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Noi siamo i veci: 15 storie per raccontare i 150 anni degli alpini
Noi siamo i veci: 15 storie per raccontare i 150 anni degli alpini
Noi siamo i veci: 15 storie per raccontare i 150 anni degli alpini
E-book165 pagine2 ore

Noi siamo i veci: 15 storie per raccontare i 150 anni degli alpini

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Info su questo ebook

Il colore grigio-verde della divisa e la penna nera rendono riconoscibile ogni alpino. Ma dietro questi elementi c’è molto di più: emergono valori importanti come la lealtà, il coraggio e l’altruismo. Paolo Campanardi, noto a tutti come Gibba, da sempre coltiva una grande passione per il corpo degli alpini (pur non avendo fatto il servizio militare, con suo sommo rimpianto), ha letto numerosi diari di eroici battaglioni e negli ultimi otto anni ha percorso migliaia di chilometri sulle montagne dell’Alto Garda ricercando tracce e testimonianze dei fatti avvenuti durante la Grande guerra. Su e giù per i canaloni, lungo le trincee scavate con sudore e fatica, Gibba ha persino usato le latrine dei soldati e dormito nei loro ricoveri per provare quantomeno a immaginare cosa realmente abbiano potuto passare quegli uomini durante la guerra e come questo abbia cambiato per sempre il loro modo di interpretare la vita.

Nel 2022 gli alpini celebrano i loro centocinquant’anni e con questo libro Gibba ha voluto dedicare loro un viaggio nella memoria raccontando personaggi, episodi e motti significativi, dalla fondazione del corpo nel 1872 alla missione in Afghanistan, passando per le imprese dei mascabroni e per il tragico disastro del Vajont. Quindici storie in cui lo spirito di fratellanza, il valore del sacrificio e l’orgoglio diventano protagonisti indiscussi.
Non ci resta che controllare l’equipaggiamento, allacciare gli scarponi e chiudere lo zaino, prima di metterci in marcia in questo percorso lungo un secolo e mezzo.

LinguaItaliano
Data di uscita9 set 2022
ISBN9788830542129
Noi siamo i veci: 15 storie per raccontare i 150 anni degli alpini

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    Anteprima del libro

    Noi siamo i veci - Paolo Gibba Campanardi

    PREFAZIONE

    Non si può che leggere con piacere ed estremo interesse questo nuovo lavoro di Paolo Campanardi, per tutti Gibba. Piacere perché è motivo di grande soddisfazione constatare che un giovane ricercatore coltiva con entusiasmo e competenza la passione per la storia del corpo degli alpini, che proprio quest’anno celebra i centocinquant’anni della sua fondazione. Soddisfazione perché il libro Noi siamo i veci risponde in chiave moderna e letterariamente accattivante a quello che è uno degli impegni fondanti dell’Associazione Nazionale Alpini, ovvero il fare memoria.

    Attraverso storie di personaggi che si incrociano in un singolare viaggio nel tempo, dalla fondazione del corpo nel 1872 sino alla missione in Afghanistan e al terremoto dell’Aquila, l’autore disegna qualcosa di più di una serie di ritratti: costruisce un percorso di vita, fatto di valore, spirito di servizio, solidarietà cameratesca e amore per la patria, un solco che è diventato una linea guida per gli alpini di ogni tempo e che si traduce in operatività solidale a favore di chi è più sfortunato o ha bisogno.

    Alle vicende degli uomini sono legate quelle della storia, attraverso pagine dolorosamente leggendarie come quelle scritte sull’Ortigara o dalle imprese dei mascabroni, audaci incursori di montagna. E, per meglio comprenderle, Gibba ci parla di motti e canzoni, che degli alpini raccontano e hanno contribuito a creare il gigantesco patrimonio di considerazione di cui da sempre godono i soldati che hanno indossato in gioventù, per poi portarlo e onorarlo per tutta la vita, l’inimitabile cappello con la penna nera.

    Una lettura che appassiona e che, conoscendone l’origine, scaturita da un giovane amante della montagna e della storia, concilia con il passato rivolgendo uno sguardo più fiducioso al futuro.

    Sebastiano Favero

    Il presidente dell’Associazione Nazionale Alpini

    INTRODUZIONE

    Io in guerra non ci sono mai stato. Mai marciato, mai fatto un turno di guardia, mai vissuto in una caserma. A dire la verità, non ho fatto nemmeno il servizio militare. Il mio più grande e unico rimpianto.

    Ci ho provato, come volontario, quando la leva obbligatoria era terminata, ma purtroppo sono stato scartato per problemi legati all’udito. Ricordo però molto bene ciò che avevo detto tra me e me mentre entravo in caserma: «Qualunque cosa accada, troverai un modo per servire la tua patria».

