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L’antiquario del Garegnano: La seconda indagine milanese di Bonetti e Valli
L’antiquario del Garegnano: La seconda indagine milanese di Bonetti e Valli
L’antiquario del Garegnano: La seconda indagine milanese di Bonetti e Valli
E-book248 pagine2 ore

L’antiquario del Garegnano: La seconda indagine milanese di Bonetti e Valli

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Info su questo ebook

Milano, ottobre 2006, un uomo lascia un’agendina nera su una panchina della stazione Certosa. Anita Valli, che attende il treno al binario opposto, lo nota: è calvo e ben vestito, sembra guardare verso di lei, come se la conoscesse, quasi a inviarle una muta richiesta di aiuto. Anita si decide, scende nel sottopassaggio e recupera l’agenda. Da qui parte tutta una serie di misteri ed enigmi che porteranno Anita Valli e Mirella Bonetti, le due “squinzie” milanesi che abitano in via Gallarate, a indagare su un omicidio e su una faccenda di quadri poco chiara, con l’aiuto dell’amico Marchino, circondate, al solito, da personaggi piuttosto singolari. Tra una cenetta e un aperitivo, tra i numerosi “bianchini” e le pietanze che Anita ama cucinare (e che Mirella degusta volentieri) si spingeranno fuori città, sul vecchio furgone con cui Anita Valli trasporta i mobili per il suo laboratorio di restauro, alla ricerca di indizi… ma soprattutto di guai! E il bel commissario Giorgio Santini? Beh, al solito gli faranno vedere i sorci verdi, per fortuna che il suo aplomb è duro da scalfire.
Paola Varalli, originaria della provincia di Varese, quando aveva due anni è approdata a Milano, che considera, dunque, a pieno titolo, la sua città. Dopo la laurea in Architettura, ha lavorato come grafica e poi come progettista di allestimenti per fiere e mostre, cosa di cui si occupa tuttora. Ama il suo lavoro, adora leggere, e poi… la vela, le passeggiate nei boschi, i cavalli, l’orto, il cioccolato e gli amici sinceri: per fortuna può vantarne una vasta schiera! Quando riesce a rubare tempo alle frenetiche attività a cui si dedica, si rilassa con la “Settimana enigmistica”, di cui apprezza i giochi più stimolanti; ovviamente adora scrivere, lo ha sempre fatto solo per sé, fino a quando, nel 2005, a seguito di un paio di corsi di scrittura creativa, ha deciso di affrontare la stesura di un romanzo e di prendere parte a un concorso letterario, vincendolo. Da allora non la ferma più nessuno. Ha partecipato, vincendo, a concorsi letterari, come “Corpi” lanciato dal mensile “Marea” di Genova e “Milano Noir e Giald” indetto dal Centro Culturale Cox 18. È stata finalista con due racconti in altrettante sessioni di “Giallo Milanese” e le sue storie sono pubblicate su diverse antologie, tra cui 44 gatti in noir e Tutti i sapori del Noir (Fratelli Frilli Editori). Tra gli autori preferiti: Simenon, Carofiglio, Amado, Izzo, Camilleri, Márquez, Baricco, Bartezzaghi, Markarīs, Agatha Christie, Vargas, Grossi. Il suo romanzo noir Incroci Obbligati, primo premio al concorso “Delitto d’Autore” 2005 patrocinato da ACSI di Lucca, è stato pubblicato presso la Fratelli Frilli Editori nel novembre del 2017. Con questo noir si è aggiudicata un posto in finale al premio letterario “Garfagnana in giallo 2018” e una menzione a “Giallo Garda 2019” nelle sezioni giallo classico e romanzi editi. Con Oakmond Publishing ha pubblicato Trilogia milanese.
LinguaItaliano
Data di uscita29 nov 2019
ISBN9788869434105
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    L’antiquario del Garegnano - Paola Varalli

    Milano, giovedì 5 ottobre 2006

    Un uomo calvo, in completo blu, camminava a passo veloce in via Triboniano.

    Lo sguardo terrorizzato, la cravatta allentata, seguitava a voltarsi indietro, cercando di non darlo troppo a vedere.

    Era certo di essere seguito.

