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Racconti di Chitarre
Racconti di Chitarre
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E-book262 pagine3 ore

Racconti di Chitarre

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Info su questo ebook

Quattro racconti, un unico filo rosso: la chitarra. Indiscussa protagonista di quattro storie completamente diverse tra loro: una stratocaster appartenuta a Eric Clapton, usata come arma del delitto in un giallo romano nel quale fanno da colonna sonora le canzoni di Nick Drake; poi complice del ritorno alla vita di un famoso musicista americano. Ed ancora la prima chitarra a sei corde della storia al centro di un viaggio indietro nel tempo ed infine spettatrice dello strano incontro, tra un vecchio bluesman e due curiosi esploratori galattici.
LinguaItaliano
Data di uscita2 ago 2015
ISBN9786050402551
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    Racconti di Chitarre - Paolo Puliti

    RACCONTI DI CHITARRE

    QUATTRO STORIE A SEI CORDE DI

    Paolo Puliti

    Copyright©2015 Paolo Puliti

    Tutti i diritti riservati

    e-mail: pulitipaolo@virgilio.it

    V1802

    Il progetto grafico della copertina è di Maristella Puliti

    Indice dei racconti

    FINO ALL’ULTIMA GOCCIA

    IL MIRACOLO

    LA NUMERO UNO

    BLAINGIÓ

    FINO ALL’ULTIMA GOCCIA

    Questo racconto è dedicato a Nick Drake

    Sommario

    Prologo

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Prologo

    C’è un filo sottile che separa le nostre vite da un destino diverso. Una volta spezzato il filo, non è più possibile tornare indietro. Adesso lui è lì in terra, morto. Ed io non sono più un uomo libero, sono solo un assassino.

    Capitolo 1

    Immerso con gli stivali a coscia nell’acqua verde del lago, l’uomo attendeva un segnale dalle presenze oscure degli abissi. Con grande abilità, e senza mai lasciare la canna da pesca, era riuscito persino ad arrotolarsi una sigaretta e ora ne aspirava il fumo a pieni polmoni. Tutto era perfetto: l’acqua immobile del lago, le morbide colline che lo circondavano e l’assenza totale di qualsiasi rumore. Fu proprio in quel momento che, con la coda dell’occhio, vide qualcosa muoversi. Gettò via la sigaretta e concentrò il suo sguardo verso il galleggiante, molto lontano da lui ma ben illuminato dal sole e furono proprio i raggi obliqui del mattino che evidenziarono quei cerchi concentrici che gli si formavano attorno, ad intervalli regolari. Ci siamo, pensò. Non poteva sapere chi fosse a far visita ai suoi pesciolini con la sorpresa uncinata ma nel suo cuore sperava tanto che fosse quel mostro enorme con le labbra lacerate da lunghe battaglie con gli umani. Moby Dick, era questo il nome, poco originale, che la gente del posto aveva dato al vecchio luccio del lago di Stubbiano, un piccolo paradiso alle porte di Roma. Il pesce, ora nuotava circospetto attorno al gustoso pasto: nonostante la fame tremenda, l’esperienza di una vita lo aveva reso diffidente nei confronti delle prede troppo facili e così si limitava a mordicchiare le parti sporgenti dei pesci attaccati all’amo, ancora senza affondare il colpo. La sfida era iniziata.

    Ci fu un attimo di pausa: nessun segnale dal galleggiante. Per un momento l’uomo pensò che il pesce se ne fosse andato. Poi, all’improvviso, un nuovo strappo fece affondare il grosso sughero che riapparve in superficie con uno schizzo. Strinse forte la canna con entrambe le mani. Era pronto all’attacco decisivo che arrivò puntuale pochi attimi dopo ma questa volta non ebbe il tempo di osservare la lenza. Avvertì solo lo strattone e fu talmente forte che sembrò quasi strappargli la canna dalle mani. Fu proprio all’apice della tensione, dovuta all’attacco del pesce, che sentì, forte come non mai, il suono sfrontato del suo cellulare che dalla riva rimbalzava sulla collina di fronte, ritornava amplificato e gli penetrava nel cervello come una maledetta punta di trapano. Un attimo, un solo attimo di distrazione e fu la fine di tutto: la canna gli sfuggì dalle mani come strappata via dall’elica di un motore. Il piede perse l’appoggio e l’uomo cadde in avanti. Si ritrovò completamente immerso in quell’acqua fredda e vischiosa che ora non aveva più niente del fascino del mattino, eppure, anche là sotto, riusciva a sentire distintamente il suono del suo telefonino.

