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Gucci: Un impero del lusso made in Italy
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E-book321 pagine4 ore

Gucci: Un impero del lusso made in Italy

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Questo libro non vuole ricostruire semplicemente la storia della maison Gucci e, quindi, della saga familiare che fa da sfondo, ma anche, e soprattutto, indagare il mondo complesso del lusso, le trasformazioni del made in Italy, il concetto di alta moda e le dinamiche che sono alla sua base, colmando il vuoto lasciato nel 2012 da House of Gucci, da cui è tratto il film di Ridley Scott con Lady Gaga. Si raccontano gli splendori e le vicissitudini di quello che è uno dei marchi italiani più famosi al mondo: una storia che parte dal fondatore Guccio Gucci, dal suo primo laboratorio di cappelli di paglia, si dipana attraverso l’evoluzione della pelletteria toscana e la nascita del suo impero del lusso, per finire ai concetti radicali della moda contemporanea, in particolare il genderless, frutto recentissimo della creatività di Alessandro Michele, del quale protagonisti indiscussi sono personaggi dello spettacolo come i Måneskin e Achille Lauro, fornendo anche una riflessione sulle nuove dinamiche di mercato grazie al contributo di Deborah Lucchetti, coordinatrice della campagna Abiti puliti.
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita16 nov 2022
ISBN9788836162529
Gucci: Un impero del lusso made in Italy

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    Anteprima del libro

    Gucci - Marcello Albanesi

    GUCCI_copertinaEBOOK.jpg

    Marcello Albanesi

    GUCCI

    Un impero del lusso made in Italy

    Nella mia vita, negli anni, ho avuto la fortuna di essere stato aiutato,

    sostenuto da persone meravigliose, non solo di famiglia.

    La maggior parte di loro sono donne.

    Dalla Luna a Lucia Francesca Menna,

    da mia madre ad Alessia G. alla mia Lore-Lore,

    amatissima Loredana Sossai.

    A tutte loro e a chi ha sempre creduto in me, grazie.

    Introduzione.

    Non tutto è oro quel che luccica

    Intendo dichiararlo subito.

    Come autore sento la necessità di affermare in modo netto, spiegandone anche il motivo, che per narrare la storia della maison Gucci non è possibile evitare di intromettersi negli affari privati della famosissima famiglia. Non è pensabile affrontare l’argomento, scrivere una monografia su questo brand parlando solo di moda, solo di quel modello di borsa o di quel foulard o delle celeberrime scarpe da uomo. Le vicende familiari sono intrinsecamente connesse con lo sviluppo di questa azienda, ne fanno parte e non sono scindibili in nessun modo e proprio per questo sono stato costretto ad affrontarle. Mio malgrado perché, vedremo, non è tutto oro quel che luccica.

    Alcuni discendenti della grande famiglia, negli ultimi anni, si sono impegnati molto per far sì che l’immagine dei loro avi, proprio coloro che hanno letteralmente costruito l’impero Gucci, fosse il più possibile pulita, lustrando al meglio la loro facciata. Attraverso interviste rilasciate a importanti riviste e quotidiani, ospitate televisive, ma anche con semplici lettere aperte destinate ai giornali e qualche libro, hanno tentato una difesa – umanamente comprensibile ma non giustificabile – di quegli esponenti del ramo familiare che hanno contribuito a fare la storia della moda e del made in Italy.

    Esiste anche una cronaca giornalistica che nel tempo ha seguito passo passo le vicende dei Gucci, raccontandone luci e ombre. Una storia complessa, un’occasione per me anche per andare oltre il brand toscano e scandagliare quel mondo affascinante dell’alta moda e del lusso, così invitante, che fa proseliti e adepti in ogni dove – da sempre – e che, come una sirena, tenta di richiamare a sé chiunque l’ascolti.

