi che mi avrebbero fatto le solite domande, ed io non avevo nessuna voglia di rispondere.

    Ma certo, risposte che in fondo non interessavano a nessuno. Annuì. Lo salutai e partii.

    Lunga era la via del Lario sino alla mia Casa.

    Un ora e più per arrivare lassù tra i castagni, sui monti.

    Non vedevo quasi più nessuno ormai e nessuno veniva a trovarmi. Quasi mai.

    L’erba cresceva sui sentieri. Meglio così.

    Ero andato qua e là negli anni, ramingo, ma infine ero tornato.

    Tornato dove sapevo che alla fine sarei tornato. Semplice in fondo.

    Da tempo vivevo al limitare del bosco. Almeno respiravo la vita.

    Coltivavo un piccolo orto ed avevo piantato meli, ciliegi e fichi.

    Avevo anche un paio di galline ed un cane. Un bassotto peloso, iroso e rompicoglioni.

    Si, insomma un cane adatto. Ah! Certo avevo anche una compagna. Adatta anche lei.

    Inutile negarlo, quella foto, aveva rovistato nel profondo e riportato a galla una valanga di

    storie. Non volevo ammetterlo, ma ormai non potevo più far finta di niente. No, non potevo.

    Certe cose accadono al momento giusto, anzi accadono perché debbono accadere. Almeno si dice.

    Inutile opporsi, si verrebbe trascinati. Niente, nemmeno la più piccola cosa accade mai per caso.

    Sicuro, sicuro. Bene ed allora? Avrei dovuto scrivere di nuovo? No, quando mai?

    I fari funzionavano egregiamente. Poche le auto per strada. Iniziò anche a piovere. Rallentai.

    Avevo tutto il tempo per iniziare a pensare. Cercar di capire come e perché, si... questa era una

    cosa che avrei dovuto fare da tempo. Assolutamente.

    Certo e tanto valeva pensarci subito. Prima di arrivare a Baita ci vorrà un ora e poi ... un

    bicchiere di rosso sul ballatoio e sarei andato avanti, oppure mi sarei seduto come i gatti, vicino

    alla stufa, a far correre i pensieri, rintracciare e riscoprire quelli più nascosti. Si giusto. Ma si.

    Non faceva tanto freddo e poi di legna ne avevo ancora in abbondanza. Legna? Osti!

    Ma certo la legna!

    Cribbio, ma questa, allora, era la terza volta! Ma certo tre. Riepiloghiamo. Si la terza.

    Dunque vediamo. Vediamo.

    La faccenda era iniziata l’Estate precedente, quando salii da Bene Lario, su fino al Rifugio Venini.

    Si giusto. Una bella salita di 1200 m.

    Ero salito lentamente e con le dovute soste, come si conviene ad un vecchio, anzi ad un antico.

    Mi spiego. Il Paese di Bene Lario mi aveva sempre incuriosito.

    Lo vedevo ogni volta che percorrevo la Statale Menaggio-Porlezza e lui stava là, ai piedi del versante Nord del Monte di Tremezzo e per questo quasi sempre in ombra.

    Mi sembrava un poco lugubre, come se portasse sfiga. Non vi sembra?

    O forse era solo perché la prima volta lo vidi, a 12 anni, dalla Corriera mentre stavo andando al

    Collegio Sant’Ambrogio di Porlezza. Appunto il Collegio. Più sfiga di così!

    Ed in effetti, Bene Lario, ancora immerso nel buio e sovrastato dalla montagna, non mi sembrò,

    allora, di buon auspicio. Bingo. Il Collegio in verità si dimostrò una galera. Peggio di Alcatraz.

    Così mi convinsi: Bene Lario portava sicuramente sfiga. Ma certamente sfiga. Sicuro.

