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Qualcosa da tacere
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E-book441 pagine6 ore

Qualcosa da tacere

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Info su questo ebook

In una Genova definita da uno dei protagonisti impalpabile e perennemente distratta, la famiglia Sperlinghi viene sconvolta dallo stupro della figlia minore Michelle. Il padre, l’ingegner Giorgio, erede di una delle dinastie più influenti e facoltose della città, aiutato dal suo uomo di fiducia Gualtiero, scatena la caccia ai colpevoli. Sospetta che i mandanti siano da ricercare tra gli imprenditori rivali nei traffici internazionali, interessati a sottrargli il lucroso commercio delle Terre Rare. Durante le indagini dovrà fare i conti con il suo acerrimo nemico Charlie, un tempo amico e socio in affari. Michelle non è in grado di riconoscere i suoi aggressori. Viene infatti accertato che la ragazza è stata drogata con la “pillola dello stupro”, capace di cancellare la memoria dei fatti più recenti. Con difficoltà accetta il conforto della madre Annetta e di suo fratello maggiore Simone. Nel frattempo, due giovani balordi, Andrea Giuppini e Giulio Senese insieme ad alcuni personaggi underground dei vicoli di Genova, lo spacciatore Nuccio e i complici “Rugby” e “Bronzo”, si rendono conto di essere diventati inconsapevoli pedine di un gioco più grande di loro. I carabinieri Andusi, Scoglio e Romanazzi conducono le indagini ufficiali, rallentati da esasperati protagonismi e sospetti reciproci con la Procura. Finalmente la verità emergerà a poco a poco, in una alternanza di colpi di scena, rimescolando le certezze che tutti i protagonisti credevano di aver acquisito. Sarà per loro l’occasione di afferrare l’ultimo barlume di speranza, alla condizione, però, che rimanga qualcosa da tacere di sé e del proprio passato.

Massimo Ansaldo, nato a Varazze (Sv) nel 1959, vive a La Spezia. Esercita la professione di avvocato con studi a Genova e La Spezia. Presidente del Centro Culturale Don Alberto Zanini della Spezia è cofondatore dell’Associazione culturale Chesterton’s cigars and spirits club della Spezia. Membro del Comitato Regionale delle Comunicazioni (Corecom) della Regione Liguria. Ha pubblicato con Leucotea i romanzi Macerie e Il segno del sale. Per Fratelli Frilli Editori ha contribuito alle antologie Tutti i sapori del noir e Tutti i luoghi del noir con i racconti Il Coltello del cuoco e I cattivi sono buoni.
LinguaItaliano
Data di uscita22 nov 2020
ISBN9788869434921

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    Anteprima del libro

    Qualcosa da tacere - Massimo Ansaldo

    1

    Andrea ingoiava manciate intere di popcorn.

    Fosse stato per lui non avrebbe perso tempo a far scoppiettare la granaglia sulla padella, l’avrebbe schiacciata sotto i denti bella e cruda. Si era persino incantato a seguire il caos esplosivo dei chicchi sul coperchio.

    Non aveva trovato nulla da mangiare.

    Sentiva una urgenza selvaggia di nutrire il corpo svuotato, dopo lo sforzo intenso e l’appagamento amaro che lo aveva seguito.

    La cucina era di quelle arredate per benino, tutta pulita e profumata.

    Senza un filo di polvere: mica come quella di casa sua, dentro un casermone fatiscente, risucchiato nel quartiere cittadino soprannominato Medio Oriente, in onore forse alle guerre israelo-palestinesi, vista la devastazione che c’era tutto intorno.

    Disordinava gli utensili sul piano cottura, buttando poi per terra tutto quello che toccava, per un senso di rivalsa distruttiva, incapace di ammettere che a muoverlo era l’invidia che provava per quel candore che lo circondava, mai visto.

    Non si era fatto scrupoli prima, quando il candore lo aveva succhiato e strappato dalla pelle della ragazza che stava violentando.

    Nella stanza accanto alla cucina.

    Lei era ancora là, semincosciente, legata mani e piedi al letto. Molto giovane, l’avevano obbligata a crescere un po’ troppo in fretta.

    Presto sarebbe stata di nuovo pronta per una ripassata tipo cavalleggeri delle praterie.

    O forse era meglio smettere, chissà. La nausea incominciava a fare capolino.

    Andrea fin da piccolo esultava sempre in favore degli sterminatori, mentre guardava i film western e adesso che gli anni sono diventati venticinque, nella sua zucca, tanta polvere da sparo e con la miccia sempre accesa.

    Giulio sostava in piedi, le spalle alla tazza del cesso, incantato dal riflesso dello specchio, l’uccello esaurito e penzolante. Il cervello in formato timelapse.