    Non tutti ne hanno contezza ma Gucci nasce proprio come marchio di lusso sin dalle sue origini con prodotti in pelle esclusivi creati appositamente per quella fetta di società d’élite che amava acquistare oggetti costosi e preziosi. Avremo modo anche di capire come e se è cambiata nel tempo la percezione del lusso e le dinamiche su cui fa leva il mercato.

    Scrive Paola Pizza¹, psicologa della moda:

    La passione per il lusso è caratterizzata anche dal desiderio di auto ammirarsi come novelli Narciso, di godere di se stessi e dell’immagine di sé come appartenente a un gruppo esclusivo. Il lusso è una passione narcisistica e simboleggia la voglia di differenziarsi e apparire unici, migliorando la consapevolezza di sé. Due aspetti entrambi importanti. Da una parte desideriamo uscire vincitori dal confronto con gli altri, attraverso capi o accessori esclusivi con i quali identificarsi per sentirsi eccezionali. Contemporaneamente proviamo il desiderio di confrontarci con noi stessi, privilegiando le nostre emozioni. Desideriamo godere di una immagine positiva grazie a esperienze di acquisto coinvolgenti, divertenti, intriganti, uniche e speciali. Le dinamiche inconsce dell’acquisto di lusso sono l’introiezione, attraverso la quale l’oggetto (o il brand) diviene parte di sé, e la proiezione attraverso la quale parti di sé vengono proiettate sull’oggetto (o il brand). […] Come scrive Lipovetsky², «il lusso non è veramente tale se non riesce ad ascendere al rango di leggenda, e se non riesce a trasformare in mito senza tempo gli oggetti di consumo».

    Quale funzione e quale impatto può avere nella società il lusso? Cosa è il lusso? Quanto, questo, è frutto di operazioni di marketing che manipolando l’opinione pubblica riesce a creare – ad arte e a tavolino – l’oggetto oscuro del desiderio (perché – in fondo – cos’è il marketing se non una diavoleria in grado di creare un bisogno x affinché si possa vendere appositamente il prodotto y?).

    Quella dei Gucci è stata una famiglia unita, sì, ma essenzialmente per politiche aziendali ed è stata divorata – visto il patrimonio plurimiliardario – da invidie, gelosie, rivalità e da una dose incredibile di avidità e manie di grandezza, senza considerare i numerosi scandali e frodi fiscali. Un incredibile pot-pourri che portò l’azienda alla fatale parabola discendente e alla completa estromissione della famiglia dal marchio che aveva, lei stessa, creato e portato all’eccellenza con la totale cessione delle quote azionarie all’Investcorp. Con un certo azzardo, o vera esagerazione, potrei scrivere che le vicende dei Gucci possono ricordare gli intrighi degli imperatori romani: pur di acquisire i vertici del potere, pur di vedere consolidata la propria posizione, pur di accrescere i propri guadagni e le proprie ricchezze, tutto – ma proprio tutto – diventa lecito, complotti compresi.

    L’esigenza da parte di alcuni eredi Gucci di dare una strigliata e di lucidare l’immagine decisamente offuscata dei propri antenati è nata – in particolare – nel momento in cui tutta la stampa mondiale aveva dato un annuncio che rimbalzò veloce in tutto il mondo: uno dei registi più noti di Hollywood avrebbe diretto un film sulla loro famiglia. Ridley Scott, sì proprio lui, il genio di capolavori diventati autentici cult come Blade Runner, la saga di Alien, Il gladiatore, Hannibal e molti altri, avrebbe da lì a breve iniziato le riprese di House of Gucci, un adattamento cinematografico dell’omonimo libro – da cui è tratto anche il soggetto – della giornalista statunitense Sara Gay Forden. Il titolo completo dell’opera è piuttosto eloquente: House of Gucci: A Sensational Story of Murder, Madness, Glamour, and Greed, ovvero letteralmente: Casa Gucci. Una storia sensazionale di omicidio, follia, fascino e avidità, ma tradotto ufficialmente e liberamente come: Una storia vera di moda, avidità e crimine. Un volume di oltre quattrocento pagine diventato presto un best-seller e uscito per la prima volta ventidue anni fa.