    Insomma, le rare volte che passavo, lo vedevo sempre triste, così, solo, nell’ombra e così intristiva

    anche me. Quindi, anni ed anni dopo, si certo solo due anni fa, quando andai a comperare la legna

    per l’inverno dal Rusconi a Carlazzo e lo rividi, sempre in ombra naturalmente, m’incazzai e decisi

    che prima o poi avrei dovuto dare un’occhiata a lui ed alla sua nera montagna sovrastante e non

    solo, già che c’ero, sarei anche salito sulla cima del vicino Galbiga.

    Così mi sarei tolto anche un’altra soddisfazione.

    Si, perché quella cima, con il suo prato illuminato dal primo sole, mi appariva nelle fredde

    mattine invernali, guardando dalle finestre del Collegio, come un Paradiso di libertà.

    Si la vedevo lassù, bella, luminosa e con il suo prato verde, assolato, pulito ed irraggiungibile.

    Certo dovevo vederlo quel dannato prato ed avrei visto dall’alto, finalmente anche Alcatraz.

    Si, si, mi dissi, certe faccende vanno risolte prima o poi. Non possono essere lasciate in sospeso.

    Fu così che in una bella giornata estiva, si era d’Agosto, parcheggiai l’auto nella Piazza centrale del

    Paese sfigato. Beh! Non era male a dir la verità. Simpatico con tutti quei bei balconi fioriti.

    Si, simpatico. Una Signora gentile mi disse dove parcheggiare.

    Si era affacciata alla finestra, sentendomi arrivare di prima mattina e mi salutò. Ricambiai.

    Feci scendere il cane e m’incamminai.

    Tutto sommato, Bene Lario era un bel paese, lindo, pulito e non portava assolutamente sfiga.

    Era solo spesso all’umbrìa! (all’ombra)

    Un ora e mezzo dopo, giunsi all’Alpe di Bene Lario di Sopra e sbucai nel sole.

    Magnifico il panorama. Non trovai acqua, nemmeno una goccia. Un Alpe senz’acqua! Mah!

    In compenso vidi una griglia lunga un paio di metri. Giusto per le costine e le salsicce.

    Si trattavano bene i villici. Brill bevve dalla mia borraccia.

    Chiamavo tutti i miei cani con lo stesso nome. Si: Brill.

    Così quando un giorno attraverserò l’ultimo torrente sul ponte dell’arcobaleno e giungerò in quella

    bella prateria verde verde, mi basterà gridare: Brill e li avrò tutti, tutti attorno a festeggiarmi.

    O no? Osti che idea.

    Alzai le spalle e ripresi a salire ed un ora dopo, un sentiero poco sotto il crinale erboso, mi portò

    sulla cima del Galbiga. Non ero mai arrivato sin lassù. Certo su tutte quelle vicine si, ma lì mai.

    Puntai il binocolo, guardai, e subito vidi il Collegio e le sue finestre nere, vuote, le mura dissestate,

    le crepe ed il parco abbandonato.

    Che miseria vedere Alcatraz abbandonato...con tutti i sentimenti. Lasciamo stare. Orpo!

    In pochi minuti, rividi tutti i miei compagni: Bottinelli, Cima, De Maria, Vedovatti,

    Fumagalli, Somaini, Viganò, Bordoli, Micheli, Gramatica e Bellieni e vidi anche i Professori Comis ed Odorizzi e persino i Pretoni Don Melezio e Don Contini e Don Villa. Cristo. Mi scostai.

    No, non andava bene. Non andava bene per un ca...o non volevo. Troppa roba.

    Mi erano apparsi così, nella mente, e li avevo visti distintamente. Vivi.

    Mi alzai subito e tornai indietro. Il respiro affannoso. Osti! Via. Via.

    Dieci minuti dopo attraversai il crinale e mi trovai in un Luna Park. Che delusione!

    Musica e gente in mutande stesa al sole. Il Rifugio Venini, pieno pieno. Auto e gitanti.

    Un Audi cabrio mi sfrecciò davanti strombazzando. A bordo due cessoni tedeschi in bikini e cappello di paglia. Si, via via, per l’amor di Dio.

