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Don Tano di Arancera. Uomo d'onore e di rispetto
Don Tano di Arancera. Uomo d'onore e di rispetto
Don Tano di Arancera. Uomo d'onore e di rispetto
E-book272 pagine3 ore

Don Tano di Arancera. Uomo d'onore e di rispetto

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Info su questo ebook

A Don Tano non aveva mai allettato l'idea di dovere togliere da questo mondo per sempre un uomo.

"Avi diritto e motivu di campari picchì la vita ci la detti l'Eternu e nautri nun ci la putemu livari" (ha diritto di vivere la propria vita fino a quando il Padreterno non ne avesse designato la fine), semmai intimidirlo.

Don Tano, in fin dei conti è stato un uomo fortunato.

Questa è la sua vita…
LinguaItaliano
Data di uscita10 nov 2022
ISBN9791221442885
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    Anteprima del libro

    Don Tano di Arancera. Uomo d'onore e di rispetto - On Fire

    CAPITOLO PRIMO

    L’inizio

    Parrì, parrì, curriti. Allistitivi cà sinni stà iennu (correte Padre, sbrigatevi che se ne sta andando).

    A Don Tano non aveva mai allettato l’idea di dovere togliere da questo mondo per sempre un uomo.

    Neppure quella di dare ad un suo subordinato l’ordine di farlo lo rendeva felice, in quanto diceva che un avversario o chi non ha rispetto per le regole: Avi diritto e motivu di campari picchì la vita ci la detti l’Eternu e nautri nun ci la putemu livari (ha diritto di vivere la propria vita fino a quando il Padreterno non ne avesse designato la fine), semmai intimidirlo.

    Nato ad Arancera, nel 1917 il primo maggio, un paesino della Sicilia occidentale durante la Prima guerra mondiale e nel giorno della festa dedicata ai lavoratori.

    La data che ancora oggi viene commemorata nel mondo intero per non dimenticare tutte quelle persone che aspiravano o hanno lottato e perso la vita nel tentativo di ottenere condizioni lavorative più umane e dignitose nei posti di lavoro.

    Forse per essere nato in questo giorno o per il fatto di essere stato esile di corpo, nella sua vita raramente fece un lavoro manuale ma riflettendoci attentamente, mai eseguì.

    Umili origini.

    Il padre Don Matteo carrettiere uomo tozzo e di media altezza, sfamava la famiglia portando da un capo all’altro del paese con il suo mulo marrone ed il carretto con le sponde in legno lasciatogli in eredità dal progenitore morto durante la passata guerra, ogni cosa che non si poteva trasportare sulle spalle.

    Chi doveva trasferire la mobilia da una casa per arredarne un’altra, si rivolgeva a lui.

    Chi si apprestava a scavarne le fondamenta, si rivolgeva sempre ad egli per il trasporto della terra superflua fino al deposito di Santa Rosalia, l’unica discarica di materiali multipli designata dagli abitanti del paese e da dove nelle vicinanze sgorga una sorgente naturale che fuoriesce dall’interno di una grotta.

    Usata perfino come rifugio ai tempi della Prima e Seconda guerra mondiale per i paesani che trovavano così un protetto riparo ai bombardamenti aerei.

    La discarica divenne tanto tempo dopo famosa per essere stata utilizzata come l’immondezzaio di materiale si disse pure radioattivo, che tanti lutti ha portato nella cittadina causando a molti residenti del luogo mortali tumori spesso incomprensibili. Ma di questo non ne sono certo in quanto divenne una locale diceria ed è un altro discorso da indagare in altra sede.

    Insomma, il trasportatore di ogni cosa, compresa la cacca che gli abitanti del paese rinchiudevano in sacchetti di carta che si squagliavano al contatto del refluo, non essendo ancora stati inventati i sacchetti di plastica né costruite le moderne fognature sotterranee.

    Il Sindaco dell’epoca, Gaetano Vetta, gli aveva conferito l’incarico di compiere tale operazione e puntualmente ogni sera prima del calar del sole, mettendo un fazzoletto davanti al naso, usando una pala ed il carretto trainato dal mulo su cui adagiava un piccolo strato di terra per assorbire eventuali fuoriuscite, girava le strade del paese effettuando il raccolto.

    A fine mese lo pagava con 150 lire per fargli dimenticare l’odore del defeco.

    Capitava così che dopo avere fatto un viaggio con il liquame lo chiamavi per trasloco di mobilia.