    La prima edizione, con copertina rigida, è stata pubblicata da Harper Collins nel 2000. La versione tascabile è uscita nel 2001 con un nuovo epilogo. Poi l’audiolibro è uscito l’anno scorso con una postazione letta da me. Questo autunno è uscita con Custom House, un marchio di Harper Collins, la versione collegata al film, con una nuova postfazione con gli aggiornamenti sugli ultimi vent’anni. In Italia, la versione collegata al film è appena stata pubblicata da Garzanti.

    Dichiara la Gay Forden in un’intervista rilasciata per «VNY», «La Voce di New York», alla sua collega e amica Sally Fischer il 16 novembre 2021.

    Quello che emerge e sorprende – e lascia quanto meno perplessi – calandoci in questa storia del marchio e dell’omonima famiglia, è che quel genio creativo e imprenditoriale, che è stato la base importantissima e di inestimabile valore del successo della maison, lasciò ben presto il posto alla bulimia di potere e all’estrema avidità dei protagonisti.

    Inizialmente tra i maggiori punti di forza di questa azienda c’era il suo essere a conduzione familiare secondo i principi ferrei patriarcali di inizio secolo, tramandati dal fondatore della maison Guccio Gucci e che miravano – per questo, inevitabilmente – a escludere le figure femminili nella gestione dell’azienda.

    Guccio aveva origini fiorentine. La povertà improvvisa aveva segnato la sua giovinezza, quella stessa che condivideva la stragrande maggioranza degli italiani tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. Era stato un emigrato, giovanissimo, e quando rientrò a Firenze aveva deciso di dare una svolta alle proprie sorti mettendo a frutto quanto aveva potuto sperimentare durante quell’esperienza che gli cambiò letteralmente la vita.

    Guccio non era un artigiano, non lo era mai stato e mai lo divenne, ma aveva le doti ideali per diventare un grande imprenditore, quale in effetti fu. Aveva intuito, intraprendenza, coraggio e una smisurata ambizione che cercò di trasmettere prima ai figli e poi ai nipoti, alimentando tra loro una perenne e sfiancante competizione. Una famiglia in origine, dunque, comune come tante in Italia questa dei Gucci, al di là delle invenzioni costruite a tavolino per alimentare il proprio mito. L’enorme successo dell’impresa, infatti, fece crescere negli anni il desiderio di ricreare la propria genealogia costruendosi ad arte un lignaggio con tanto di stemma che verrà perfezionato e arricchito nel corso del tempo. Così i Gucci iniziarono a dire che la loro era una famiglia antichissima, risalente al Medioevo, una volta erano sellai, una volta erano nobili… Un fatto che potrebbe anche essere divertente se non fosse che identifica e mette ben a fuoco quella continua ricerca di un’ostentata e spocchiosa esclusività, un eccesso epico, da parte dei Gucci.

    È l’Enciclopedia Treccani a scrivere nel Dizionario Biografico, occupandosi di Aldo Gucci, quanto segue:

    Sembra che l’attribuzione delle origini familiari a un ceppo di sellai impiegati presso le corti toscane nel Medioevo – secondo una leggenda particolarmente accreditata presso la clientela internazionale – sia stata il frutto di un eccesso epico [corsivo dell’autore, ndr] in tale direzione.

    Sara Gay Forden, invece, riporta direttamente le parole di Grimalda, la prima figlia di Guccio, che si tolse un po’ di sassolini durante un’intervista, lei che fu liquidata dall’azienda familiare con un pacchetto forfettario e che mai aveva digerito quell’imposizione patriarcale e ingiusta. Parole che saranno poi confermate e rafforzate dagli studi storici della dottoressa Fiorentini.