    Aveva finito di pisciare da qualche minuto, ma non se la sentiva di ributtarsi oltre la porta del bagno, chiusa a chiave, temendo di non trovare la sua vita di prima, la confortante tranquillità distratta, che aveva definitivamente perduto, alcune ore prima, caricando in auto Michelle.

    Colpa di quella telefonata e dell’ordine di agire.

    Ma lui non avrebbe voluto, doveva rincasare per cena e l’indomani lo aspettavano le lezioni all’Università, il secondo semestre era agli sgoccioli.

    Non si perdonava di aver sottovalutato il rischio di rimorchiare proprio quella tipa, un fisico da urlo, come le sculettatrici in tv, che appena ne incroci una per strada pensi che sia uscita dallo schermo apposta per te.

    E che non puoi fartela scappare e lasciarla a qualcun altro, la devi avere a tutti i costi.

    Soprattutto quando sei fatto della neve cattiva che hai racimolato a prezzo stracciato, per averne di più, fino a scoppiare all’infinito.

    Ora invece temeva di essersi cacciato in qualcosa di troppo grande per lui.

    Michelle si sentiva sporca, di quei due. Anche nelle pieghe dell’anima. Ma erano solo due? e neppure tutte le lacrime che aveva ancora da versare avrebbero potuto lavare le macchie sudicie di quei corpi indesiderati. Le avevano perforato tutto, anche l’anima.

    Perché non aveva dato retta alle sue amiche? Le avrebbe seguite in biblioteca, senza invece poi fermarsi in quel bar, ordinare la bibita ed incantarsi a guardare alla tv quel cazzo di programma a puntate. Non ne avrebbe perso una per tutto l’oro del mondo…

    Si era destata da quella idiota febbre mediatica solo verso le 20.00, e fuori si era fatto buio.

    Come sulle facce di quei due che l’avevano incrociata con lo sguardo vuoto.

    Non ricordava che cosa fosse successo dopo e ora a malapena riusciva a scorgere, nella penombra, i contorni di una stanza sconosciuta.

    Poteva solo concentrarsi sul dolore, che la lasciava senza fiato, con il respiro strozzato e la gola in fiamme. Aveva tanta sete, non solo di acqua, ma anche di un filo di speranza.

    L’altro ragazzo non capiva dove fosse, che cosa gli stesse succedendo intorno… la sera prima era alla festa in maschera nella villa dei suoi nuovi amici svedesi, poi si era addormentato su un divano, in boxer, oppure senza, questo non se lo ricordava proprio… l’avrebbe certamente saputo quel tro-ione di mora alta due metri, che glieli aveva strappati con le unghie e lanciati sulla lampada della scrivania, sì, forse era andata così.

    Ma non capiva dove fosse ora.

    Giulio e quell’ altro ragazzo… l’immagine che lo portano via da quella casa per caricarlo in macchina… e le loro voci alternate a risa sguaiate che gli promettevano faville erotiche. Stupefacenti esperienze mai provate.

    Aveva sognato? O la colpa era da dare al mix infernale di pastiglie che aveva ingoiato con gin e birra? Oppure… adesso ricordava di essere entrato nell’androne di un palazzo sconosciuto. Poi la porta di un appartamento…e le urla di qualcuno… urla di donna, di ragazza. Urla di una paura indifesa…

    Poi il buio, fitto e denso. E ora questo risveglio amaro, stravaccato su due cuscini, per terra, sul pavimento freddo e inospitale.

    Un filo di sole, che sembrava non sapere bene che farsene di una faccia sfatta come la sua, gli annunciò che avrebbe dovuto sopportare un’ altra giornata di sopravvivenza.

    Provò ad alzarsi, ma le pareti gli ruotavano attorno in un mulinello di immagini sfocate.

    Gli occhi si chiusero per lasciarlo di nuovo in un posto lontano.

    Andrea spense con rabbia il telecomando della tv e lo scagliò contro una pentola appesa alla rastrelliera per le stoviglie.

    Il film non gli era piaciuto.

    Si affacciò alla finestra e guardò le luci rarefatte di Genova che si incuneavano prepotenti nel Golfo. Provò un senso di fastidio per quella sua città che sentiva estranea. Impalpabile e perennemente distratta.

    Chiamò Giulio, urlando forte, ansioso di accertarsi di non essere rimasto solo, in quella casa che incominciava a non essere più così intrigante e desiderata come qualche ora prima.

    Fu assalito dal timore di non riuscire ad elaborare un piano che lo facesse fuggire lontano dalla cazzata che aveva appena combinato.

    Ma non era come nelle serie tv, dove il regista confida sempre che lo sceneggiatore lo tiri fuori dai guai del finale che si incastra male con il resto del copione.

    Andrea sapeva che questa volta era lui che doveva assumersi la responsabilità di scrivere la parola fine agli avvenimenti.

    La porta della cucina cigolò sui giunti e Giulio entrò ciondolante, con gli occhi spenti.