    Grondante d’acqua, sporco di melma, arrivò annaspando alla riva. Maledizione, maledizione, ma chi cazz…. Prese in mano il telefono ricoprendolo di uno strato umido e verdastro. Riuscì appena a intravedere che lo stavano chiamando dal commissariato. «Lo sapevo!», disse questa volta a voce alta. Ebbe la tentazione di prendere il telefono e buttarlo in acqua: forse Moby Dick avrebbe potuto rispondere al posto suo, ma il grande luccio a quest’ora era già lontano. Lo immaginò mentre con i suoi denti aguzzi di ladro tagliava il filo della lenza e si godeva il meritato premio. Fra poco avrebbe ripreso a girare sazio e borioso per le acque del lago, raccontando a tutti gli altri pesci la sua ennesima impresa.

    «Pronto, commissario Trevi? Mi sente? Sono Biagi, dal commissariato. Mi sente?».

    Sentiva benissimo ma aveva solo voglia di urlare.

    «Commissario, perché non risponde?».

    «Ascoltami bene Biagi, lo sai…?», rispose con una voce troppo calma per sembrare vera.

    «So tutto commissario; lo so che oggi ha preso un giorno di ferie e che sta pescando, ma mi creda…».

    «No!», rispose gridando. «Sono io invece che non posso proprio credere che qualsiasi cosa sia successa, e ripeto qualsiasi, hai chiamato me invece che quel cretino di Ciampi che sa benissimo quello che deve fare quando non ci sono io, e …».

    «Ciampi è in ospedale», lo interruppe Biagi.

    Questo non se lo aspettava. Aveva parlato troppo presto. Se il suo vice era in ospedale, allora era successo veramente qualcosa di grosso: pensò a una sparatoria, morti, feriti, e ... «Che è successo? Dimmi tutto».

    «Come lei sa commissario, ogni domenica sera Ciampi ha il calcetto con i colleghi, e…».

    «Ma che mi stai raccontando Biagi? Cosa c’entra il calcetto con la sparatoria?».

    «Quale sparatoria, commissario?».

    «Biagi! Vai avanti! Non ci sto capendo più niente, e poi sono anche tutto bagnato!».

    «Commissario, io volevo solo dirle che Ciampi, ieri sera, giocando a calcetto, si è procurato una distorsione alla caviglia sinistra con sospetta rottura dei legamenti e che quindi è bloccato in ospedale; forse lo devono operare. Quello che sinceramente non ho capito è questa storia della sparatoria e perché lei è tutto bagnato. Ma che sta succedendo al lago?».

    «Biagi? Mi vuoi dire per che cazzo mi hai chiamato?».

    «C’è stato un omicidio, commissario. Uno importante».

    «Perché, ci sono omicidi importanti e altri meno importanti? Questa è la prima volta che lo sento dire e mi dispiace proprio che sia un uomo dello stato come te a dire questa cosa, significa che non hai capito…».

    «Ho capito, ho capito commissario, ha ragione. Mi scusi, non volevo dire che…».

    «Non lo volevi dire ma lo hai detto; avanti dimmi chi è prima che tu spari altre cazzate».

    «Rocco Marconi, commissario. Rocco Marconi».

    «Ma chi, il cantante?».

    «Proprio lui, deve venire subito, la scientifica è già sul luogo del delitto; la sua cameriera lo ha trovato morto stamattina».

    «Ma è sicuro che è omicidio?».

    «Pare sia stato ucciso con una botta che gli ha quasi aperto la testa in due, così ci ha detto la signora che lo ha trovato. Le mando un messaggio con l’indirizzo, ci vediamo là. Faccia presto!».

    «Biagi? Biagi, ma io sono tutto sporco e bagnato, e… Biagi?», aveva appena riattaccato. Subito dopo arrivò il messaggio con l’indirizzo.