    «Voglio che si dica la verità», dirà Grimalda a un giornalista nel 1987. «Noi non siamo mai stati fabbricanti di selle. I Gucci vengono da una famiglia di San Miniato». Stando a un libro di storia delle famiglie fiorentine, i Gucci di San Miniato erano attivi già nel 1224 come avvocati e notai, anche se è probabile che la storia sia stata abbellita, in seguito, sostiene la storica Fiorentini. Lo stemma della famiglia raffigurava una ruota azzurra e una rosa su uno stendardo d’oro che fluttuava sopra delle strisce verticali rosse, blu e argento. Roberto [Roberto Gucci, nipote di Guccio, il secondo figlio di Aldo, nda] spese una fortuna in ricerche araldiche e inserì la rosa e la ruota – che si dice simboleggiassero la poesia e il comando – nel logo dell’azienda. Il logo originale rappresentava un fattorino che portava una valigia in una mano e una morbida borsa da viaggio nell’altra. Con il crescere del successo, l’umile facchino venne sostituito da un cavaliere in armatura.

    Impareremo a conoscere i vari personaggi protagonisti delle tante vicende di questo marchio che ha fatto la storia nel mondo del lusso prima in Italia e poi nel mondo, compresa quella che è passata alla cronaca come l’omicidio Gucci.

    Mi permetto qui di sintetizzare, concludendo: nonostante i Gucci vengano dipinti con sfumature che sembrano degne di un dramma teatrale, questa saga familiare non ha nulla di shakespeariano, nulla di veramente tragico. Piuttosto, ci troviamo di fronte a un melodramma dal sapore decisamente patetico di una famiglia che se da un lato ha saputo mettere a frutto creatività e ingegno, dall’altra si è scavata la fossa da sola. È noto che la prestigiosa Harvard Business school consideri la storia del brand Gucci un caso interessante da analizzare e far studiare ai suoi studenti affinché si possano comprendere quali siano gli errori da non fare mai in un’impresa, soprattutto se questa è a conduzione familiare.

    House of Gucci non è certo il primo film che il cinema dedica al mondo della moda. Negli ultimi anni abbiamo avuto modo di godere della vita ricostruita su celluloide di artisti del calibro di Coco Chanel e di Yves Saint Laurent, per esempio. Su quest’ultimo nel 2014, a pochi mesi di distanza, ne sono usciti addirittura due di biopic: uno a firma di Jalil Lespert (a gennaio) e l’altro (a maggio) di Bertrand Bonello. Proprio il lavoro firmato da Bonello è stato al centro di una polemica – che non si è protratta però all’infinito come il caso del film di Ridley Scott – da parte dello storico compagno dello stilista francese, Pierre Bergé:

    […] forse perché è trapelata una trama troppo concentrata sulla dipendenza dalla droga del couturier francese, e per tutta risposta ha dato accesso agli archivi della maison per il film di Lespert. I confronti, ovviamente, sono anche sul cast. Per il film approvato dalla maison vediamo infatti protagonisti Pierre Niney nei panni di Yves e Guillaume Gallienne nei panni di Bergé, mentre nel film di Bonello il cast sembra più appetibile anche fuori dalla patria: Gaspard Ulliel è Yves Saint Laurent, mentre Jérémie Renier interpreta Bergé: sembra dunque chiaro che entrambi i film metteranno al centro delle vicende l’amore e il sodalizio lavorativo tra i due. Un’unione estetica oltre che sentimentale, già raccontata nel documentario Yves Saint Laurent: Amour fou, dove Bergé raccontava in prima persona la vendita all’asta della splendida collezione d’arte che i due avevano creato insieme in anni di viaggi e ricerche.³

    Qualsiasi personaggio famoso prima di essere tale è – vale la pena di ricordarlo in un tempo storico come il nostro, liquido e con un bisogno esasperato di trovare degli eroi, dei miti moderni, di creare leggende attuali semplicemente un essere umano con tutte le proprie luci e ombre, con i propri punti di forza e debolezze.