    – La testa mi scoppia e mi viene da vomitare…

    – E allora che cazzo sei stato a fare tutto ’sto tempo chiuso dentro al cesso? Che stessi male lo avevo capito. E tirati su quei pantaloni, non è un bel vedere…

    – Grazie per l’incoraggiamento, ma perché devi sempre rompere i coglioni e girare il coltello nella piaga. Io me ne vado, mi sono rotto. Domani devo andare all’Università…

    Si mise a cercare le chiavi dell’auto.

    Andrea non credeva alle proprie orecchie, voleva toccarsi per vedere di essere ancora lì presente. Riuscì solo a pronunciare una parola che aveva più la dignità di un versaccio monocorde.

    – Ma dove pensi di… – Si alzò dal divano con uno scatto rabbioso e afferrò Giulio alle spalle, mentre l’amico si infilava la maglietta con una manica strappata. Lo girò su se stesso e lo scrollò afferrandogli le guance con le grosse mani ancora unte dei popcorn.

    Lo prese a schiaffi, ripetutamente, e con il palmo di una mano lo colpì secco sulla fronte.

    Il colpo ebbe l’effetto di un pugno ben assestato e Giulio cadde sul pavimento, schiacciandosi la faccia sulle piastrelle. Non ebbe il tempo di rendersi conto di quanto stesse accadendo perché Andrea lo bloccò a terra, torcendogli i polsi, stretti dietro i fianchi. Poté solo urlare dal dolore.

    – Smettila, smettila. Mi spacchi l’osso…

    – Ti spacco il culo altro che l’osso, sì… l’osso del collo, ti stacco quella gran testa di cazzo… tanto è inutile che rimanga attaccata al corpo, scemo come sei, il futuro dottore in Medicina… ma dove pensi di andare, svegliati! Ti sei dimenticato che cosa hai fatto, dove sei?

    Giulio iniziò a singhiozzare sempre più forte, tossì cominciando a respirare male.

    Con forza Andrea lo sollevò, per spingerlo sul divano. Anche l’altra manica della maglia fu ridotta a brandelli.

    – Ma guarda il mio bel viziatello, cocco di mamma e principino di papà… ma che ti credi? Di poter cancellare la scopata che ti sei fatto… un po’ estrema. Un eufemismo. Come dite voi che studiate… minchia… ma guarda un po’ che imparo di più a frequentare te che andare a quella puttanata dei corsi serali… ma ti ricordi o no?

    Non riuscì a reggere lo sguardo inebetito dell’amico.

    Con la stessa rabbia usata prima prese di nuovo Giulio per le spalle e lo sollevò, per spingerlo poi verso la porta della stanza adiacente il soggiorno.

    – E adesso dimmi… chi c’è dietro questa porta? Chi credi che ci sia qui dentro? Apri!! Subito!!

    La faccia spaventata di Giulio la diceva già lunga sul riemergere in superficie dei suoi ricordi.

    La scena che si presentò ai due era spaventosa.

    Ma ai loro occhi lo spettacolo rappresentava quanto avevano desiderato. Almeno fino a quel momento. La monumentale scena di violenza che avevano pregustato nel giro di qualche ora, al tavolino di un bar di periferia.

    Michelle legata al letto. Una vittima sacrificale e innocente.

    Un’ immagine che balenò ad Andrea mentre la guardava, imbavagliata e con una benda sugli occhi. Immobile.

    Giulio richiuse con uno scatto, una mano tremante e l’altra portata alla bocca per reprimere un conato di vomito. Fece per dirigersi in bagno, ma la sua corsa fu interrotta dallo sgambetto di Andrea. Un’altra facciata per terra, un altro urlo di dolore, superato dalla risata isterica di Andrea, che si schiacciò al muro per godersi lo spettacolo di quella miseria umana accartocciata sul pavimento.

    Non aveva mai accettato fino in fondo la possibilità che dei borghesucci a cui non mancava nulla per poter vivere sazi e senza problemi, si riducessero a commettere delle porcate inqualificabili. Quelle azioni potevano dare un senso, quasi una speranza a quelli come lui, sfigati e destinati ad esserlo sempre di più, ma loro, i privilegiati, avevano dentro una molla che non riusciva a decifrare, che anzi odiava perché capiva che la loro violenza era senza una ragione valida, almeno quanto la sua.

    Che poi era quella di estrarre dai corpi la loro vita, strapparla via era come acquistare le coin di un videogioco ed avere così più energia. Averne tanta e desiderarla infinita. Una tragedia che incominciava a stargli stretta e che non lo appagava più.

    – Oh! Bello! Tirati su! Ti ricordi adesso? È dov’è che volevi andare? A fare la colazione? Houston, abbiamo un problema! Anzi abbiamo due problemi! Se ti sei svegliato del tutto ti ricordi quanti eravamo a fare il servizietto alla troietta di là?