    Stringeva a sé la cartella con i documenti e sudava come un cammello.

    Un biondo alto, forse dell’Est, con gli zigomi da slavo, procedeva tranquillo a una discreta distanza, ma lo teneva d’occhio. Aveva quell’aria annoiata che solo i malavitosi, professionisti dell’inseguimento, sanno fingere.

    Dinoccolato, ma vigile.

    L’uomo in blu se ne era reso conto subito: quello era lì per lui, lo aveva scorto con la coda dell’occhio e aveva capito.

    Guardò il sottopassaggio che porta alla stazione Certosa e ai binari, imboccò d’istinto le scale e scese veloce; si muoveva come un animale braccato, non sapeva bene che fare.

    Gli serviva una soluzione e gli serviva subito, ma non era avvezzo a queste cose.

    Fece pochi passi nel sottopassaggio, svoltò a sinistra e risalì al binario sei, il primo che incrociò.

    La banchina era deserta. Avanzò senza meta.

    Era agitatissimo. Si doveva dileguare. Doveva sparire.

    Almeno arrivasse un treno! Pensò. Aveva un po’ di vantaggio, lo avrebbe preso al volo.

    Ma non arrivava nessun treno.

    Poi la vide.

    Era seduta sulla panchina d’acciaio, in attesa al binario di fronte, leggeva.

    Sì, è lei! Mise bene a fuoco, la guardò attentamente:

    Sì, è sicuramente lei

    L’uomo in blu era molto fisionomista.

    Il Black Berry vibrò nella sua tasca, lo tirò fuori, lo guardò e lo rimise via:

    Non ho tempo, adesso.

    Si rimise a osservare la brunetta del binario opposto. Non ricordava il suo nome, ma ne ricordava la professione. Avrebbe potuto controllare nella cartella, estrarre la rivista, ma aveva fretta.

    Sono certo di non sbagliare.

    In un pic- secondo decise che era la sua ultima spiaggia.

    Lo slavo non si era ancora palesato. L’uomo in blu guardò nuovamente il binario opposto, lei sollevò la testa, lo vide e forse capì che le stava chiedendo aiuto.

    Allora l’uomo estrasse una cosa dalla tasca della giacca e la mise sulla panchina. La brunetta del binario opposto parlava distrattamente con una bambina. Speriamo abbia capito. Pensò lui.

    Ridiscese le scale dalle quali era salito.

    Lo slavo, o presunto tale, scese nel sottopassaggio a sua volta. Vide l’uomo in blu dirigersi in fondo, verso la stazione Certosa, non si rese conto che la sua preda aveva fatto in tempo a salire al binario sei per poi ridiscendere nel sottopasso.

    Sarà pure stato un professionista dell’inseguimento, ma si era perso un pezzo della faccenda.

    Gli si mise alle costole con passo tranquillo.

    Tanto, a lui, non sfuggiva nessuno.

    Stazione Certosa, passante ferroviario, binario cinque

    Anita Valli aspettava il treno seduta sulla fredda panchina fatta di tubi d’acciaio.

    Un libro tra le mani e lo zainetto sulle spalle, leggeva.

    Nel binario opposto al suo, un uomo sulla sessantina, in giacca e cravatta blu, completamente calvo, salì dal sottopassaggio e fece qualche passo sulla banchina in direzione ovest. Stringeva al petto una cartella rigonfia e si muoveva con fretta evidente e febbrile.

    Anita si sentì osservata, smise di leggere, alzò la testa, notò l’uomo calvo al binario sei. Lo guardò con attenzione, perché era patologicamente curiosa. C’era qualche cosa in lui, nel suo stato di agitazione, che le impediva di concentrarsi sul romanzo che aveva appena iniziato.

    Mi piace come scrive questo Carofiglio, spiritoso, misurato, intelligente.

    Comunque.

    L’uomo si guardava intorno come se la sua vita dipendesse da ciò che stava per fare, a tratti girava la testa di qua e di là, sembrava temere qualcosa alle sue spalle.

    Poi osservò Anita come se dovesse metterla a fuoco.

    Tutto si svolse in un attimo, lei credette di ricevere una richiesta di aiuto.

    Muta, disperata, forse involontaria.