    Questo vale per tutti, ovviamente, i Gucci compresi.

    Ma è anche vero che il successo planetario del film sui Gucci è impari rispetto alle altre pellicole appena citate. Del resto, è Lady Gaga, icona mondiale del Pop, la protagonista assoluta del film. È lei a interpretare Patrizia Reggiani Martinelli in Gucci e già solo lei, da sola, non poteva che suscitare curiosità da parte di tutta la stampa, oltre a scatenare tutti i suoi fan. Infine, credo sia doveroso sottolineare il tempo storico in cui è stato girato il film House of Gucci, ovvero in pieno lockdown durante la prima ondata della pandemia da Covid-19. Sono tanti gli ingredienti che hanno, quindi contribuito al successo del film e da questo anche la stessa casa di moda ne ha tratto un considerevole vantaggio. Tutto è valso a fare pubblicità al film e quindi anche alla stessa maison e – per forza di inerzia – anche agli eredi della famiglia. Del resto, è vero che nel bene o nel male, l’importante è che se ne parli, e nel nostro mondo contemporaneo globalizzato la visibilità è tutto per poter esistere. L’aforisma di Oscar Wilde così noto e come viene ripetuto non è esattamente quello autentico che l’autore fa dire al protagonista di uno dei suoi romanzi più celebri, Dorian Gray. È Maria Giovanna Oggero, digital mentor e business coach, a sottolinearlo nel suo sito internet⁴ dove spiega l’importanza della visibilità per avere successo.

    […] per bocca del suo straordinario personaggio Dorian Gray: «There is only one thing in the world worse than being talked about, and that is not being talked about». Come spesso accade con le traduzioni, queste non rendono fino in fondo il significato della frase. In questo caso meglio restare letterali: «C’è una sola cosa al mondo peggiore del far parlare di sé, ed è il non far parlare di sé». […] In pubblicità la citazione è quanto mai azzeccata, funziona senza ombra di dubbio. Basti pensare ai molti slogan, spesso orribili, che sono diventati dei tormentoni. Eppure ci entravano in testa e a quel punto l’associazione con il prodotto sponsorizzato era indelebile. Lo scopo di farlo conoscere era perfettamente riuscito. Lo si ricordava, lo si criticava forse, ma intanto era sulla bocca di tutti e riempiva gli scaffali dei supermercati! Le situazioni cambiano con il passare degli anni e dei decenni e il marketing ne è una lampante dimostrazione. Stando alla traduzione letterale dell’aforisma, è assolutamente vero che la cosa peggiore è non far parlare di sé. Un’azienda, un’attività professionale, una qualunque forma di associazione che vuole affacciarsi sul mercato, ha assoluto bisogno di far parlare di sé, di farsi conoscere, di diffondere il proprio marchio e la propria mission, di ricevere il feedback dei potenziali clienti/utenti/simpatizzanti. Se però prendiamo in esame la traduzione più diffusa, a quel punto dobbiamo fermarci perché è assai peggio che se ne parli male piuttosto che non se parli. Trasmettere un’immagine negativa, farsi una cattiva reputazione, essere penalizzati, per esempio da Google, ovvero declassati come posizionamento sul motore di ricerca più usato al mondo, richiede un notevole sforzo per poi recuperare il terreno perduto, molto maggiore di quello necessario per portare gradualmente la propria presenza online a un’immagine positiva. Certo è che se non sei visibile, non esisti e infatti bisogna esistere, ma è altrettanto vero che le regole della Brand Reputation sono molto cambiate con l’avverto del digital marketing. La maggiore facilità di comunicazione online, l’affollamento nei social network, la velocità di diffusione delle notizie, fa sì che si amplifichi la reputazione della marca, sia essa positiva o negativa. Quindi non è più la comunicazione che arriva dall’azienda il punto centrale, ma come questa viene recepita e come e quanto si diffonde. Insomma, oggi occorre parlarne, parlarne tanto e parlarne bene!