    Niente da fare, tutto finito. Il lago, il sole, le colline, la canna da trecento euro, le esche vive e Moby Dick per non parlare poi dei panini con la frittata e la birra fresca nel frigo. Quello che lo aspettava adesso era solo il rientro di corsa in città. Il traffico, i rumori, le solite facce dei soliti colleghi. E poi lei, sempre lei, quella che se ne frega delle ferie, dei giorni liberi e dei lucci. La Signora Morte arriva sempre puntuale ma, chissà perché, sempre inaspettata.

    Questi i pensieri che giravano nella testa del commissario Trevi, mentre si toglieva gli stivali a coscia pieni d’acqua e raccoglieva le proprie cose per ritornare alla macchina. Pensava a cosa avrebbero detto gli altri della sua tenuta e del suo forte odore di lago marcio. «Chi se ne frega!», disse nuovamente a voce alta. Mentre si lasciava alle spalle il lago, la strada che aveva percorso poco tempo prima con animo leggero, adesso lo riaccompagnava tristemente in città. L’incantesimo della mattina si era rotto per sempre.

    Capitolo 2

    La villa di Rocco Marconi si trovava in un quartiere residenziale della città, poco lontano da casa sua, anche se quei pochi isolati che li separavano marcavano un territorio netto fra chi può e chi invece può solo sognare. Trovò parcheggio un po’ distante dall’abitazione e man mano che procedeva a piedi verso la villa, notò che le persone che lo incrociavano lo guardavano quasi fosse un marziano e commentavano il suo passaggio con facce molto più eloquenti di qualunque frase. Gli parve addirittura di intuire la parola ‘barbone’, ma non ebbe il tempo né la voglia di approfondire.

    Si presentò sporco e puzzolente a un collega della scientifica che si trovava fuori della villa che non fece in tempo ad aprire bocca. Trevi lo anticipò: «non dire niente. Dove devo andare?».

    «Al primo piano, sali le scale subito dopo il portone, troverai già tutti lì. Tutti tranne il morto. Lo hanno portato all’obitorio proprio adesso».

    L’entrata di Trevi sulla scena del delitto vestito da pescatore e fradicio di lago creò un improvviso silenzio fra i presenti. Biagi li aveva avvertiti che il commissario aveva preso un giorno di ferie e se n’era andato a pesca, ma ci fu comunque un attimo d’imbarazzo.

    «Vi ringrazio per l’accoglienza calorosa, se volete mi rigiro e me ne torno da dove sono venuto», esordì Trevi.

    «Ma dai, vieni dentro Michele; sappiamo tutto. Passa qui, fuori dal tappeto, andiamo in cucina che ti racconto». Fu Torrigiani, il capo della scientifica a riportare tutto alla normalità. Entrarono in cucina dove si trovava, seduta al tavolino, quella che sicuramente era la cameriera che aveva trovato il morto. La donna singhiozzava piano e si asciugava in continuazione il naso con un fazzoletto che teneva appallottolato in una mano. Non si mosse all’entrata dei due.

    «Signora, mi scusi, questo è il commissario Trevi. Vorrebbe essere così gentile da ripetere anche a lui che cosa ha visto esattamente stamattina quando è entrata in casa?».

    La donna alzò lo sguardo verso Trevi, e rimase a guardarlo per un attimo prima di parlare: «lei è un commissario di Polizia?», chiese con un filo di voce.

    «Signora, il suo imbarazzo è anche il mio, ma le garantisco che sono proprio un commissario. Ora, gentilmente, vuole rispondere alla domanda che le ha fatto il mio collega?».

    La donna riabbassò gli occhi verso il tavolo e iniziò a parlare: «stamattina sono arrivata verso le otto, come ogni lunedì mattina, e per prima cosa ho notato che la porta d’entrata era chiusa ma la serratura non aveva nessuna mandata e poi l’allarme non era inserito. Allora ho pensato che il signor Rocco fosse sveglio o fosse già uscito. Mentre salivo le scale, ho provato a chiamarlo a voce alta poi, arrivata di là in salotto, l’ho visto steso per terra, sotto la finestra, e così mi sono avvicinata. Ho visto la grande macchia di sangue sotto la testa e la ferita che aveva sulla nuca ed ho capito subito che era morto. Così vi ho chiamato».

    «Qualcun altro ha le chiavi di casa oltre a lei?».

