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Era la Milano da bere: Morte civile di un manager
Era la Milano da bere: Morte civile di un manager
Era la Milano da bere: Morte civile di un manager
E-book312 pagine4 ore

Era la Milano da bere: Morte civile di un manager

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Info su questo ebook

Massimo Gerosa, manager in carriera, viene improvvisamente licenziato dalla COMOR, il colosso dell’informatica dove lavora. Le motivazioni sono vaghe. La moglie lo costringe ad andarsene di casa e anche la figlia diciannovenne, che all’inizio mantiene i rapporti con il padre, a un certo punto se ne allontana. Dopo nove mesi vissuti tra alberghi di quart’ordine e il suo SUV adibito a dimora, Massimo finisce a fare il guardiano notturno nella sede di un movimento di estrema destra, di cui gradatamente sposa l’ideologia impregnata di nazionalismo, di razzismo e di antisemitismo. Arriva, addirittura, a immaginare e a proporre un attentato contro Roberto Modigliano, che Massimo considera la causa della sua “morte civile” e che, oltre a essere lo stimato uomo d’affari destinato a diventare il prossimo ministro dell’economia, è anche l’esponente di una nota famiglia ebraica del milanese. Ma Modigliano nasconde un terribile segreto...
Sullo sfondo di un paese devastato dalla crisi economica, dalla decadenza culturale e dalla solitudine sociale, si dipana un racconto feroce nel quale, con un montaggio alternato, l’autore ci conduce per mano attraverso le vicende parallele dei suoi personaggi e ci porta fino al punto in cui convergono in un tragico e definitivo gioco al massacro: una rappresentazione impietosa della società dei nostri giorni, sopra un palcoscenico da tragedia greca, cui solo la progressiva presa di coscienza di Cristina, la giovane figlia di Massimo, riuscirà a donare un filo di luce.
LinguaItaliano
Data di uscita13 gen 2016
ISBN9788869431111

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    Anteprima del libro

    Era la Milano da bere - ALESSANDRO BASTASI

    NOTE DELL’AUTORE

    Questo è un romanzo di fantasia, ogni riferimento a persone esistenti e a fatti realmente accaduti è del tutto casuale.

    Sono invece perfettamente riconoscibili lo scenario che fa da sfondo ai fatti narrati e gli spunti di cronaca che li hanno suggeriti.

    I dialoghi del capitolo 26 della seconda parte del romanzo sono in parte tratti da intercettazioni telefoniche nei confronti di esponenti di Casa Pound di Napoli, pubblicate dai giornali nel gennaio del 2013. Vedi ad esempio:

    http://napoli.repubblica.it/cronaca/2013/01/25/news/indagine_sulla_destra_i_verbali_servono_coltelli_e_bombe_a_mano-51228643/

    I testi delle canzoni riportati nel romanzo sono del gruppo musicale Zetazeroalfa.

    Perciò, quando in una città gli uomini onorano la ricchezza e i ricchi, saranno maggiormente disprezzate la virtù e gli onesti.

    È chiaro.

    E in genere si ha cura di ciò che si apprezza, mentre si trascura ciò che si disprezza.

    Proprio così.

    Di conseguenza questi individui alla fine lodano e ammirano il ricco e gli conferiscono il potere, e disprezzano il povero diventando essi stessi avidi di ricchezze e di guadagno.

    Certamente.

    Platone, La Repubblica

    A Laura, alle sue mille curiosità

    MARZO 2013

    Milano, via Sant’Aquilino

    La villa è sempre lì, sotto il cielo indifferente di Milano, decisa a sopravvivere nonostante tutto.

    L’erba ha invaso il sentiero di ghiaia che dal cancello conduce alla porta d’ingresso. Due gatti randagi fuggono alla vista della giovane intrusa che si aggira nel giardino.

    Cristina si china su quelle che nel suo ricordo erano aiuole fiorite e adesso non sono che un ricettacolo di sterpaglie. Soltanto la magnolia resiste, imperturbabile.

    Solleva lo sguardo in alto verso il terrazzo e un nodo le stringe la gola.