    Intuiva che l’uomo aveva paura, pareva cercasse rifugio.

    A un certo punto il tizio tirò fuori un telefono Black Berry, era sul punto di telefonare, ma indugiò e lo mise via.

    Ha guardato verso di me. Ma perché io? Ci sono altre persone, oltre a me, che aspettano il treno su questo binario. Si disse la brunetta.

    L’uomo, guardandola, aveva spostato indietro la testa per osservarla meglio, come se la conoscesse. Anita Valli però, quello lì, non l’aveva mai visto.

    Era sicura di non averlo mai visto.

    Adesso si era messo a fissare una panchina vuota, poco lontano dalle sue ginocchia.

    Anita si alzò in piedi.

    Una forza magnetica la attirava là, quasi costringendola ad attraversare i binari.

    – Ma… tu dici che il treno non arriva più?

    Anita abbassò lo sguardo per capire da dove veniva quella vocetta che si appendeva alla manica della sua giacca.

    Era una bimba piccola, con le trecce, forse scappata di mano alla madre. Doveva aver deciso che lei, Anita Valli, era più informata del capotreno.

    Con la mano libera, quella che non tirava la giacca, la bambina giocherellava con il bordo del cappottino azzurro, contornato di velluto scuro.

    Anita sorrise e si chinò verso di lei:

    – Sì che arriva, ma tra un po’… guarda il tabellone, dice che il treno per Pioltello porta quattro minuti di ritardo.

    Ma già mentre parlava pensò di essere cretina.

    Didattica, ma cretina: era evidente che quella bambina era troppo piccola per leggere i tabelloni ferroviari.

    Arrivò la madre e se la portò via, strattonandola e dicendo che non doveva andare in giro a dar fastidio alla gente. Lei attaccò a frignare come solo le bambine sanno fare: rognose e insistenti.

    Anita risollevò lo sguardo: il tipo calvo con la cartella, sul binario opposto, non c’era più.

    Sparito.

    Dileguato.

    Salito su un treno? No, era sicura che non ne fossero arrivati, di treni.

    Infilato nel sottopassaggio? Può darsi, in fondo camminava veloce e non era molto lontano dalla scala.

    Restò un attimo a dirsi che doveva andare sull’altro binario e controllare la panchina, le sembrava di vederci sopra un oggetto nero. Quell’uomo aveva un’aria così strana. Forse scappava, forse lo seguiva qualcuno, forse nascondeva qualcosa… e sembrava cercare aiuto! L’altoparlante annunciò l’arrivo del treno, il suo treno.

    Va bene, si decise: vado.

    Scese le scale velocemente, sottopassaggio deserto, nauseante puzza di piscio e di treni. Il senzatetto, che di solito dorme sulla panca di marmo in fondo al lungo corridoio, aveva lasciato il sacco a pelo arrotolato.

    Girò a sinistra e risalì verso il binario sei, si diresse alla panchina vuota su cui vedeva, ora chiaramente, una cosa nera che contrastava con l’acciaio luccicante dei tubi.

    Guardò in giro, non c’era più nessuno. L’uomo inquieto forse era sceso dal treno per Varese… o per Novara? Chissà? Bisognerebbe controllare gli orari.

    Oppure era salito dall’altra scala e poi ridisceso? Mah? La stazione Certosa, dal lato di via Triboniano, ha due ingressi, due sottopassaggi, doppie scale per ogni binario.

    Inutile avanzare congetture, tanto era sparito!

    Nell’aria il rumore del treno che arrivava, il suo treno.

    Sbrigati disse a se stessa.

    Sulla panchina c’era un piccolo quaderno nero, sembrava una specie di agenda. Guardò ancora intorno, la banchina era deserta, al binario di fronte la gente era tutta girata a guardare in direzione del treno.

    Il suo treno.

    Anita guardò di nuovo l’agenda. Si decise.

    La prese e la infilò nello zaino, corse verso le scale: sottopassaggio, puzza di piscio, destra e risalita verso il binario proprio mentre frenava rumoroso il locomotore.

    Montò in carrozza insieme ad altri, prese posto e si immerse nuovamente nel romanzo di Carofiglio, ma non capiva niente di ciò che leggeva, continuava a pensare all’uomo agitato e al quaderno nero.