    Per un mese ed anche di più, dovevi convivere con quel malsano e vomitevole odore. Ma era l’unico carrettiere conosciuto. Volente o nolente a lui ti dovevi rivolgere.

    Era bravo pure a intrecciare i rami di burda, una pianta selvatica che cresce dentro ai letti dei fiumi e con cui essiccandola realizzava ceste di ogni dimensione con i manici.

    A volte, comprava cose ritenute inutili dalla moglie, tra cui un pettine nuovo, una nuova lametta per la barba o il sapone.

    Uno spendaccione.

    La madre, Donna Caterina, era la sarta del paese.

    Pure bassa di statura, ma una spanna più alta del marito. indossava abiti di colore scuro, come se fosse sempre a lutto e scarpe lasciategli in eredità dagli avi.

    Aggiustava e cuciva a mano ogni abito da sposa per chi all’altare si doveva recare.

    Una grande risparmiatrice.

    Ogni cosa che poteva mettere da parte, dai soldi fino ad arrivare ai lembi delle stoffe usate nel lavoro, le conservava.

    Allungava pantaloni o ristringeva i vestiti delle persone, in quanto per la fame del precario periodo che si attraversava, essi divenivano sempre più larghi e corti da indossare.

    Zio Tano era il terzo di cinque fratelli, nati dall’unione di Matteo e Caterina ed assomigliava in modo spiccato al padre sia in volto che nel fisico.

    Gli altri due fratelli e le sorelle avevano ereditato da entrambi i genitori le sembianze genetiche ed il carattere. Così, mentre uno dimostrava essere un gran risparmiatore, l’altro non badava a niente e se nel piatto avanzava del cibo, lo dava ai cani.

    Un vero e proprio spreco per il periodo che si transitava.

    La casa dove abitavano misurava 6 metri da un lato per 7 dall’altro. Il dammuso (tetto a volta in gesso) alto 4 metri, vantava la collocazione di u sularu (soppalco).

    Lo avevano realizzato con travi in legno alla distanza di 1 metro dalla volta. Disposte sopra a fare da pavimento, tronchetti di zabbara (agave) e canne provenienti dalle rive dei fiumi e ruscelli, su cui venivano collocate tante cose varie pure inutili ma ca ponnu serbiri (possono sempre servire).

    Per salirvi una scala fatta a mano, usata in estate per raccogliere le mandorle o le olive, appoggiata al muro.

    La stanza era stata suddivisa in quattro da una coperta di cotone tirata con corda intrecciata, fatta dalle sapienti mani del padre usando le foglie di palma mediterranea, la giummarra essiccata anch’essa, mentre legata a grandi chiodi con anello di 10 centimetri (i cavigliuna), veniva appesa ai muri.

    La camera d’ingresso così ottenuta, la utilizzavano con funzione di stanza da pranzo.

    Angolo destro un cufularu a ligna (cucina economica), dove cucinavano il cibo, sinistro una cridenza (credenza) con ante in vetro metteva in mostra oggetti per cucinare ed i piatti anche cusuti (riparati, cuciti) dove mangiavano la pasta fatta a mano cu lu sagnaturi (matterello) ed a Pasqua o Natale, carne.

    Un tavolo con le sedie anch’esse riempite con la corda di giummarra al centro della sala da pranzo.

    Questa era pure la stanza del lavoro di sarta e sotto la finestra l’antica macchina da cucire Singer, trovata e riparata da Don Matteo quando il Barone gli fece svuotare per sbarazzarsi un magazzino dove teneva schifiarii (superflue) arruggiunuti (piene di ruggine).

    Le altre due, venivano utilizzate in qualità di camere da letto.

    Una per i genitori, l’altra per i rimanenti componenti.

    Ma con una casa così grande, capitava ogni tanto di dovervi ospitare il mulo, mischineddru (poverino) dicendo Donna Caterina in quanto ne provava pena se fuori grandinava, pioveva o faceva molto freddo.

    Sotto al mento gli legavano un panaru (contenitore) cu la pruvenna (con il pasto) ed in qualsiasi momento se aveva fame masticava e di conseguenza, cacava.

    Trovava posto nella quarta condivisa a sua volta con tre galline le quali ripagavano i padroni a giorni alterni.

    Un giorno un uovo e l’altro due.

    Per i bisogni fisiologici o lavarsi, fuori all’aperto.