    Anche la villa sembra stremata dagli eventi. Il tempo, tuttavia, non ne ha piegato l’arroganza. Silenziosa nel suo rancore, alla vista della ragazza sembra quasi volerla allontanare. La porta d’ingresso sbarrata, le imposte chiuse, come a dirle che qui, dal giorno dell’abbandono, non c’è più posto per lei. Da quel giorno di settembre quando all’alba Cristina, dopo che sua madre si era finalmente addormentata, ha aperto quella porta e con un trolley in mano e cinquemila euro in tasca se n’è andata senza voltarsi indietro.

    E la casa non glielo perdona.

    Un profondo respiro. Poi infila la chiave nella serratura.

    L’accoglie una penombra che odora di muffa, lei preme l’interruttore, più volte, ma la luce non si accende. Mamma?, chiama, dapprima piano, quasi in un bisbiglio, poi più forte:

    Mamma!.

    Esita, muove all’interno alcuni passi incerti. Subito però ritorna indietro, quasi correndo, a spalancare gli scuri della sala d’ingresso, i quali vanno a sbattere contro il muro esterno, un colpo secco che risuona nella stanza.

    Si volta di scatto, preda di un’acuta apprensione.

    Riconosce la casa, adesso. Con un brivido avanza, cauta, le sue impronte impresse su uno strato sottile di polvere.

    Al sole appena tiepido di fine marzo, nel grande atrio che si leva per due piani fino al tetto, gli oggetti prendono forma. I mobili bassi, la scala in fondo sulla destra, la riproduzione in marmo della Venere di Milo. E, al centro, la palma del Madagascar, un tronco ormai brullo che volge verso l’alto le sue dita rinsecchite.

    Al piano superiore c’è la sua camera, la riserva indiana nella quale poteva isolarsi e soffocare l’angoscia senza essere assalita da mille domande. E poi la stanza per gli ospiti, che nessuno aveva mai usato come tale.

    E c’è la camera della mamma. Anche del papà, prima che lui se ne andasse.

    Raggiunge la scala che porta di sopra, ma è costretta a bloccarsi. Il primo gradino è ostruito da un grosso frammento di legno laccato. E altri ancora giacciono sul pavimento, inerti e confusi.

    Istintivamente Cristina solleva gli occhi verso l’alto. Il parapetto del ballatoio che sporge sull’atrio è spaccato in un punto. Uno squarcio di almeno cinquanta centimetri.

    E il cuore le batte forte in petto. Il pensiero corre subito a suo padre, a quella volta che ha aggredito la mamma, e lo zio Angelo l’ha difesa minacciando il fratello con la pistola.

    Oltrepassa l’ostacolo e vola di sopra, nella camera di sua madre. Spalanca la porta, poi le finestre e gli scuri, si guarda intorno.

    Tutto in perfetto ordine. Il letto troppo grande per una persona sola, la pettiniera anni Trenta con le spazzole e i profumi, la poltrona color panna in stile Direttorio.

    Con cautela si dirige verso il guardaroba di fianco alla camera.

    Gli armadi aperti con i vestiti di sua madre. Molti sono ancora lì, appesi, ma non tutti. Manca l’abito rosso di seta, e quello a fiori che indossava in casa, e chissà quanti altri. Fruga convulsa nei cassetti, tra gli indumenti intimi e le camicette, non più di una mezza dozzina di capi. Dov’è andata la mamma? Perché non risponde al telefono?

    A Cristina manca il fiato.

    Ha fatto male a voler venire da sola. Dopo il funerale Federico si era offerto di accompagnarla, ma lei ha preferito che rimanesse in albergo. Gli ha detto che la prima volta, dopo tutto quello che era successo, sua madre doveva rivederla da sola. Poi, certo, avrebbe portato anche lui e gliel’avrebbe fatta conoscere.

    Adesso, in quel silenzio livido, si sente come aggredita da qualcosa. Ha bisogno di avere Federico al fianco, la sua mano sicura. Ma Federico non c’è.

    Esce fuori sul ballatoio, si avvicina al parapetto spezzato. Guarda in basso, verso l’atrio, per ritrarsi subito dopo, spaventata.