    Giulio si sedette, faticando a mettersi dritto, mentre si teneva con una mano la fronte arrossata dai lividi.

    – In auto ti avevo detto…

    – Sì? Mi avevi detto di fare presto che non ce la facevi più ad aspettare di sbattertela.

    Intimorito dal tono di Andrea decise che era meglio non campare patetiche giustificazioni.

    – Perché due problemi? Mi sembra già abbastanza grosso quello che ho visto di là.

    – O fai il furbo, o sei ancor pieno zeppo delle tue schifezze, che hai fatto ingoiare anche a me… scemo!

    E fece per lanciarsi di nuovo contro di lui, che però lo bloccò alzando il braccio in segno di resa, terrorizzato all’idea di dover accarezzare un’altra volta le piastrelle.

    – Ti voglio aiutare. Ricordi il bar? La ragazza…lei esce, la seguiamo, mano sulla bocca, la carichiamo in auto…io guido, tu la imbavagli…lei dalla paura sviene e poi? Guardiamo se riesci a continuare tu?

    Andrea si sentiva meticoloso come un maestro di sostegno con l’alunno più bisognoso.

    Giulio lo guardò fisso con una faccia più espressiva, lasciandogli intendere che la nebbia densa dell’oblio si stava lentamente diradando.

    – Sì. L’abbiamo portata qui e poi… siamo andati a prendere…

    – Zitto parla piano…lui è di là. L’ho chiuso nel tinello, ma non voglio che senta.

    – Che casino abbiamo combinato…ma pensi che lui si sia reso conto? Che abbia capito? Non mi sembrava tanto in sé, anzi…

    – E bravo il mio Einstein! Cominci a capire ora? I problemi sono due! Che cosa fare di entrambi! Dobbiamo trovare una soluzione che ci salvi il culo, ma con il minimo dello sforzo. Ed il minimo del danno. Per noi naturalmente! Sempre che tu voglia collaborare a trovarla questa soluzione… se vuoi puoi anche defilarti. Assumerti da solo le tue responsabilità, pagandone le conseguenze però…

    Giulio percepì nel tono della frase la più grande minaccia che in vita sua avesse ascoltato e chinò il capo, sperando che il gesto fosse interpretato come una adesione convinta, anche se non poteva immaginare quale piano frullasse nella testa di Andrea.

    – Ascoltami bene. La ragazza non ci ha visto in faccia. L’abbiamo presa di spalle. La strada era deserta e buia. Io non ho visto nessuno e lei non ha gridato. E la benda l’abbiamo messa subito. Non ci può collegare al bar dove l’abbiamo vista. C’era molta gente in giro a quell’ora. Una volta in auto è svenuta subito e si è ripresa solo quando abbiamo iniziato le danze, ma in quel momento eravamo già belli che imbacuccati. Le maschere dei politici sono state una bella trovata!

    – Sì, ma la cazzata più grossa è stata l’idea di coinvolgere lui…

    Giulio interruppe il resoconto dell’impresa, irritando Andrea.

    – Amico del mondo, tu mischi le carte per barare. Non usare il noi. Tu e solo tu hai avuto l’idea di andarlo a prendere per invitarlo. E io imbecille a starti a sentire. Fossi stato lucido ti avrei ammazzato sul posto, appena sentita la grande idea. Invitare un tuo amico, senza la certezza di poterti fidare fino in fondo… sei pazzo, senza maschera poi…

    Giulio si era ripreso del tutto, mentre Andrea sentiva montare lo schifo per il puzzo di sudore che incominciava ad espandersi per la stanza, essenza purissima dei loro corpi strafatti dalla stanchezza, non solo fisica.

    – Andarlo a prendere a quella festa non è stata una gran furbata, questo se lo ricorderà di sicuro. L’unica cosa positiva è che non ha visto l’appartamento dove lo abbiamo portato, non potrà mai risalire al posto.

    Andrea riprese il comando delle operazioni, temendo che Giulio incominciasse a delirare usando il suo senso di malata onnipotenza.

    Evidentemente non riuscì nell’intento, perché l’altro riprese con vigore.

    – Dobbiamo eliminare ogni traccia, fare presto…

    – Braccia rubate all’agricoltura… ma quali tracce, vedi troppi telefilm! Ti ho appena detto che non ci ha visti e quindi non ci può riconoscere e nessuno può stabilire un collegamento tra noi e la ragazza… tracce biologiche ce ne saranno tante, ma senza poterle confrontare con qualcosa se le possono mettere su per il culo… piuttosto dobbiamo andare via presto da qui. I proprietari anche se tornano tra una settimana, non mi lasciano tranquillo lo stesso. Il posto è isolato, due soli appartamenti, strada privata…

    – Non mi convince. Secondo me bisognerebbe eliminare tutto, ma proprio tutto.