    In tutta la nazione Italia spirano con aitante impeto venti di guerra e nel 1937 mentre a Roma vengono inaugurati gli studi di Cinecittà in presenza di tutte le eminenti personalità del tempo, lo scrittore Tolkien pubblica per la prima volta il romanzo di Lo Hobbit e Walt Disney il primo lungometraggio animato, l’Etiopia chiede alla Società delle Nazioni, cioè l’organizzazione internazionale istituita dalle potenze vincitrici dopo la fine della Prima guerra mondiale allo scopo di mantenere la pace nel mondo, di inviare osservatori neutrali alle sue frontiere, temendo un’invasione italiana.

    Ma Mussolini il Duce della nazione intera, per dimostrare ai nazisti che hanno frattanto con le leggi di Norimberga, privato gli ebrei tedeschi della cittadinanza, invaso con le loro truppe la Polonia apprestandosi ad occupare tutti gli Stati europei alla Germania confinanti compresa la Svizzera da Hitler considerata il brufolo dell’Europa, dà prova al germanico dittatore alleato che anche l’Italia vuole divenire un grande Stato, decidendo di invadere la Libia.

    Si proclama protettore dell’Islam ed ergendosi sulle groppe del suo cavallo bianco, di cui non si conosce ancora adesso il colore, alzando la spada al cielo entra a Tripoli come un perfetto conquistatore.

    Subito dopo, senza nessuna dichiarazione di guerra ordina alle sue truppe di stanza in Eritrea, l’invasione dell’Etiopia, dando inizio ad un conflitto che conduce l’organizzazione delle Nazioni Unite a decidere di sanzionare economicamente e finanziariamente l’Italia come Stato.

    Tutti gli Italiani, pensando o credendo di essere divenuti in seguito a tale evento degli invincibili soldati, cominciano a fare azioni che dal dittatore ed invasore fino a Tripoli ed in Etiopia arrivato, possano essere considerati come un fatto eroico.

    Si fa la spia per ogni evento di cui si ha sospetto.

    Qualsiasi cosa ai capi del partito fascista viene riferito ed agli spioni, elogi, plausi e premi in grano vengono elargiti.

    Il Fascismo è divenuto il solo movimento politico riconosciuto ed essendo ateo e non credente il fondatore si scaglia senza pudore perfino contro la chiesa cattolica.

    Ma quasi tutta la nazione professa questa religione ed egli non può altro fare, per non indignare ulteriormente il popolo che dare l’indipendenza dall’Italia alla Santa Sede.

    Nasce in quegli anni lo Stato Vaticano, liberato dalla tirannia del Duce ma pure quella dal re che assente.

    Il movimento Nazionalista, si trasforma poco a poco in un regime totalitario, alternativo al capitalismo ma pur riconoscendo la proprietà privata, rifiuta i principi della democrazia che si era ormai avviata in tutta la nazione.

    Nascono le squadre d’azione Mussolini con lo scopo di intimidire e reprimere violentemente gli avversari e gli oppositori politici ma pure tanti inconsapevoli concittadini.

    Vengono imbavagliati i giornali di opposizione, chiusi i circoli politici e cancellati tutti i partiti, sciolte le organizzazioni da loro definite sovversive ed arrestati in modo selvaggio i sostenitori della libera democrazia.

    Con il varo delle leggi Fascistissime vengono perfino abolite le amministrazioni locali ed il Sindaco viene sostituito dal podestà, direttamente nominato dal dittatore.

    La pena di morte data a chi compie qualsiasi reato non gradito al despota.

    Perfino si dichiarano nemici della mafia ma non ebbero scrupoli di sorta nell’ordinare addirittura al bandito Giuliano l’assassinio degli antifascisti e di politici oppositori che di loro si sarebbero voluti liberare.

    Il tempo trascorreva in quella desolata terra, gli anni passavano e pian piano, l’uomo d’onore, con il nome conosciuto di Don Tano, cominciava a fare capolino nel destino del paese.

    Così un giorno, trovandosi per caso in un posto in cui mai avrebbe considerato di venire a trovarsi, si fece la primaria reputazione di paladino e galantuomo.

    Una mattina, durante il trasporto col carretto del padre genitore da Arancera fino al deposito stabilito dei liquami, Tano ancora giovane di età, gli chiede di scendere in quanto non ne sopporta la puzza. Il padre acconsente, ferma il carretto dicendogli di seguirlo a piedi. Poco a poco si allontana dal mezzo di trasporto al punto da vederlo scomparire dalla visuale.

    Con la testa tra le nuvole cammina.