    L’ultima in fondo alla balconata è la sua camera. C’è ancora il cartello di latta Don’t disturb appeso alla porta con due gancetti a ventosa. E, sotto, il cuore di stoffa a quadrettini bianchi e rosa di quando è stata battezzata. Si avvicina lentamente alla porta e si affaccia appena, senza entrare. La stanza la investe di ricordi come una raffica di vento. Il letto è lì, intatto, nella penombra intravvede la scrivania di radica scura, gli scaffali ancora colmi di libri di scuola, il vocabolario di greco con la copertina nera, i volumi di filosofia dell’Abbagnano, persino i quaderni degli appunti. E il grande coccodrillo di peluche verde e rosso che la fissa dal pavimento.

    La gola le si stringe ancora di più, impedendole quasi di respirare. Esce di corsa dalla stanza, ripercorre il ballatoio e scende in fretta le scale, sperduta, uno sguardo fugace in cucina, nel soggiorno, nello studio di suo padre, le pareti che incombono, che la inseguono. Deve andarsene da lì, scappare. Come quella volta, quasi sette mesi fa.

    Ma non può. Deve capire, prima. Sua madre. Dov’è andata? Ha provato a chiamarla tante volte negli ultimi giorni, ma non ha mai risposto.

    Per un attimo le passa per la mente di cercare il numero di telefono di quello schifoso di Nicola Spotorno. Però abbandona subito l’idea.

    Potrebbe chiedere allo zio Angelo, ecco. Informarsi sull’orario delle visite di San Vittore e andarlo a trovare.

    Ma possibile che non ci sia uno straccio di appunto da qualche parte? Un biglietto, un qualcosa che…

    Un biglietto da visita.

    Lì, sul mobile dell’ingresso, vicino al telefono, di fianco a una cornice ovale d’argento che racchiude una foto di sua madre di qualche anno fa, quando ancora era felice e le cose andavano alla grande.

    Cristina prende in mano il biglietto, lo guarda. Un cartoncino rosso con disegnata una testa di Medusa stilizzata. E con un numero, un indirizzo e un nome scritti in corsivo.

    Con le mani tremanti fruga nella borsa di stoffa che porta a tracolla e ne estrae il cellulare. Compone il numero che ha letto sul biglietto.

    Il segnale di libero suona a lungo.

    Forza, rispondi!, mormora, tormentandosi le unghie con i denti.

    Infine, da chissà dove, una voce di donna che non conosce le risponde.

    Pronto?.

    Buongiorno, parlo con Maura?.

    Sono io, lei invece chi è?.

    Mi scusi se la disturbo, ma ho visto il suo biglietto a casa di mia madre, e siccome non riesco a trovarla da nessuna parte ho pensato che forse lei….

    Ma cosa vuole da me, qual è il suo nome?.

    Mi chiamo Cristina Gerosa, sono la figlia di Anna.

    PRIMO ATTO

    1.

    Anna Lavino era figlia di Francesco Lavino, un operaio di una fabbrica di Cossato, e di Carla Bonsignore, impiegata alle poste di Biella. Carla e Francesco si erano sposati nel 1974, due anni dopo la nascita di Anna. Il matrimonio però durò solo quattro anni. Forse uno dei motivi del divorzio fu che il padre era stato militante di un movimento extraparlamentare e adesso si diceva in giro che fosse un fiancheggiatore delle Brigate Rosse. Denunciato per blocco doloso della linea di montaggio, sospeso dal lavoro per quindici giorni, infine licenziato per giusta causa.

    Anna fu affidata alla madre. Carla Bonsignore l’accudiva per l’intero tempo libero che le restava dalle sedici in poi, l’ora in cui terminava il suo turno. Fu lei a crescere la figlia, dedicandole ogni energia e sacrificando per questo le storie che avrebbe potuto intrattenere con qualcuno dei tanti uomini che le facevano la corte. Ebbe sì una breve relazione con un collega delle Poste, ma ben presto scoprì che non aveva alcuna intenzione di lasciare la moglie, motivo per cui troncò ogni rapporto. Fortunatamente costui fu trasferito in un altro ufficio, così non ebbero più occasione di vedersi.