    Anche il vecchio cannone anticarro da 47/ 32, messo lì in bella mostra, mi sembrò incazzato e truce. Proseguii ed una ventina di minuti dopo, arrivai su quel bel prato in discesa, appena sotto la Baita della Teodolinda. Finalmente. Che piacere rivederlo quel prato. Il nostro prato.

    Il Lario era mille metri più in basso. Scintillava.

    Eccolo il bellissimo prato da cui spesso partimmo con i Deltaplani. Certo i Delta.

    Merda che volo. Ammarravamo nel lago davanti alla Taverna Blu.

    Ed in quel momento compresi. Solo in quel momento. Si qualcosa si era mosso nel profondo.

    No, non era per Bene Lario. Avevo capito.

    Esistono cose che se cerchi di cambiare, distruggi e che se invece cerchi di trattenere, perdi.

    Così, spesso, sono i ricordi degli uomini.

    Bisogna lasciar fare al Destino, al Caso e solo allora agire.

    La curiosità per Bene Lario fu solo l’esca per farmi salire fin quassù e la cima del Galbiga con i suoi ricordi aprì la prima Porta. Tentai inconsciamente ancora di resistere.

    Due volte era arrivato il messaggio. Poi l’indicazione. Il Prato in discesa. Il prato dei decolli.

    Resta sempre una traccia. Certo erano storie vecchie e per me era sufficiente averle vissute e conosciute. Mi bastava. No. Non era vero e lo sapevo.

    Attraverso il ricordo, le storie rivivono e così s’impara a conoscere meglio se stessi e si migliora.

    Certo, ricordare era attingere di nuovo alla fonte. Si la fonte di quell’energia che ci legò allora tutti quanti insieme. Un’energia dello spirito.

    Si, lo sapevo, ma chi se ne fregava in fondo. Così vecchio.

    Non erano motivi sufficienti per farmi muovere e ripensare il tutto. Una fatica.

    Si, certo, una fatica. Non mossi un dito, per mesi, ma dopo quella foto, la faccenda aveva preso una piega diversa. Avevo ricevuto un altro segno, il terzo e non potevo più far finta di niente.

    Impossibile.

    Indagare e rivivere il passato calma la mente, corrobora lo spirito ed illumina il cammino.

    Si, insomma si spera.

    Si, vero e meglio farlo subito, prima d’essere troppo rincoglionito.

    Non mi ero mai dato pensiero, ma in effetti ero molto avanti con gli anni.

    Ne avevo 80 ormai. Vecchio? No Antico.

    Si, si, questo lavoro andava fatto, si lo faccio e così li avrei ricordati tutti, uno ad uno, quei maledetti. Quel gruppetto di satanassi degli inizi. Si certo era necessario.

    Dunque vediamo.

    Il primo volo

    Mi sembra fosse...il ‘74, no il ‘75 quando iniziò tutto l’ambaradan. Si, il ‘75.

    Scendevo, ricordo bene, una sera da Villa Olmo verso il Lago. Una sera di Maggio.

    Sentivo il gracchiare del sei cilindri e ghignavo.

    Si, le cose avevano iniziato ad andare bene, benissimo. Fin troppo.

    Guadagnavo bene e spendevo meglio. Ghignai un’altra volta.

    A dir la verità spendevo quasi tutto, no, no, non quasi, spendevo tutto, si tutto tutto.

    Non era proprio così, ma rendeva l’idea e non solo, ero appena uscito da un casino. Anzi da due.

    Una bellissima ragazza mora mi aveva appena mandato a quel paese ed essere segati improvvisamente faceva sempre girare le palle. O no? Altra ghignata.

    Ma chi se ne frega. Non aveva torto. Mi aveva forse scoperto? Si, ero anche stronzo.

    Lo si è spesso a trent’anni. No? Si lo so: era già un po’ tardi.

    Certo non ero più giovanissimo ma stronzo si, sempre. Quasi.

    Cambiai marcia dopo la curva del Lido per superare un paralitico che andava a trenta all’ora ed accelerai. Un rombo e giunsi subito a Villa Flori, non tolsi il gas e percorsi le due curve con il culo in fuori, accelerai ancora sino a Tavernola, poi inserii la terza e tolsi il piede.