    Proprio per questo oggi è importante che le aziende si conformino al comune sentire e alla nuova percezione di un argomento estremamente attuale, la sostenibilità. Vedremo dunque come anche Gucci in questi ultimi anni si sia adeguata a un rigoroso stile ecosostenibile che documenta attraverso uno dei suoi siti.

    Dunque, quello che andrete a compiere leggendo queste pagine si profila come un vero e proprio viaggio alla ricerca di una sincera narrazione della storia di un marchio famoso e di temi che lo riguardano da vicino e che non possiamo più ignorare.

    L’assordante eco di una pellicola

    Metà febbraio 2021.

    È trascorso quasi un anno dall’inizio della pandemia del ventunesimo secolo scatenata inizialmente in Cina. Il Covid-19 ha fatto vacillare ogni certezza. Il mondo è ancora in piena lotta con una realtà difficile da accettare in questi tempi moderni. La sindrome respiratoria acuta grave Coronavirus-2 (ovvero la malattia associata al virus SARS-CoV-2, mai identificato nell’essere umano prima del 2019) ha sconvolto ogni equilibrio economico oltre che sanitario e sociale, ha seminato dolore e morte e una diffusa paura come in qualsiasi film di fantascienza distopica. L’Italia è stato il primo Paese occidentale a essere colpito dal virus in modo tanto violento e il primo ad aver avuto (era l’inizio del mese di marzo del 2020) misure restrittive rigidissime da parte del governo e che saranno presto note con un termine inglese finora mai usato dalla massa, il lockdown. In breve tempo le immagini delle città italiane completamente vuote, con le strade delle grandi città senza il classico e normale traffico assordante cui siamo abituati, con la natura che si prendeva la sua rivincita facendo crescere l’erba tra i sampietrini (a Roma) e sui marciapiedi, ebbene quelle immagini non saranno più un’eccezione nel mondo occidentale. Presto anche gli altri Paesi metteranno in pratica le stesse misure di contenimento e quella vista così eccezionale diverrà presto parte anche della loro realtà e quotidianità. Quelle immagini se da una parte rivelavano una bellezza che toglieva il fiato proprio per la loro incredibile unicità, numerose sono le fotografie e riprese video irripetibili (meravigliose quelle fatte con i droni), dall’altra avevano il potere di amplificare – come in un gioco di specchi infinito – quel sentire di smarrimento e quel vuoto esistenziale che si era spalancato all’improvviso e che era percepibile a distanza, ovunque, nonostante la clausura forzata nelle proprie abitazioni. Poi, con l’arrivo del bel tempo e del caldo estivo, subentrò l’inevitabile voglia di riscatto e di ribellione, supportata anche dalla convinzione che la bella stagione avrebbe (aveva) indebolito il virus. Era – quello – il momento del famigerato e cacofonico "non ce n’è covvidi!"

    L’arrivo di quella prima estate in piena pandemia aveva costretto gli italiani a delle ferie anomale a cui però, nonostante i rischi, in molti non avevano rinunciato. Quelle vacanze furono, anzi, incentivate con diversi tipi di bonus da parte del governo. I notiziari iniziarono a mostrare lunghe file nei luoghi di villeggiatura più noti, file di persone con o senza la mascherina al mare per poter accedere agli stabilimenti dopo aver fatto la dovuta prenotazione senza la quale non sarebbe stato possibile accedervi. Nonostante la situazione realmente fuori dall’ordinario, tutto era diventato nuovo, ci si sforzava di vivere una vita normale. Così sarà anche nei mesi successivi, autunnali.