    «No. Lui viveva solo. Sua moglie e suo figlio abitano a Londra e da quando si sono separati, vengono a Roma solo due o tre volte l’anno, ma sono sicura che la signora non ha le chiavi, perché, quando è qui, le lascio le mie. Ecco, questo è tutto quello che so».

    La donna, un’anziana signora, parlava piano e sempre senza guardare in faccia nessuno. Fissava con lo sguardo un punto fisso sul tavolino e tracciava cerchi sulla tovaglia con l’indice della mano.

    «Ha notato se è stato portato via qualcosa di prezioso dalla casa o comunque le sembra che manchi qualcosa?», continuò Trevi.

    «No, non mi sono mossa di qui, dopo che vi ho chiamato, quindi non posso rispondere. Dovrei fare il giro delle stanze e controllare».

    «Biagi!».

    «Dica commissario».

    «Biagi, accompagna la signora per tutta la casa. Fate il giro delle stanze e segna su un foglio esattamente quello che ti dice. Se c’è qualcosa fuori posto, se manca qualcosa, insomma tutto quello che la signora riesce a ricordare. Mi raccomando, è molto importante».

    I due uscirono dalla cucina, il poliziotto teneva la signora a braccetto, mentre Trevi e Torrigiani tornarono nella sala, il luogo del delitto. Del corpo di Marconi rimaneva solo la sua figura disegnata sotto la finestra. Intorno, gli altri uomini della scientifica, compivano gli ultimi rilievi.

    «Il medico legale ha detto qualcosa?», chiese Trevi.

    «Ha detto che è morto la notte tra sabato e domenica, sarà più preciso per l’ora dopo l’autopsia. La causa è sicuramente la botta molto violenta ricevuta sulla nuca con qualcosa che a prima vista sembrerebbe una mazza da baseball, ma un po’ più piccola, forse una sbarra di ferro molto pesante, ma è ancora tutto da capire».

    «Va bene. Senti aspettiamo un attimo Biagi con la signora e vediamo se hanno scoperto qualcosa. Io passo da casa a cambiarmi e poi io vado al commissariato».

    In quel momento Biagi e la cameriera rientrarono nella sala.

    «Commissario, abbiamo finito. La signora dice che non dovrebbe mancare niente a parte una cosa che si trovava proprio qui in sala».

    Biagi si diresse verso uno strano aggeggio in metallo vicino al caminetto della sala.

    «Cos’è questo trespolo?».

    «Non è un trespolo, è un reggichitarra. Serve a far stare in piedi lo strumento quando è fuori dalla sua custodia. Però, come vede, la chitarra non c’è».

    «E quindi vuoi dire che l’unica cosa che manca in tutta la casa è una chitarra?».

    «Così dice la signora».

    «Signora, mi scusi: ci sa dire qualcosa sulla chitarra che era su questo trespolo?».

    «Sì, era una chitarra».

    «Benissimo, ma si ricorda com’era fatta? Saprebbe descriverla?».

    «Mi ricordo che era bianca e nera».

    Trevi non insistette oltre con la signora.

    «Grazie mille signora, lasci il suo numero di telefono al mio collega, la richiameremo noi se avremo bisogno ancora di lei. Può tornare a casa».

    Biagi e la signora si avviarono verso le scale.

    «Che ne pensi Torrigiani?», continuò Trevi rivolgendosi adesso verso il collega della scientifica.

    «Se era una chitarra elettrica, come immagino, potrebbe anche essere l’arma del delitto. Forse c’è stato un litigio, oppure Marconi ha sorpreso qualcuno in casa sua a rubare e l’assassino ha preso la prima cosa che ha trovato per colpirlo e poi l’ha portata via per cancellare ogni traccia. Dovremmo dirlo al medico legale e fare magari delle prove con vari modelli per vedere se sono compatibili con la ferita; per quello che me ne intendo io, credo che le chitarre elettriche siano abbastanza pesanti e quindi potrebbe essere stata impugnata per il manico e sbattuta con forza sulla nuca di Marconi».

    «Già, potrebbe essere un ipotesi. Biagi!».

    «Sono qui commissario, ho accompagnato la signora giù in strada, c’è già tutta la stampa che ha già saputo dell’omicidio di Marconi. Ma chi li ha chiamati?».

    «La stampa, cazzo! Non ci avevo pensato, e magari pure la televisione!».