    Giulio straparlava, come quando si faceva, senza trattenersi, fino a scoppiare e questo Andrea non poteva permetterlo perché avrebbe messo a repentaglio anche la sua sicurezza.

    Avvicinò la faccia ai suoi occhi, sfiorando persino il naso, sputandogli un ordine che non poteva essere frainteso.

    – Ascoltami! Ed è l’ultima volta che ti dico questa cosa, perché se fossi obbligato a ripeterla vorrebbe dire che sarebbero le ultime parole che tu ascolteresti da vivo!

    Tu fai solo quello che ti dico io. Appena finito qui tu sparisci e non ti voglio più vedere. Ti dimentichi di quello che hai fatto e se ti riesce di convivere con la tua sozza coscienza, diventa pure un medico, sperando che nessuno venga mai a curarsi da te.

    Lo lasciò tremolante e pallido.

    Si avvicinò alla porta del tinello per assicurarsi che nessun rumore da dentro indicasse che il ragazzo si era svegliato.

    – E ricorda una cosa… secondo me quello di là non si è reso conto di nulla. Non conosceva la ragazza… ci si è buttato sopra senza guardare su che cosa si buttava. Una pecora sarebbe stata la stessa cosa… era troppo carico di quella robaccia nuova che sta invadendo il mercato. Droghe nuove. Schifezza vecchia! Quindi è sufficiente spostarli da qui, tutti e due. Lasciarli da qualche parte, lontano, il più lontano possibile. Lei forse ricorderà tutto, lui solo una grande confusione, crederà che l’unica cosa che ha fatto ieri sera è stata la scopata con le svedesi.

    E non provare ad aggiungere nulla, se no quello che sparisce per sempre sarai tu.

    Giulio inghiottì saliva e paura.

    Il ragazzo si riebbe intorno alle 10.00 del mattino, seduto su una panchina del parco dell’Acquasola. Pieno centro di Genova. Il frastuono del traffico gli perforava la testa come un martello pneumatico. Casa sua non era distante, ma le condizioni in cui si trovava, la facevano sembrare irraggiungibile. Era stordito e confuso, gli sembrava di aver perso la memoria. Si stirò, tendendo le gambe in uno stretching goffo e impacciato.

    Si incamminò verso il bar più vicino, dove un caffè americano e un cornetto gli avrebbero assicurato il carburante necessario per riprendere il filo degli avvenimenti.

    Desiderò una doccia e vedere qualcuno che lo facesse rientrare definitivamente nella vita reale.

    Michelle fu rinvenuta distesa sul prato dei Parchi di Nervi. Al centro di una piazzola, circondata da ciclamini appena sbocciati. I primi soccorritori avevano temuto che fosse morta.

    Il Pronto Soccorso dell’Ospedale di San Martino aveva refertato la violenza sessuale subita e lesioni su tutto il corpo provocate da un numero imprecisato di colpi inferti a mani nude.

    Tornò a casa con l’ambulanza, insieme ai suoi genitori.

    2

    Il cielo oggi non gli piaceva, era di quelli che schiaccia gli uomini a terra. Umidità a scrosci. Come in un’immagine che, un giorno, suo nonno gli aveva disegnato con le parole. Il mese di novembre riserva sempre sorprese.

    Affacciato alla finestra della Caserma di piazza Caricamento il capitano Rodolfo Andusi, nativo di Napoli, sposato con una giovane della Val d’Arroscia, tre figli nati qua e là in giro per lo Stivale, alle 8.00 del mattino aveva già un umore pessimo. Il sovrappeso di cui pativa lo faceva sembrare una creatura gigantesca. Era alto, con le guance molli, che tremolavano ogni volta che apriva bocca.

    – Scoglio! Venga un po’ qua… – Sbuffando, con la cantilena napoletana appositamente accentuata.

    Dalla stanza adiacente il brigadiere Scoglio, trascinandosi dietro il vice Romanazzi, corse immediatamente a vedere che cosa riservava di brutto quell’esordio un po’ altezzoso, che lui conosceva bene quando fioriva in bocca al suo superiore rompicoglioni.

    – Quando la chiamo si deve sempre portare dietro Romanazzi? Come fosse la cozza attaccata allo scoglio… ahahaha!

    Certo che se a cinquant’anni diventi così scemo… Dio mi scampi… sarà la decima volta che fa ’sta battuta della minchia, pure brutta.. ed è convinto che sia sempre nuova… siamo messi proprio bene, pensò il brigadiere.

    Accortosi della mancata reazione dei due il capitano fece l’espressione di compatimento dedicata a chi non coglie al volo una facile ironia.

    Ecco. Appunto…, concluse tra sé Scoglio. Il brigadiere era un tipo mingherlino, con un paio di occhi vispi che saettavano ad una velocità superiore alla media. I capelli erano nero corvino, sempre arruffati.