    Anna cresceva, frequentava l’istituto tecnico per ragionieri di Biella, ma era evidente a tutti che studiare non era il massimo delle sue aspirazioni. Il sole stanco del pomeriggio la vedeva rintanarsi nella sua stanza, leggere due righe, poi sollevare gli occhi e fissare le Alpi Biellesi lontane attraverso i vetri della finestra. Pensava alle amiche, che alla sua stessa età avevano capito che italiano, storia e matematica attuariale non valevano il piacere di guadagnare in fretta un po’ di soldi per comprarsi il piumino senza maniche della Moncler, le sneakers e i guanti di pelle senza dita; o farsi acconciare i capelli dalla mitica Samantha, che non si capiva come riuscisse a costruire opere così bizzarre e colorate sulla testa delle ragazze.

    Era molto bella, Anna. Bruna, occhi color del cielo sopra il Monte Rosa nelle mattine fredde e assolate di ottobre, un neo sopra il labbro destro che sembrava disegnato. E non voleva finire come la madre, sola, ad ammazzarsi di lavoro, mai un viaggio, una distrazione, un divertimento, mai un mascara in più o una giacca di quelle che ammiccavano dalle vetrine del centro, sempre e soltanto lo stretto necessario. Che la mamma si sforzasse di risparmiare fino all’ultima lira soprattutto per soddisfare le richieste pressanti di lei, dell’unico affetto rimastole, ad Anna non passava nemmeno per la testa.

    Con uno sbadiglio la ragazza tornava a leggiucchiare: M = C + I = C + C∙ i∙t = C(1 + it)

    Sbuffando un vaffanculo si alzava di scatto dalla sedia e andava a porre sul piatto dell’hi-fi l’lp con La isla bonita, il pezzo che preferiva di Madonna. Volume al massimo, si metteva a cantare con un finto microfono in mano, imitando le movenze sexy della sua beniamina. Poi si stendeva sul letto e si dedicava alle fantasie che dalla parete di fronte le suggeriva il poster di Simon Le Bon.

    Per lei però il momento clou era la sera. Quando usciva di casa con i suoi jeans 501 della Levi’s oppure con la gonna corta a strati indossata sopra i fuseaux che le fasciavano le gambe come una seconda pelle. Era il momento in cui, facendo tintinnare la torva di braccialetti che aveva al polso, andava alla conquista del centro di Biella. D’altronde gli anni ‘70, così cupi, tristi, di piombo, erano finiti da un pezzo. E lei dalla vita voleva tutto il possibile.

    Lavino Anna fu bocciata due volte e non terminò mai gli studi: nel 1992, a vent’anni, conobbe Massimo Gerosa e quando scoprì d’essere incinta, lo sposò.

    L’anno successivo nacque Cristina.

    2.

    Se lo ricordava molto bene, Massimo Gerosa, il primo incontro con Anna. Allora lui aveva ventiquattro anni e da circa diciotto mesi lavorava alla Comor.

    Tutto regolare, come da programma. Niente liceo, che non sarebbe servito a nulla, diploma all’itis Molinari, servizio militare e poi subito colloqui di lavoro. Alla Comor, gigante italiano dell’informatica, cercavano un operatore per il ced interno con una buona conoscenza del sistema operativo Unix, e Massimo Gerosa fu assunto. Un anno e mezzo dopo, la job rotation lo portò a diventare sistemista Unix, con l’incarico di fornire servizi tecnici ai clienti. E se quel giorno non fosse stato mandato a installare la nuova release in un’azienda di prodotti cosmetici nei pressi di Biella, non l’avrebbe mai conosciuta.

    Aspetti qui, le chiamo il responsabile it, gli aveva detto la receptionist dopo averlo fatto accomodare in una saletta dalle pareti di vetro.

    Lui ringraziò, rimanendo in piedi. Nell’attesa si guardava distrattamente in giro, donne e uomini transitavano nel corridoio lanciandogli chi più chi meno delle occhiate interessate, o almeno questo era ciò che pareva a lui. E lui sorrideva, sistemandosi la cravatta, compiaciuto di quanto fosse intonata alla camicia e al vestito. Un vestito appena acquistato da Bardelli in corso Magenta. Valeva più di uno stipendio, ma se voleva avanzare nella carriera era un investimento da mettere in conto.