    «Esatto commissario, non manca nessuno. Tutta l’informazione al completo».

    Sicuramente il solito stronzo aveva avvertito il mondo intero senza aspettare le vie ufficiali. Ed ora, come poteva uscire conciato in quel modo e tornare alla macchina senza farsi notare? Anche ci fosse stata un’uscita sul retro, di sicuro c’era qualcuno appostato. Prese Biagi a braccetto e sottovoce gli disse: «senti Biagi, dovresti arrestarmi».

    «Che sta dicendo, commissario? Che vuol dire che dovrei arrestarla?».

    «Ma sì Biagi, è semplice: non posso uscire conciato così e non posso neanche aspettare che tutti se ne siano andati. Ho bisogno di andare subito a casa a cambiarmi e tornare in ufficio. Ascoltami bene, facciamo così...».

    Qualche minuto dopo una macchina della Polizia arrivò a sirene spiegate davanti alla casa di Rocco Marconi, facendosi largo tra i curiosi che si erano uniti alla ressa dei giornalisti. D’improvviso la porta della casa si aprì e due poliziotti tenevano a braccetto un uomo con il volto e il busto nascosti da una pesante coperta a quadrettoni al di sotto della quale spuntavano un paio di pantaloni con disegni mimetici, proprio come quelli che usano i pescatori. L’uomo venne spinto a forza dentro la volante mentre una raffica di flash lo immortalava. La macchina si allontanò sgommando e seminando i giornalisti che le correvano dietro.

    «Che gli raccontiamo adesso al Questore? Questa sceneggiata è stata vista in tutta Italia», chiese Biagi.

    «Non ti preoccupare lo chiamo subito appena arrivo a casa e gli spiego tutto, anche se, immagino, si incazzerà di brutto. Tu piuttosto, sai già cosa devi fare vero?».

    «Immagino vorrà sapere vita, morte e miracoli del Marconi?».

    «È chiaro. L’ipotesi del furto finito male sembrerebbe la più probabile. Comunque, per non tralasciare nessuna pista, tu portami i nomi di tutti quelli che lavoravano o vivevano a stretto contatto con lui: musicisti, amici, amanti, ecc... Cerca di capire se qualcuno di loro poteva avere un buon motivo per farlo fuori. Oggi pomeriggio cominciamo a convocarli uno alla volta in ufficio. Controlliamo i loro alibi e vediamo cosa viene fuori. Fammi sapere anche chi beneficia della sua morte: se aveva assicurazioni sulla vita e se aveva già fatto testamento. E poi testimonianze dei vicini di casa, mail, telefonini, messaggi tutto quanto insomma».

    «Va bene commissario, so quello che devo fare. È la prassi che facciamo sempre per gli omicidi».

    «E no, qui ti sbagli. Me l’hai detto proprio tu stamattina per telefono che questo è un omicidio ‘importante’. Quindi mi dispiace per te ma dovrai sudare il doppio, e se non lavori bene, ti faccio il culo. Semplice, no?».

    «Commissario le ho già detto che ho sbagliato, e…».

    «Io sono arrivato, ci vediamo più tardi in commissariato».

    Capitolo 3

    La telefonata per spiegare il finto arresto non era piaciuta per niente al Questore, il quale lo ammonì severamente dicendogli che la prossima iniziativa presa senza il suo consenso, sarebbe stata l’ultima da commissario. Trevi però riuscì a spostare la conversazione sull’omicidio ed il Questore gli disse che la grande pressione mediatica che prevedeva su questo caso lo preoccupava molto e che quindi avrebbe dovuto tenerlo informato su ogni minimo particolare e su qualsiasi nuovo sviluppo.

    I telegiornali dell’ora di pranzo dettero grande rilievo alla morte di Rocco Marconi, da tutti veniva espresso Unanime cordoglio per la prematura scomparsa del grande musicista italiano, mentre le immagini dell’arresto del presunto omicida venivano mandate a ripetizione ed il commento era sempre il solito: chi era la persona arrestata proprio davanti a tutte le telecamere? Se era l’assassino, che ci faceva ancora in casa della vittima? Perché indossava pantaloni da pescatore e perché erano bagnati?.

    Trevi spense il televisore e si recò in motorino verso il commissariato; più tardi

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