    – Sono le 8.00 del mattino, non ho bevuto il caffè e la sfogliatella appena l’ho addentata era acidula, di almeno tre giorni… delinquenti. La galera ci vorrebbe. Quindi vediamo di incominciare la giornata senza fare cazzate, cioè correndo come dei pazzi a casa dell’ingegner Sperlinghi e della sua povera moglie. La chiamata l’hai ricevuta tu Romanazzi? Relaziona un po’, prima di partire voglio conoscere i particolari che ti hanno raccontato. Mai andare impreparati…

    Sì. Come no! Soprattutto quando si tratta di uno dei più grossi imprenditori della città e il suocero è un finanziere svizzero conosciuto in tutto il mondo… facile fare gli scrupolosi.

    Scoglio ormai non riusciva più a trattenere i pensieri più maliziosi quando si trattava di giudicare gli inchini un po’ troppo ossequiosi che il suo capitano elargiva ai potenti della città.

    – Stanotte montavo di guardia e il centralino mi ha passato la telefonata della signora Sperlinghi Annetta, la quale mi riferiva di essere preoccupata perché la figlia Michelle, di anni 18, non era ancora rincasata. La chiamata è stata registrata alle 3.33. Ho provveduto a tranquillizzare la signora facendole notare che riceviamo molte segnalazioni di questo tipo, che poi si concludono con il ritorno a casa dei presunti scomparsi…ho poi assicurato la nostra massima attenzione alla segnalazione, ho preso il numero di cellulare della Michelle e mi sono fatto raccontare quali erano stati i suoi ultimi spostamenti conosciuti.

    Romanazzi era sempre pallido, lo sguardo stralunato, alla perenne ricerca di qualcosa che non sapeva neppure lui che cosa fosse. Imbambolato.

    – Bravo! E allora che cosa ti ha detto la madre… – Andusi si immaginò la signora distrutta dal dolore e non si vergognò di immaginarsela ancora più bella ed unica di come l’aveva sempre incontrata. Formosa, bionda, quarant’anni, con un’aria perennemente corrucciata, che le imprimeva sul volto una malinconia che poteva fare girare la testa a qualsiasi maschio di sane e virili intenzioni.

    – … che la figlia doveva rincasare per le 20.00 all’ora di cena e che prima sarebbe dovuta andare a studiare in biblioteca con le amiche. Cosa che invece non ha fatto.

    – Vabbè, vabbè… adesso sappiamo anche noi com’è andata a finire, purtroppo. Hai ricevuto sempre tu la chiamata dal San Martino questa mattina?

    – Sì… è stata la signora Sperlinghi a dire ai colleghi della Stazione del Pronto Soccorso che aveva denunciato la scomparsa qui da noi.

    – Già, è per questo che ce ne occupiamo anche noi, prima magari di essere sollevati per ragioni di competenza. Ti hanno detto qualcosa della dinamica, dove è avvenuta la violenza sessuale?

    Romanazzi entrò ancora di più nella parte, per riferire ai due colleghi che la ragazza non era in grado di parlare; era ancora in preda ad uno stato confusionale molto grave, tanto che il personale medico aveva consigliato di sottoporla ad una terapia di potenti calmanti ma poi era stata dimessa dietro pressante richiesta del padre.

    – Prepara l’auto… andiamo da loro.

    Il capitano pregustò la visita alla famiglia Sperlinghi, acconciandosi per bene la divisa, davanti lo specchio intero che aveva fatto montare nel suo ufficio, appena assegnato alla sede genovese.

    3

    L’ingegner Giorgio Sperlinghi, quarantanove anni, apparteneva ad una delle famiglie più abbienti della Genova che conta. Aveva goduto dell’eredità di un patrimonio immenso ricevuto da suo padre, che a sua volta doveva ringraziare il capostipite, fondatore della generazione imprenditoriale, Luciano Sperlinghi, figura mitica nel settore dei trasporti marittimi e della logistica in genere. Un business iniziato cinquanta anni prima nel cuore della città, tra le banchine del porto, e sviluppatosi poi negli anni, fino a raggiungere volumi di affari che permettevano alla SPERL SEA COMPANY di sedere con autorevolezza e prestigio nel ristretto board dello shipping internazionale.

    Morto il padre, Giorgio si era dimostrato subito all’altezza delle responsabilità che doveva assumersi per poter proseguire a condurre l’azienda in un mondo degli affari completamente cambiato rispetto a quello che aveva permesso il decollo e il consolidamento da parte del nonno. Anche il padre si era battuto con astuzia e competenza negli anni Ottanta, tenendo dritta la barra dell’azienda, ma una volta toccato a lui dirigere tutto si era accorto che il pelo sullo stomaco, l’espressione che fin da piccolo sentiva pronunciare con insistenza dai suoi parenti, non sarebbe più bastato per rimanere a galla. La decisione di quotare in borsa la SPERL era seguita all’acquisizione di una flotta di dieci navi portacontainer e alla delocalizzazione di alcune strutture amministrative ad Hong Kong e Singapore. I diecimila dipendenti sembrava non bastassero mai a sostenere la continua crescita delle opportunità estese ormai a tutti i settori economici.