    I tecnici suoi colleghi non andavano mai dai clienti bardati a quel modo, in genere indossavano jeans e maglietta, ma lui era Massimo Gerosa, e quello era il modo giusto per farsi notare ai piani alti ed essere promosso alla divisione Vendite: il trampolino di lancio per un percorso che col tempo – diceva a se stesso – l’avrebbe portato a occupare una posizione importante nella società.

    Massimo guardò l’orologio e si sedette, tamburellando sul tavolo con le dita, un po’ infastidito dal ritardo dell’it Manager. Ma fu in quel momento che, attraverso la vetrata della sala d’attesa, vide passare una morettina dagli occhi incredibilmente azzurri. Stava entrando nello spaccio interno, dove i dipendenti potevano acquistare a basso prezzo i prodotti cosmetici che fuori, nei negozi, costavano almeno il doppio.

    Lo spaccio era proprio di fronte. Massimo si alzò e si ravviò i capelli con il pettine che portava sempre con sé, un’abitudine che aveva conservato dal servizio militare. Quindi uscì dalla saletta e si avvicinò alla ragazza con il migliore dei suoi sorrisi.

    Ciao. Io sono Massimo.

    La ragazza si bloccò all’istante, abbassando lo sguardo. Sembrava tesa. Piacere, Anna, mormorò con un filo di voce.

    Lavori qui? Non ti ho mai vista.

    Lei impallidì. Non proprio....

    E allora che ci fai di bello, qua dentro?.

    Anna rimase in silenzio, tormentandosi le dita. Alzò gli occhi su Massimo, ma senza guardarlo.

    Non ti preoccupare, rise lui, nemmeno io lavoro qui.

    Una vampata le arrossò le guance. È che... Una mia amica lavora su, in amministrazione, e mi ha prestato il suo tesserino, così anch’io, insomma....

    Ho capito. Sei qui per acquisti. Furbina, eh?.

    Be’, sai, non lavoro, sto ancora studiando.

    "Ma non ti devi giustificare! El mond l’è di furb, minga di ciula. E poi, fai qualcosa di male? No. E allora?".

    Anna rimase qualche istante a fissarlo, occhi negli occhi. Gli appoggiò una mano sul braccio.

    Lui guardò la mano, sollevò lo sguardo su di lei, e lei non la ritrasse.

    Si sorrisero.

    Lui le chiese il numero di telefono e lei glielo diede.

    Il colloquio finì qui, perché dall’ascensore era spuntato il responsabile IT.

    Quella sera Massimo cenò con Anna in una trattoria di Biella. Di fronte a un piatto di tagliatelle con i funghi, e con qualche bicchiere di vino in corpo, lei gli confidò che quella mattina si era fatta le carte per sapere quando la sua vita sarebbe cambiata. E le carte avevano risposto che prestissimo avrebbe incontrato l’uomo che l’avrebbe strappata da un’esistenza fatta di niente.

    Massimo fu colto da un attimo di vertigine e ci scherzò sopra.

    E tu ci credi, alle carte? Quando lo trovi fammelo sapere, le disse.

    Lei abbozzò un sorriso e sospirò. Già. Quando lo troverò.

    Poi andarono in discoteca. Una bolgia infernale di rumore, ma lì le parole persero importanza. Anna ballava e il senso di ogni cosa fu risucchiato dal vortice delle sue curve, dai movimenti del suo bacino, dagli sguardi che i suoi occhi azzurri come il cielo seguitavano a lanciargli. Il resto non esisteva. La pelle di entrambi scottava quando in macchina iniziarono a baciarsi, con irruenza, fino a scatenarsi in toccamenti convulsi ben oltre la barriera degli abiti firmati, dei boxer e delle mutandine.

    Lui le venne in mano e s’imbrattò i pantaloni nuovi. Quando se ne accorse proruppe in un Porca puttana, sta’ attenta, cazzo!.