    Rifletteva sui fatti accaduti in paese per la presa di posizione autoritaria dei fascisti nei confronti dei paesani e si chiedeva se non fosse arrivato il momento, di entrare a far parte di questo gruppo per avere un lavoro degno e decoroso.

    Pensava pure ad un espediente da attuare per finalmente conquistare l’amore di Donna Rosina.

    Don Tano si era infatuato di una bella e giovane ragazza del paese che in quel momento vedeva come una luminosa rosa che risplende in un giardino e nel creato intero.

    Aveva parlato con lei solo una volta, quando camminando per strada le vide cadere dal cesto un pane caldo appena sfornato.

    Lo raccolse da terra, vi soffiò sopra per togliere la polvere e chiamando la ragazza, glielo porse.

    Rimase colpito dal suo viso, dal suo sguardo.

    Donna Rosina era la figlia del becchino paesano.

    Ancora più umili le sue origini e se avesse detto al padre o alla madre che ne era innamorato, chissà quale sarebbe stato il destino di un amore così difficile da attuare.

    Non che i becchini fossero delle persone malvagie ma per l’ignoranza e la stupidità della gente, la scaramanzia suggeriva di tenerle lontane.

    La mente sussurrava strane cose, e mentre si trovava a ciò pensare, gli parve di sentire un tenue urlo.

    Ma il dubbio mutò subito in certezza, il grido divenne alto ma non più di tanto, la voce sembrava provenire dalla bocca di una donna che oltre a gridare pareva pure miagolare e ansimare.

    Affrettò i passi per dirigersi in direzione del provenire del vociare e del non da lui capito, modo di imprecare.

    Si nascose dietro un albero di mandorlo, osservò la scena e quello che vide, lo lasciò subito sgomento.

    Un uomo di circa quarant’anni, mentre nervosamente rivolgeva lo sguardo a destra e manca, teneva tra le braccia una donna e provava con la mano destra a tapparle la bocca prima e di alzare la sua lunga gonna dopo.

    Con la sinistra la palpava e tentava invano ad infilare, tra le gambe, il suo fagiano in un eremo del tutto naturale.

    Però ancora non intendeva se la donna dell’evento fosse o meno compiaciuta in quanto non mostrava alcun turbamento nel suo volto e a dirla tutta, di ciò pareva essere non proprio dispiaciuta.

    Sembrava non difendersi… o sì?

    Con una mano la donna, gli teneva stretta la faccia e le dita erano serrate tra il mento ed il collo.

    Ingannato dalla visione, dal fatto che entrambi si trovavano per terra senza nemmeno proteggersi dall’ardicula e li Spini Santi (ortica e cardi selvatici) lei sotto ed egli sopra, non consapevole di cosa realmente accadeva, si fece audace.

    Coraggioso e temerario nell’aggredire il maschio titolare di tanto ardimento. Prese un bastone in mano e si diresse con passo veloce nella direzione dell’uomo che prima aveva provato ad infilar il suo volatile fagiano dentro ad un posto, che le donne mantengono, riteneva, perennemente (…) nascosto.

    Impulsivo, gli diede un colpo in testa senza troppo stare a riflettere. Agile, veloce, preciso… ingenuo.

    Gliela spaccò.

    Nessuno dei due si rese conto dell’arrivo di Tano. Erano intenti all’ancora non capito modo di unirsi. Vide il rosso sangue uscire dalla ferita e colare a terra.

    La donna che pareva gridare prima aiuto, che imprecava e respirava con affanno, gli chiese subito: Cu sì tù (chi sei tu). Si ricomponeva, abbottonava la camicia mentre nervosamente le sue palpebre salivano e scendevano, balbettò alcune frasi.

    Iu mi stava… vulia, era n’terra e vidia… Sugnu maritata ma un pinsari a mali. Aiutasti me maritu a unn’adivintari curnutu.

    Don Tano aveva capito, di avere dato un grosso contributo nell’aiutare quella perfida madonna che faceva finta prima di non volersi far alzar la gonna.

    E nel contempo, apparentemente, negare ogni tributo nel far del di lei marito un gran cornuto.

    Tano, rispose con voce ferma.

    Lu figliu di lu carritteri. E vossia signura, cu siti.

    La donna, vedendo che l’uomo dal cranio spaccato giaceva a terra come se fosse trapassato, sembrò non curarsi del ragazzo e cercò di aiutare quel contadino sventurato.

    Chistu, disse, "è lu nostru capu camperi che è pure un conosciuto informatore di lu nostru partitu e del grande e unicu Duce.