    La paura che lo terrorizzava era quella di poter perdere il controllo dell’azienda.

    Si sentiva continuamente minacciato dalle strategie aggressive della concorrenza e neppure l’aver assunto il fior fiore dei più apprezzati consulenti internazionali, lo poneva al riparo dall’ansia di dover un giorno passare la mano.

    Una sera era rimasto impressionato dalla visione di un documentario sulla vita delle iene.

    Fu colto da un attacco di panico quando la voce narrante aveva spiegato la tecnica di attacco del branco, che scattava dopo un’attesa anche di giorni passata a spiare da distante il progressivo indebolimento della preda ferita finché, esausta, era incapace di difendersi.

    Non lo spaventava l’idea di perdere potere e ricchezza, ma il timore di dover sostenere lo sguardo del padre e del nonno che, dentro la sua coscienza, lui sentiva sempre vivi, ed attenti alle sue mosse, severi ed arcigni nel controllarlo e nel giudicare le sue azioni.

    Il senso di pericolo era diventato una ossessione che lo stava lentamente divorando vivo.

    Temeva anche per la sua incolumità personale.

    Per questo motivo la decisione di costituire una personale organizzazione di security era stata presa nella convinzione di potersi così concentrare meglio sul lavoro e solo su quello.

    – Pronto! Dove sei? Chiama gli altri e corri subito qui, è inutile che passi dal Pronto Soccorso, le informazioni le raccoglieremo dopo…

    Sperlinghi si sentiva inebetito dal dolore di quanto successo a sua figlia. Aveva l’impressione di non poter agire, incapace di rendersi conto e di accettare l’idea che tutto fosse realmente accaduto.

    Sulla terrazza della villa camminava freneticamente avanti e indietro fumando anche il filtro dell’ultima sigaretta. Solo il gusto amaro che intrappolava la lingua lo fece trasalire per un attimo, facendolo rallentare.

    L’idea di chiamare Gualtiero, il capo della sua scorta, e la speranza che arrivasse in pochi minuti lo rincuorarono.

    Sua moglie era con Michelle al piano di sotto e Simone, l’altro suo figlio, stava dormendo in camera sua dopo una delle sue solite nottate spese a fare la bella vita da vagabondo impenitente. Non sapeva ancora nulla.

    Sarebbe stato uno shock insopportabile anche per lui, così legato alla sua amata sorellina.

    Appoggiò le mani alla balaustra. Poi decise di entrare nella piccola serra riscaldata. L’aria intorno profumava di gerani e limoni e al centro, una grata coperta da un rosaio rampicante, gli riempiva gli occhi del suo colore preferito, il rosa antico genovese. Immerso in quella fragranza così delicata, giurò sull’anima di suo padre e di suo nonno che i responsabili della violenza a Michelle l’avrebbero pagata molto cara.

    Prese un ciuffetto di petali rosati e, strizzandoli dentro il pugno chiuso, urlò al cielo che la punizione dei giudici sarebbe arrivata solo dopo, molto tempo dopo, quella terribile che lui avrebbe comminato con pazienza e determinazione.

    Dalla terrazza osservava più in basso la spianata dei tetti del centro storico. Erano velati di un grigio più marcato, riflettendo il colore scuro delle nubi cariche di pioggia. L’elettricità che appesantiva l’aria conferiva alla giornata un’atmosfera cupa, sospesa nell’attesa che tutto si risolvesse in un susseguirsi di tuoni e lampi. Anche lui si sentiva così. Aspettava che il temporale gli scoppiasse dentro.

    L’auto sulla quale viaggiavano i carabinieri e quella di Gualtiero Spadaccini in compagnia di tre suoi collaboratori evitarono di scontrarsi davanti al cancello del parco privato della villa.

    Si arrestarono entrambe incerte se dare il passo o pretenderlo.

    I due conducenti si osservarono in cagnesco, ghignando dentro di loro, con l’espressione beffarda di chi è convinto di conoscere fino in fondo l’altro che stava fissando.

    Spadaccini e Andusi, l’uomo della sicurezza aziendale e il Capitano desideroso di compiacere per favorirsi la carriera, si erano disprezzati fin dal loro primo incontro, avvenuto in occasione della festa organizzata per l’anniversario del cinquantesimo della fondazione della SPERL SEA COMPANY.

    Ognuno dei due pensava di poter tenere saldamente in pugno l’altro. Spadaccini era convinto, senza però averne le prove, che il Capitano fosse un corrotto patentato, mentre il carabiniere era certo che l’uomo di fiducia di Sperlinghi mantenesse legami con gli ambienti della criminalità organizzata, pascolando in quella zona grigia dove nessuna indagine fino ad oggi lo aveva anche solo sfiorato.