    Poi con l’inverno e il Natale del 2020 con un’inevitabile acuirsi dei contagi, le restrizioni tornarono ad affliggere la società tutta. Il nostro Paese è oramai una cartina geografica che mostra le regioni in un mutare continuo di colori in base al numero dei contagi, nuove misure di sicurezza: zone rosse, arancioni, gialle. Il 2020 si è chiuso con la mappa dell’Italia tutta colorata. L’ingresso del nuovo anno, un tanto atteso 2021, vede le zone montane meravigliosamente innevate ma con gli impianti sciistici ancora forzatamente chiusi.

    Questa breve introduzione per ricordare come l’umore degli italiani fosse pesantemente fiaccato da un anno difficile e, in molti casi, tragico. Quel dannato virus muta in fretta e fa di tutto per assicurarsi la propria sopravvivenza. Le nuove varianti fanno ripiombare il Paese in quarantene per contrastarne la diffusione.

    Dunque, è in un contesto come questo che iniziarono ad apparire le notizie sulla stampa, sia quella cartacea sia online, riguardanti l’arrivo a Roma di Lady Gaga.

    I fan impazziscono ma le misure di contenimento non permettono quelle manifestazioni tipiche da cheerleader dal vivo che di sicuro ci sarebbero state in ben altre circostanze. Centinaia e centinaia di ammiratori urlanti avrebbero intasato le strade, il servizio d’ordine avrebbero faticato a tenerli a bada mentre ognuno avrebbe riempito il proprio smartphone con foto e video non appena la star di Hollywood avrebbe fatto il suo ingresso in scena. Ma il lockdown non permette niente di tutto questo e i fan posso scatenare il proprio entusiasmo, così frustrato, solo facendo rimbalzare su qualsiasi social a disposizione le notizie che riescono a trovare in rete arricchendole da tutta una serie di fotografie prese da internet o dal proprio archivio personale. È una gara a chi ne sa di più, una costante ricerca di aggiornamenti, ma senza vincitori. Questo, che è pur solo un evento futile, riesce però a distrarre dalla situazione gravosa che si sta vivendo e offre una ventata di spensieratezza e di leggerezza. In fondo è quello che ci vuole, è quello che serve, perché ogni giorno si è bombardati da notizie sfiancanti di ogni tipo sulla strage che il Covid continua a fare in tutto il mondo.

    Ridley Scott, finalmente, dopo una lunghissima gestazione e subito dopo aver completato la post- produzione del suo ultimo lavoro (The last duel) è pronto per girare l’atteso film incentrato sulla famiglia Gucci. Un film che si preannuncia già un successo prima ancora del ciak d’inizio, tanto il polverone che è stato sollevato dal battage pubblicitario non solo dalla casa di produzione, ma anche dalla stessa famiglia Gucci che in più occasioni non ha mancato di sottolineare il proprio dissenso e spiccata contrarietà nel non essere stata coinvolta.

    È Patrizia Gucci – una delle figlie di Paolo Gucci, interpretato da Jared Leto nel film in questione – a raccontare quanto accaduto, attraverso un capitolo aggiunto appositamente per la nuova edizione del suo libro, edito la prima volta nel 2015, Gucci. La vera storia di una dinastia di successo raccontata da una Gucci doc⁶, dove narra le vicende della famosa famiglia dal proprio punto di vista. La signora Gucci ci tiene al nome glorioso della famiglia (del resto quel doc nel titolo è più eloquente di qualsiasi considerazione che si possa fare) e fa di tutto per difenderne la memoria e si affanna nel tentativo di restituire lustro a quel cognome importante; si impegna molto in questo anche partecipando in più occasioni come ospite in televisione dove, con l’occasione, pubblicizza anche il suo libro.

    Dalle prime pagine del suo lavoro apprendiamo che:

    Era il maggio del 2003. Mia sorella Elisabetta e io fummo chiamate da mio zio Roberto, il fratello di mio padre. Ci invitava a incontrare Giannina Scott Facio, moglie di Sir Ridley Scott, che lo aveva contattato telefonicamente. Incuriosite dalla proposta, e dalla fama di

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