    Ebbene, ho passato gli ultimi otto anni della mia vita camminando tra le montagne dell’Alto Garda, ricercando tracce e testimonianze dei fatti avvenuti durante la Grande guerra. Su queste cime, le mie cime, gli alpini erano stati inviati preventivamente già nel dicembre 1914, a tutela dei nuovi confini venutisi a creare a seguito della nostra neutralità allo scoppio della guerra.

    Grazie all’immenso lavoro dell’ASAR (Associazione Storico Archeologica della Riviera del Garda), ho avuto la possibilità di analizzare le molteplici tematiche leggendo i diari relativi ai battaglioni di alpini operanti sugli oltre venticinque chilometri di linea. Da qui è nata una passione trasformatasi in stile di vita. Non saprei come altro definirla.

    Ho percorso migliaia di chilometri su e giù per i canaloni, lungo le trincee scavate con sudore e fatica, perdendomi tra gli snodi di camminamenti e mulattiere. Ho vissuto la prima linea italiana in ogni stagione dell’anno: d’estate sotto un sole cocente e d’inverno tra neve e ghiaccio. Ho usato le latrine dei soldati e dormito nei loro ricoveri. Mi sono scaldato nelle notti più fredde sotto un cielo illuminato a giorno da un’infinità di stelle. Ho pianto in silenzio, ho gioito, mi sono ferito, ho amato, ho conosciuto il significato della parola solitudine, ho desiderato ardentemente di tornare a casa con l’unico desiderio di lavarmi.

    Tutto questo l’ho fatto indossando la loro stessa divisa, per tentare quantomeno di immaginare cosa realmente hanno potuto passare durante la guerra e come tutto questo ha cambiato per sempre il loro modo di interpretare la vita.

    In un certo senso mi piace pensare di averlo trovato, quel modo. È successo quando mi hanno chiesto di scrivere questo libro. Ero a bordo trincea, vicino a un punto avanzato d’osservazione; di fronte a me la linea austriaca, oggi trasformata in pascoli e mete per gli amanti del trekking. E, pensando ai soldati che un secolo prima hanno avuto il compito fondamentale di allertare il comando in caso di attacco nemico, ho trovato la prima parola: responsabilità.

    Proprio per questo, le storie che leggerete sono quelle di uomini che hanno fatto scelte in circostanze del tutto lontane dalla realtà in cui viviamo oggi: sarebbe perciò ingeneroso sentenziare con occhi moderni le gesta di soldati d’altri tempi. Nel bene e nel male.

    Assumermi l’onere di guidarvi in modo imparziale in un viaggio di centocinquant’anni richiede davvero una grande conoscenza storica, capace di seguire sempre la strada indicata dalla veridicità dei fatti accaduti e compiuti dai loro protagonisti. Questo ci porta alla seconda parola: scelta.

    Importante quanto la prima (se non addirittura di più), questa voce racchiude in sé il cuore pulsante del libro che avete tra le mani.

    In questo secolo e mezzo gli alpini hanno dato costantemente prova del loro altruismo ed eroismo, scrivendo pagine memorabili della storia del XIX, XX e XXI secolo.

    Scegliere quali episodi raccontare e quali escludere non è certamente un compito facile, eppure lo scopo di questa pubblicazione è celebrare l’esistenza di tutte le penne nere e nessuno deve sentirsi escluso solo perché non citato.

    Ogni vita vale una vita e nessuno di noi può arrogarsi il diritto di pesarne il valore.

    Racconterò storie di alpini che non ci sono più, ma che, grazie a compagni che dopo di loro hanno indossato lo stesso cappello e la stessa divisa, devono essere comunque considerati parte di quel glorioso passato che ha avuto la forza di arrivare fino ai giorni nostri.

    Dalle storie ai detti, dalle immagini ai racconti, dai canti ai motti: ecco le armi date in dotazione a ogni singolo alpino, con le quali ciascuno di loro ha saputo tenere viva nei decenni l’immagine sempre raggiante del proprio servizio militare e del proprio battaglione d’appartenenza.

    Senza volerlo, ho anticipato anche la terza e ultima parola chiave: appartenenza, appunto. Un sentimento che nei battaglioni accomuna tutti gli uomini e che si rafforza, assumendo lustro e considerazione, grazie all’esperienza conquistata con valore sul campo della vita.

    Quei veci (come sono chiamati i reduci di guerra o i congedati dal servizio di leva obbligatorio), che vestivano il colore grigio-verde del corpo degli alpini e che portavano fieri i segni dell’esperienza, erano e sono visti tutt’oggi dalle nuove leve (i bocia, ossia i tanti ragazzi che sognano di indossare il cappello con la penna nera) come un esempio di virtù da seguire.

    Le storie che racconterò sono esattamente questo: l’esperienza diretta di soldati che hanno fronteggiato situazioni tra le più disparate, con ogni genere di difficoltà.