    – Buongiorno capitano! È un vero piacere vederla già qui… è confortante per un cittadino poter contare sulla solerzia delle forze dell’ordine…

    – La smetta! Non sono in vena di sopportare le sue cazzate. Lo credo che vi sentite confortati. A vedere invece l’efficienza della vostra security… non siete mai dove dovete essere, gli interessi chiamano come la merda le mosche…

    Lo disse agghindato da un grugno maligno.

    Spadaccini fece per uscire dall’auto e pregustò che quella sarebbe stata l’occasione giusta per togliersi la soddisfazione di spaccare la faccia ad Andusi, sperando poi nella protezione sicura del capo, ma proprio mentre la portiera era già pericolosamente spalancata e i suoi muscoli tesi e proiettati in avanti, la voce di Sperlinghi lo raggiunse dall’alto, proveniente dalla terrazza della villa.

    – Bene. Siete arrivati, salite presto!

    Un ordine perentorio rivolto ad entrambi.

    Scoglio e Romanazzi non ebbero neppure il tempo di rimanere imbarazzati dalle parole appena pronunciate dal capitano e dal tono marziale di Sperlinghi, che si trovarono schiacciati sugli schienali dell’auto, lanciata lungo il vialetto e tallonata dall’altra, seminata con una accelerata rumorosa.

    4

    Annetta guardava sua figlia temendo che anche solo il suo respiro la potesse disturbare dal sonno. Indotto sì dai farmaci, ma pur sempre sonno, cioè una dimensione di riposo, lontana dalla tragedia e dal dolore.

    Avrebbe voluto che Michelle non uscisse più da quello stato, temendo che insieme al risveglio, i fantasmi dei carnefici si sarebbero materializzati di nuovo, anche lì, nella stanza che era stata sua fin dalla nascita.

    Con lo sguardo ripassava le foto appese alle pareti, frammenti di esistenza della sua piccolina: risate con gli amici, immagini tra le città d’arte, la classe scolastica schierata con i professori, poster e gadget. Immagini che, come mattoni, accompagnavano lo sviluppo di una vita.

    Una vita che, invece, sembrava ormai scivolata via, senza lasciare nulla dietro di sé.

    Fu sopraffatta dal magone che le chiuse la gola, provocandole un singulto e infine le lacrime, quelle che non erano volute uscire quando la fissava distesa sulla lettiga dell’ambulanza.

    La composta dignità che era riuscita a sostenere appena saputo della violenza, era dovuta alla volontà di compiacere lo stile rigoroso e costruito impostole dal marito.

    Fin da giovane, appena arrivata alla corte della famiglia Sperlinghi era stato uno dei dazi che coscientemente aveva deciso di accettare: mai manifestare in pubblico i sentimenti e le emozioni, mai concedere agli altri alcun segno di debolezza. Tutto doveva essere vissuto e consumato in famiglia, tra le quattro mura dorate e impenetrabili della casa madre.

    Non era ancora riuscita a parlare con calma a suo marito. Neppure sul mezzo di soccorso avevano scambiato un accenno. Muti, ognuno con i propri pensieri, immersi nella confusione e nello sconcerto.

    Lei aveva cercato con lo sguardo quello di Giorgio, ma lui sembrava da un’altra parte, lontano, perso tra mille incubi, neppure presente a se stesso.

    Gli guardava i capelli grigi ormai radi su tutto il capo che sembravano rimasti attaccati per miracolo, incollati dal sudore, che imperlava anche tutto il viso. Immobile anche al sobbalzare dell’ambulanza e con una espressione indecifrabile. A lei sembrava un uomo invecchiato di colpo e sopraffatto da una circostanza più grande di lui. Il fisico asciutto ancora più smagrito.

    Appena arrivati a casa e coricata Michelle, il padre aveva dedicato alla figlia solo una leggera carezza, prima di scomparire nello studio, all’ultimo piano, lontano da tutti e da tutto.

    Annetta aveva ormai accettato questo suo rifiuto di condividere le cose importanti della loro esistenza.

    Ma ora non poteva più sottrarsi, non si trattava della tensione provocata da una transazione commerciale andata male, o dell’attesa spasmodica dell’apertura delle borse asiatiche. Si trattava di sua figlia. Giorgio questa volta non l’avrebbe esclusa. Era decisa a scendere dal comodino dove era stata reclusa come un soprammobile ad esclusivo ornamento della casa e di un matrimonio troppo presto scivolato verso una noia assassina.

    Salì le scale che portavano in cima alla torretta. Giorgio doveva essere nella grande sala che usava come studio.

    La porta era chiusa e lei la aprì certa di trovarsi di fronte il marito come al solito seduto sulla poltrona pensatoio. Trovò invece una stanza piena di persone che sul momento,

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