    Si, le cose stavano andando bene, sin troppo. Il mio lavoro sulla china giusta.

    Si certo, spendevo quasi tutto, ma non mi preoccupavo.

    Del resto, avevo toccato con mano quanto fosse ingenuo far progetti per il futuro e quindi...se avesse piovuto, avrei aperto l’ombrello. Tutto qui.

    Le cose accadono e noi non possiamo farci un bel niente.

    Appunto, tanto vale vivere bene e per il resto si vedrà.

    Un momento, non ero per suoni, canti e balli e del doman non c’è certezza...no, questo no. Mai.

    Lasciavo piuttosto correre i dadi, guardavo, sapevo che potevo muovermi solo in parte ed agivo di conseguenza. Certo facevo anche dei programmi, ma non a lunga scadenza. Non più.

    Semplicemente conoscevo il mio passato e non avevo paura del futuro.

    Ero per così dire pronto a muovermi in ogni direzione.

    Avevo cenato dai miei. Sapevo quanto facesse loro bene il vedermi.

    Mia Madre non si era più ripresa anche se ormai erano passati due anni.

    Mio Padre non parlava quasi più.

    Del resto perdere nuora e nipote in poche ore era dura da digerire. Non pensiamoci.

    Durissima anche per me, visto che si trattava di mia moglie e di mio figlio.

    Debbo ammettere che la bellissima ragazza mora che conobbi mesi dopo, mi aveva aiutato ad uscire dal pozzo scuro. Senza, sarebbe stato molto più difficile e poi...poi mi aveva segato.

    Ed ora?

    Ora andava bene, almeno sembrava, si sembrava, perché in fondo non ero soddisfatto.

    Mai contento? No, no, contento si, ma c’era quel qualcosa che mi dava sempre fastidio.

    No, non una cosa qualsiasi, era quel qualcosa! Si la Cosa: si il Draghetto!

    Avevo sperato che almeno si assopisse per un po’. Invece lui era sempre lì a rosicare.

    Maledetto Draghetto! Sempre lui. Ma quale Draghetto domanderete?

    Ma si, il Draghetto, la Bissa che molti Lombardi si portano nel petto dalla Notte dei tempi.

    Si certo, in parecchi l’abbiamo, ma molti non sanno nemmeno di averlo il Draghetto.

    Si perché, il maledetto, si sveglia per conto suo, ma solo in determinate circostanze, altrimenti dorme e nessuno ci fa caso e allora lo perdiamo.

    Si, lo perdiamo, perché se non si sente necessario, lui se ne va, scompare.

    Inoltre ogni generazione per mantenerlo dentro di sé, deve darsi da fare, così lui segue ognuno di noi, altrimenti basta una generazione di fancazzisti per farselo fuggire.

    Ecco perché oggi ce ne sono così pochi in giro.

    Il mio si era risvegliato durante la Naja nei Paracadutisti, si Alpini Paracadutisti ed erano stati quelli, tempi magnifici, quasi irreali, certo tempi per molti indigesti, quasi una dannazione.

    Ma del resto, si sa... le cose belle per alcuni, sono per altri disgrazie.

    Gli uomini, per fortuna, non sono tutti uguali; era già stato scritto un paio di migliaia di anni fa ed era vero.

    Si, lui si era risvegliato durante la Naja e non voleva assolutamente addormentarsi di nuovo.

    Per cui si faceva sentire sbuffando. Creava inquietudine insomma.

    Pensavo che con la vita borghese si sarebbe tranquillizzato. No, no, ma quando mai?

    Anzi peggio. Come una volpe in gabbia. Lo sentivo sospirare ed andare avanti ed indietro.

    Certo, il non dover essere chiamato in causa, lo faceva torcere inquieto per l’ozio.

    Aveva, sapevo, una missione! Difendere, consigliare e spesso spingere il suo ospite.