    Dalla singola circostanza hanno scelto di prendere le decisioni che li hanno consacrati come veri e propri eroi. E le conseguenze di quelle decisioni sono esperienza viva, di inestimabile valore per noi. Non importa se non sono attuali, ciò che resta sono le motivazioni per cui quelle scelte sono state fatte.

    Lealtà, coraggio e altruismo sono i principi fondamentali per vivere con maggiore consapevolezza, e penso che molti di noi dovrebbero metterli in pratica nella vita di tutti i giorni, senza fermarsi unicamente alla teoria. Mi sono imposto di fare la stessa cosa.

    La passione per il corpo degli alpini è nata e si è rafforzata con gli anni: più leggevo le pagine di diario di eroici battaglioni e più vedevo in essi non solo semplici soldati o graduati, ma veri e propri esempi di vita. Lo spirito di fratellanza, il valore del sacrificio, l’orgoglio patriottico sono solo alcuni dei valori intrinsechi di un alpino, combattente o congedato che sia, poiché un alpino rimane tale per sempre.

    Per questo voglio celebrarli: è il momento di essere fieri, oggi più che mai, dato che questo mondo sta pian piano cancellando le tracce incise con le sofferenze e i sacrifici dei nostri predecessori.

    Ho scelto di dedicare la mia vita per far vivere le loro memorie: in questo credo e questo farò per il bene dell’Italia.

    Ma non voglio dilungarmi oltre. Abbiamo un lungo cammino da fare: giusto il tempo di dare un’ultima controllata all’equipaggiamento, allacciare gli scarponi e chiudere lo zaino.

    Bene, sembra esserci tutto. Non rimane altro da fare che metterci in marcia, magari iniziando da una bella salita. La parola d’ordine è una sola: sempre avanti, alpini!

    STORIE DI UOMINI

    1

    GIUSEPPE PERRUCCHETTI

    IL PADRE DEGLI ALPINI

    Camminare ti spoglia di ogni pregiudizio. Ti invita a pensare alla bellezza e alla semplicità della condizione dell’uomo, ti obbliga a chiarire il rapporto con gli altri e con il mondo, ti aiuta a considerare il passato della vita in montagna per quello che è stato, senza troppo romanticismo, a vederlo con occhi antichi e comprensivi, meglio se empatici.

    Lo so bene io, che di mestiere faccio la guida escursionistica e spesso racconto alle persone come vivevano i montanari un tempo e di quali fatti sono stati protagonisti i soldati.

    Cerco di farlo sempre con parole intrise di rispetto, verità e passione, per far capire come la gente di montagna e gli stessi soldati si abituassero in fretta alla loro precarietà, che nulla aveva a che fare con la rassegnazione. Tutto il contrario. Quella precarietà, dovuta alla povertà e ai pericoli con i quali convivevano, era un’abitudine congenita, una saggezza involontaria ereditata da antenati a loro volta montanari.

    Sono questi i principi che provo a trasmettere a ogni escursionista, anche per non tradire la mia missione nei confronti degli alpini: comprendere nel profondo – guardando con i loro occhi e immedesimandomi nei loro pensieri – ciò che hanno vissuto, come hanno combattuto, quanto hanno sofferto o sorriso, che cosa hanno provato prima di morire o nel momento in cui hanno realizzato di essere dei sopravvissuti.

    Sono gli stessi principi di rispetto, verità e passione che hanno guidato le scelte di vita di un uomo di pianura, colui che ha avuto la grande intuizione. Un uomo nato nel 1839 in provincia di Milano, da dove le montagne sono visibili ma lontane, a nord della città, e per raggiungerle bisogna camminare ore: il capitano Giuseppe Perrucchetti.

    È stato lui a teorizzare per primo come fosse necessario avere, per il neonato Regno d’Italia, un corpo specializzato dell’esercito da porre a difesa dei confini nazionali sulle Alpi, dotando al contempo le montagne di mulattiere, sentieri e vie ferrate.

    Il capitano era un vero patriota, come oggi ce ne sono pochi, un giovane che a vent’anni aveva deciso di lasciare la Lombardia e il paese natale, Cassano d’Adda, all’epoca ancora sotto il dominio dell’Impero austro-ungarico, per raggiungere il Piemonte e i due fratelli maggiori, entrambi ufficiali garibaldini. L’aveva fatto per arruolarsi volontario nell’esercito del Regno di Sardegna.

    Perrucchetti aveva i baffi scuri a manubrio, come molti uomini dell’Ottocento, il naso allungato, la fronte ampia e lo sguardo sornione ma sincero. E, forse, doveva aver sorriso soddisfatto lisciandosi proprio i baffi mentre scriveva l’articolo poi pubblicato sulla Rivista militare italiana, nel maggio 1872, intitolato Considerazioni su la difesa di alcuni valichi alpini e proposta di un ordinamento militare territoriale della zona alpina, il cui senso ultimo era affidare ai montanari la difesa armata dei monti.

    Ecco qual è stato il primo passo deciso

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