    Speriamo che non mi abbia visto nessuno.

    Pensò ai passeggeri in attesa al suo binario: c’era parecchia gente.

    Chi stava seduto, chi in piedi, chi parlava al cellulare, c’era anche una coppia che si scambiava effusioni… Proprio a me dovevano fare caso?

    No, non credeva. Chi aspetta un treno si concentra su quello che succede intorno, sulla propria banchina. Vuole essere sicuro di non sbagliare, vuole prendere il treno giusto, che gli frega del binario di fronte?

    Non sapeva se lo diceva a se stessa per consolazione o per reale convinzione.

    In ogni caso ormai era fatta e non poteva più tornare indietro.

    Aveva una cosa che non le apparteneva nello zaino e un piccolo tarlo che si era insinuato, a forza, nel suo cervello.

    La sera, a casa

    Era un’agendina nera Moleskine, la osservò pensando che non si stava facendo per niente i cazzi suoi.

    Pazienza, ormai ce l’hai qui e poi il tipo sul binario opposto ti guardava come se ci potessi fare qualcosa. L’ha lasciata lì per te, quindi molla le paranoie e aprila!, pensò Anita.

    L’appoggiò sul tavolo del soggiorno e andò in cucina a farsi un caffè. Occorreva procedere con metodo, e il caffè le era sempre sembrato una buona base di partenza.

    Non tornò fino a che non ebbe una tazza fumante in mano, prese un pacco di biscotti Ringo dalla credenza e si sedette. Guardò l’agenda mentre immergeva con voluttà un biscotto nella tazza.

    Pucciare i biscotti nel caffè la aiutava a ragionare.

    Poi, questo tipo di biscotto aveva il vantaggio di essere già doppio, così non si doveva nemmeno fare la fatica di prenderne due dal pacco, girarli in modo che combaciassero, stare attenti che non fossero rotti… insomma, Anita Valli poteva anche sembrare fissata, ma il rito di immersione di biscotti doppi era sacro alla tradizione e sublime al palato. Tradizione della sua famiglia, poiché sia suo padre sia suo nonno pucciavano nel caffellatte i biscotti accoppiati a due a due. Ora, per non deludere gli avi e tenere fede all’abitudine consolidata, pure lei si dedicava con zelo a questa missione.

    Mi rendo conto, la sto tirando in lungo, è come se volessi rimandare il momento in cui, aperto il vaso di Pandora, non potrò più tornare indietro, si disse.

    Pucciò un altro Ringo. Crepi l’avarizia e anche la glicemia.

    Guardò di nuovo l’agenda sul tavolo. Sarà stata … dodici centimetri per otto. Copertina nera.

    Settimanale.

    Una settimana ogni due pagine. Lunedì, martedì e mercoledì a sinistra, giovedì venerdì sabato e domenica a destra. Sabato e domenica occupavano insieme lo spazio di un giorno, così era sistemata anche la faccenda di avere giorni dispari (sette) da ficcare in spazi pari (sei).

    "Tanto sono due giorni in cui, teoricamente, non si lavora, e così non serve molto spazio per segnarsi gli appuntamenti.

    Sette giorni su due facciate, come le sette note e i sette colori dell’arcobaleno. Chissà da dove viene la storia della pentola piena di monete d’oro alla base dell’arcobaleno? E poi come si fa a trovarla, la base dell’arcobaleno…"

    Piantala di cazzeggiare e datti una smossa!, pensò Anita richiamandosi all’ordine.

    Aprì il vaso di Pandora.

    La prima pagina, quella su cui si scrivono i dati: nome, cognome, indirizzo, numeri di telefono, targa dell’auto, vaccinazioni, codice fiscale, conto corrente… era vuota, non c’era scritto niente!

    Ecco, cominciamo bene.

    Girò le pagine. Poca roba, qualche appuntamento tipo h.14.00 chiamare PG oppure, in un giorno di metà ottobre: ritiro analisi e un numero di telefono (probabilmente del medico o del laboratorio) o ancora, tornando ai primi di ottobre h. 19.00 ape – PG chissà chi sarà PG? Paolo Grossi? Patrizia Gelmini? Pippo Girgenti? O magari non è un nome, ma una definizione, tipo Penoso Guaritore o Pessimo Guidatore oppure Pirla Galattico.