    Ma bisognava stare attenti, molto, e non dimenticarsi mai che i Draghi hanno il fiato infuocato ed è facile finire bruciati per aver osato troppo. Insomma occhio a non fare una brutta fine.

    Si vero, ma spesso mi veniva la bocca amara nel confrontare l’Oggi con il tempo passato e lo spirito mi cadeva sotto le scarpe.

    Certo andavo in montagna, sciavo, facevo anche sci alpinismo.

    Salivo sui monti con la tenda ed il cane. Spesso.

    Si, si, tutto bene, ma non ero contento. Figurarsi lui. Non era contento per un cazzo.

    Roba da pensionati. Non bastava. Non c’era adrenalina a sufficienza. Tutto lì.

    Invece, nei Paracadutisti, lui era sveglissimo ed io mi sentivo spesso la nuca formicolare, l’attenzione al massimo, i denti serrati ed Osti ero vivo, vivissimo ogni minuto, ogni secondo e così la vita diventava lunghissima, importante. Degna di essere vissuta.

    Il Draghetto godeva come un riccio e tutto sembrava diventar possibile, e lo era.

    Per Dio se lo era. Bellissimo. Merda.

    Arrivai a Cernobbio. All’Harry’s Bar parcheggiai di fronte all’ingresso della cucina e spensi il motore. Si, frequentavo pochi posti e l’Harry’s era uno di questi. Salutai entrando.

    Paolo era ai fornelli con un bicchiere di bianco in mano.

    Un profumo intrigante. Il risotto saltellava allegro ed i lavarelli imbrunivano nel burro e salvia.

    Proseguii sino al bancone del Bar ed ecco Piero. Piero e Paolo erano i due proprietari del locale.

    Due che neanche a cercarli apposta...invece s’incontrarono. Destino.

    Uno, Piero veniva da una Fattoria della Bassa Milanese, dove sua Madre la Regiùra imperava.

    Le chiavi alla cintura e la sua parola: Legge.

    L’altro, Paolo, era di Cernobbio, un Laghèe fatto e sputato.

    Suo Padre, pizzetto di antico pelo e berretto da marinaio, noleggiava le barche in riva.

    Uno famoso.

    Si, va bene, ma i due maledetti si erano nel frattempo specializzati nel depredare un certo tipo di avventori. Il locale era in brevissimo tempo diventato conosciuto. Alla Moda. Si sa Cernobbio.

    Quindi attirava non solo clientela signorile, rara, anzi rarissima, ma anche un altro tipo di avventori, si quelli che, arricchitisi, volevano farsi vedere, quelli che volevano a tutti i costi apparire e non erano e per questo spendevano e spandevano per farsi notare ed ammirare, e su questi si abbatteva la falce dei due maledetti.

    I ganassa uscivano dall’Harry’s piegati in due, come se avessero mal di pancia o la dissenteria.

    Ci credo, pagavano conti da suicidio all’alba.

    E continuavano a venire, a frequentare, perché bisognava farsi vedere ed i due satanassi giù a scrivere. Ovvio non sempre.

    Insomma facevano anche un po’ di nero. Pensavano giustamente alla Pensione.

    Vi erano anche quelli ricchi sul serio, ed erano anche peggio.

    Certo prima o poi avrebbero pagato, ma spesso per il saldo del conto passavano mesi e mesi.

    «Piero, metti sul conto. Piero scrivi mi raccomando»

    Così dicevano e Piero scriveva, scriveva ed aggiungeva, aggiungeva, tanto per star tranquillo.

    Insomma per gli interessi, no? Ed allora aggiungeva, orpo se aggiungeva. Osti.

    Io appartenevo con pochi altri ad un altro tipo di frequentatori.

    In effetti entrai all’Harrys la prima sera in cui fu aperto ed in più ci entrai con il proprietario precedente, il mio amico Canova. Fui ben presentato insomma. In verità il Bar era di suo Padre.

    Uno che quando ci voleva, si insomma, quando si faceva troppo casino, mostrava la sciabola di Cavalleria della Campagna di

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