    Erano quasi le quattro di mattina quando Massimo, leggermente annebbiato, ancora con il sapore della lingua di Anna in bocca, arrivò a casa.

    Abitava a Milano, dalle parti di piazza Udine. Un appartamento come tanti, in un palazzone marrone come tanti, un balcone spoglio, tre stanze più cucina, arredamento acquistato a rate da Aiazzone, sulle pareti riproduzioni di quadri famosi e il calendario di Frate Indovino.

    Suo padre era ancora sveglio. Quando lo sentì entrare si alzò in silenzio dal letto. Per salutarlo, per vedere se stava bene. Per fargli una carezza sul viso. Al suo figliolo. Non gli chiese nulla e tornò a coricarsi.

    È a casa, disse alla moglie. Dormi ora.

    Ma non c’era nessun altro, in quel letto con lui. Perché sua moglie era morta sei anni prima. Di questo lui era consapevole, però continuava a parlarle come ai tempi in cui la vedeva girare per casa, preoccupata per quel ragazzo che a notte fonda non era ancora tornato e chissà dov’era e soprattutto con chi.

    Ciò che non le rivelò fu che Massimo si era istintivamente sottratto alla sua carezza. Lo sapeva che il figlio si irritava nel trovarlo sveglio, lì, ad attenderlo con gli occhi spalancati fino al momento in cui sentiva la chiave girare nella serratura. Ma era più forte di lui. Doveva farlo.

    Massimo infilò dritto la porta della camera. Aveva solo tre ore di sonno davanti a sé, ma si disse che ne era valsa la pena. Si annusò le dita e sorrise. L’avrebbe rivista presto, Anna, e solo a pensare alle sue tette l’eccitazione tornava a spingere dentro i pantaloni. Si spogliò al buio, in un silenzio rotto dal respiro pesante di Angelo, che dormiva nel letto accanto al suo, con la bocca aperta.

    Massimo sbuffò.

    La sola presenza di suo fratello lo infastidiva. Nessun legame con lui, così cupo, introverso. Un ragazzo che non parlava quasi mai, rinchiuso in un universo nel quale sembrava non esserci posto per chi sapeva godersi la vita. Massimo non l’aveva mai visto con una ragazza. In compenso si accorgeva dei movimenti frenetici delle sue mani sotto le lenzuola, di notte, prima di addormentarsi.

    Segaiolo del cazzo, diceva tra sé e sé.

    3.

    Cristina uscì dal negozio di pelletteria, dove lavorava come commessa, e un freddo polare l’aggredì costringendola a portarsi la sciarpa fin sotto gli occhi. Gennaio si manifestava in tutto il suo rigore, ma il 2012 era finalmente finito, e tutti speravano che il 2013 avrebbe tolto di mezzo almeno parte delle macerie provocate dall’anno precedente.

    Quella sera sembrava che in Calmaggiore, la stretta via centrale che a Treviso si snoda allegra tra due file di portici medievali, si fosse incuneata l’aria gelida di un’intera giornata. Ciononostante alle sette e mezza la piazza dei Signori, giù in fondo, si era già riempita di trevisani che, tra una chiacchiera e l’altra, tra uno spritz e un tramezzino al tonno, tiravano l’ora di cena. Qualche straniero di colore vendeva l’ultimo numero di Terre di Mezzo agli angoli delle vie, del tutto ignorato dai volti infreddoliti dei passanti.

    Cristina buttò un’occhiata verso la piazza, poi si voltò e si diresse verso il Duomo, dove avrebbe preso l’autobus per tornare a casa, lo sguardo sperduto e dolente di ogni sera. Tra qualche giorno avrebbe compiuto vent’anni, l’età della gioia, quella in cui si progetta l’esistenza. Ma lei non aveva la più pallida idea di cosa sarebbe stata la sua vita, era sola, in una città che ancora la guardava con sospetto.

    Qualche conoscenza occasionale, certo, e Modibo, che aveva conosciuto al mercato ortofrutticolo quattro mesi prima quando, appena arrivata da Milano, cercava un lavoro qualsiasi. Modibo le avrebbe fatto un regalo e la mattina del suo compleanno lei avrebbe sgranato gli occhi e lo

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