    Ma anche no, perché mai uno dovrebbe farsi un aperitivo con un Pirla Galattico?

    Ridacchiando di se stessa e delle sue idee bislacche, decise di accantonare il problema PG e di cercare più avanti.

    Anzi, cambiò idea e andò in fondo all’agenda a vedere se il Pirla Galattico aveva per caso un numero di telefono. Guardò sotto la P e anche sotto la G.

    Niente. Non l’aveva.

    Nella rubrica non trovò nulla, nessun indirizzo, nessun numero di telefono.

    Non sapremo mai niente del Presunto Galantuomo e neanche del Prevedibile Giandone.

    Tornò indietro. Scorse le pagine a caso.

    Al cinque di settembre c’era una cosa interessante.

    Misteriosa e interessante.

    Un elenco di numeri e lettere: 325 123524 /9 62330 4 905 DSSX.

    Che diavolo significa?

    Buttò uno sguardo sul cumulo di settimane enigmistiche sul tavolino accanto al divano, pensando alle serate dedicate a risolvere i giochi più difficili e quando non ci riusciva ricorreva a suo padre! Insieme erano infallibili poiché complementari, dove finivano le competenze dell’uno, intervenivano quelle dell’altra e funzionava quasi sempre. Le mancava, suo padre, a volte avrebbe voluto che fosse ancora con lei, ma un infarto se lo era portato via. Decise che questa roba dei numeri, per una enigmista appassionata, era meglio di un invito a nozze.

    Provò con le lettere: i numeri corrispondono a: CBE ABCEBD/I FBCCO DIOE DSSX no, non tornava. Non aveva nessun significato. E cosa era DSSX? Destra e Sinistra? Provare con il lavoro contrario per questi ultimi? Dalle lettere ai numeri? Verrebbe fuori:

    D = 4

    S = 19

    X = 24

    Continuavano a non dirle niente.

    Tentò allora con l’alfabeto completo, quello con le x e le ipsilon; nella mente lo pronunciò tutto in inglese, perché la sequenza giusta la sapeva solo se recitava tutta la filastrocca in quella lingua lì: ei bi si di i ef gi eich ai gei kei… era un sistema che le era rimasto in testa dalle scuole medie, l’unico che aveva per ricordarsi dove andavano messe la x, la y, la j, insomma tutte le lettere straniere.

    A conti fatti ottenne sempre la stessa cosa: CBE ABCEBD/I FBCCO DIOE DSSX che seguitava a non dirle niente.

    E poi, a pensarci bene, come codice segreto le pareva un po’ una belinata, si usava da bambini: numeri che corrispondono a lettere. E chi ci diceva che fosse un codice segreto? Magari era un elenco di altro tipo. Una password oppure un numero di conto bancario criptato, ci doveva pensare su.

    Guardò più avanti, nelle pagine successive. Non è che ci fosse gran che.

    A mezzanotte si rese conto di aver mangiato solo quattro Ringo. Cena frugale, diremmo.

    No, frugale non era la parola giusta, sapeva di monastico e i monaci non mangiano biscotti industriali al cioccolato.

    Semmai al loro desco troviamo prodotti dell’orto: bietole, ravanelli, pane fatto in casa, mica pacchi di Ringo. Aprì il frigorifero, ne osservò lo scarno contenuto, lo richiuse per pudore.

    Bevve un sorso d’acqua direttamente dal rubinetto della cucina e se ne andò a letto con Carofiglio, cioè con il suo libro, dato che lui, personalmente, stava a Bari.

    Non riusciva a leggere, pensava alle cose che aveva visto sull’agendina nera. Aveva bisogno di dormire. Spense la luce e siccome Rossella O’ Hara era tra le sue citazioni preferite, disse a se stessa:

    Dormi va’, che domani è un altro giorno.

    Venerdì mattina 6 ottobre 2006

    Si svegliò con le occhiaie. Saranno state le 11.00. Meno male che aveva consegnato un lavoro ed era un giorno tranquillo.

    Nottata di sonno agitato.

    Indossava, per dormire, una

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