    Io sugnu la muglieri di lu Barone Rampello."

    Comu? (come?).

    Chi lo avrebbe mai detto.

    Ma chi lo avrebbe mai pensato.

    Don Tano si era ritrovato a difendere la moglie del più ricco uomo del paese, grande proprietario di terreni coltivati a grano e cotone, uomo del fascio e reggente la squadra d’azione Mussolini locale per giunta.

    A difendere?

    Comunque, per quell’accaduto e per non avere concesso al Barone di divenire un cornuto, anche se uno spione dei dittatori colpì, si ritrovò ad essere da un momento all’altro l’eroe paesano e pure impudente ed avventato.

    Tutti parlavano del fatto.

    Gli uomini del paese lo invidiavano.

    Le donne sognavano di ritrovarsi in una simile situazione, pensando ad un fagiano notturno o mattutino.

    E Don Tano?

    Divenne da quel momento, da subito l’uomo fidato del Barone cornuto mancato, e dal fatto che l’informatore non era deceduto ma per lo stupro mancato, venne internato nel carcere paesano ed il ragazzo scagionato da ogni accusa.

    Si ritrovò da un giorno all’altro a badare in tutto e per tutto nelle terre del nobile fascista, in quanto per ricompensarlo il Barone gli chiese quale fosse la sua ambizione.

    Dalla ricerca di manodopera da impiegare per lavorare in quelle terre alla semina e al raccolto.

    Perfino si prodigava per cedere bene il prodotto agli acquirenti, cercando nella provincia intera il miglior compratore a cui vendere a un prezzo maggiore il frutto del lavoro.

    Questo era quello che cercava e in un batter d’occhio ci era riuscito con estrema rapidità.

    Barò, chiese Don Tano, oggi posso andare a Pisciacca con la cavalla ed altri due operai a guida dei carretti per vendere il grano che abbiamo finito di mietere e pure il cotone?

    Il Barone lo guardò e disse: Sì, vacci.

    Era davvero divenuto il primo uomo fidato del nobile.

    Ogni cosa che egli chiedeva, qualsiasi, veniva subito concessa. Subito eseguita, non prima di essere passato per un saluto dalla Baronessa che tanto si prodigò, insistendo, convincendo il marito a fargli assegnare l’incarico.

    E dopo averle alzato la gonna... partiva.

    Vent’anni, la promessa fatta dalla Nobile venne per intero mantenuta: Ha diri a tutti cà mi ittà n’terra contru lu me vuliri, ca iu gridava aiutu e tù chiddru chi vòi, avrai.

    Il mondo tra le mani, il figlio di un carrettiere diventato il primo uomo del cornuto mancato o divenuto.

    La Baronessa era sopra gli anta, capelli neri raccolti a tupè da un fermaglio di spagnola provenienza.

    Occhi grandi marroni ed un viso ancora piacente attraversato solo da poche rughe.

    Indossava spesso lunghe gonne di colore scuro e calzava ai piedi comodi stivaletti idonei al lavoro.

    Il fisico era ancora in buono stato, il seno quasi turgido ed i fianchi poco tondeggianti, con poco tessuto adiposo al tatto.

    Ma pur sentendosi ancora giovane nell’animo, non poteva soddisfare ogni ardire per le frequenti richieste amorose del ventenne, suo amato, coccolato come un figlio che non ebbe mai la fortuna di abbracciare. Era sterile.

    In paese tutti la conoscevano e si era fatta la fama di grande ed instancabile lavoratrice.

    Spesso si sbracciava ed andava ad aiutare i contadini che nei loro possedimenti lavoravano.

    Ne incrementava pure il ritmo di azione in quanto sarebbe stata una Vrioggna (vergogna) farsi superare da una donna.

    Oltre all’aiuto ogni tanto chiedeva pure, come seppe Tano in seguito, un piccolo tributo ai suoi aitanti uomini, preferendo quelli più in forma e discreti di tutta la scuderia.

    E ora con Tano aveva pure tra le mani... il più giovane fagiano.

    Rampello, dal canto suo, si diceva fosse divenuto con il tempo poco attivo sessualmente e questa diceria trovava fondamento sul fatto che la serva più bella di casa sua, ormai da oltre due anni come disse alle amiche ed alle altre addette alla servitù, non veniva molestata sessualmente.

    Era il più ricco latifondista di Arancera e forse della provincia di Tormento intera, all’epoca aveva superato i 50 anni ed ogni volta che un parente, un

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