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Ai piedi di Venere
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E-book431 pagine6 ore

Ai piedi di Venere

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Info su questo ebook

In questo seguito di "Il papa del mare", Ibáñez ci trascina nella Roma del Quattrocento. Se nel precedente romanzo il ruolo di narratore – alla stregua di una novella Sherazade – era riservato al poeta Claudio Borja, stavolta è suo zio, Baltasar Figueras, a raccontare della turbolenta ascesa della famiglia Borgia in un'Italia rinascimentale. La Città Eterna, dopo un millennio di sonno, sembra essere ritornata ai fasti dell'antichità, inchinandosi nuovamente ai piedi della dea Venere, in un turbine di edonismo e di amore per la vita. Romanzo vivido, movimentato e appassionante, "Ai piedi di Venere" vi conquisterà con la sua prosa brillante e col fascino di una storia immortale... -
LinguaItaliano
Data di uscita11 ago 2022
ISBN9788728411384
Ai piedi di Venere
Autore

Vicente Blasco Ibáñez

Vicente Blasco Ibáñez (1867-1928) was a Spanish novelist, journalist, and political activist. Born in Valencia, he studied law at university, graduating in 1888. As a young man, he founded the newspaper El Pueblo and gained a reputation as a militant Republican. After a series of court cases over his controversial publication, he was arrested in 1896 and spent several months in prison. A staunch opponent of the Spanish monarchy, he worked as a proofreader for Filipino nationalist José Rizal’s groundbreaking novel Noli Me Tangere (1887). Blasco Ibáñez’s first novel, The Black Spider (1892), was a pointed critique of the Jesuit order and its influence on Spanish life, but his first major work, Airs and Graces (1894), came two years later. For the next decade, his novels showed the influence of Émile Zola and other leading naturalist writers, whose attention to environment and social conditions produced work that explored the struggles of working-class individuals. His late career, characterized by romance and adventure, proved more successful by far. Blood and Sand (1908), The Four Horsemen of the Apocalypse (1916), and Mare Nostrum (1918) were all adapted into successful feature length films by such directors as Fred Niblo and Rex Ingram.

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    Anteprima del libro

    Ai piedi di Venere - Vicente Blasco Ibáñez

    Ai piedi di Venere

    Translated by Carlo Boselli

    Original title: A los pies de Venus

    Original language: Castilian Spanish

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1931, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728411384

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    INTRODUZIONE

    Nel presentare in veste italiana questo secondo romanzo « rievòcativo » di Blasco Ibañez, che fa sèguito al Papa dèi Mare — anche quest’ ultimo tradotto da me e pubblicato dallo stesso editorè A. Barion — mi richiamo, anzitutto, per quanto concerne la vita, e le opere dell’autore, all’introduzione al citato Papa del Mare, da me scritta circa un anno prima della quasi fulminea sua morte, avvenuta com’è noto a Mentone il 28 gennaio 1928, mentre in pieno fervore di attività egli attendeva a un nuovo romanzo contemporàneo, La giovinezza del mondo, che secondo lui avrebbe dovuto essere il suo capolavoro definitivo.

    Ai piedi di Venere, analogamente al Papa del Mare, ha un moderno intreccio erotico innestato sulla ricostruzione galante e romanzesca, bellica e multicolore, della Roma dei Borgia, con la quale Villustre scrittore spagnolo, tirando naturalmente Vacqua al suo mulino, tenta di riabilitare la memoria di quegli spagnoli tristemente famosi.

    E anche qui troviamo gli stessi pregi e gli stessi difetti del romanzo precedente, cioè magistrale plasticità e drammatico interesse, ma in pari tempo notevole incompiutezza stilistica, oltre a gran copia di affermazioni tendenziose e di giudizi partigiani intorno alla nostra gente, come già sommariamente avvertii nell’introduzione stessa al Papa del Mare, e in modo più particolareggiato in una mia recensione apparsa nei « Libri del Giorno », fascicolo del dicembre 1926, pagine 662-663.

    I lettori non digiuni di storia rileveranno facilmente le inesattezze e le incongruenze di carattere storico in cui il Blasco Ibañez viene trascinato dalla foga con cui strenuamente difende i suoi antichi compatrioti.

    Comunque credo opportuno di segnalarne le principali, nel sano intento di mettere in guardia i profani contro certe camuffazioni della storia.

    Non si può disconoscere che VItalia, sulla fine del secolo XV e» intorno al principio del XVI, versasse in una grave crisi morale, da cui i migliori stessi disperavano di trovare un’uscita.

    L’acme di codesta crisi appare proprio nei primi del ’500, quando la cultura del Rinascimento era giunta alla sua maggior perfezione, mentre la rovina politica della nazione era Rivenuta ormai irreparabile. ) Ne sono predicatori lamentosi quelli che sogliono protestare contro la depravazione dei costumi; ma è lo stesso Machiavelli che nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, cap. 12, dice testualmente: « Abbiamo, adunque, con la Chiesa e con i preti questo primo obbligo, d’esser diventati senza religione e cattivi ». Quel « cattivi » ha il significato di « corrotti ».

    Ma se ciò è innegabile, è sènza dubbio esagerato, e in parte antistorico, il quadro tracciato dal Blasco Ibañez in questo suo libro, specialmente a pag. 41-44.

    Il Machiavelli, nell’importantissimo prologo della Mandragola, ascrive la visibile depravazione morale alla maldicenza universale, che aveva trovato speciale ricettacolo alla corte pontificia. Se poi si aggiunge il rancóre generale contro il dominio dei preti e la miseria ineffabile del popolo, si comprende quanto fosse facile trovar materia per mettere in canzone i potenti ed attribuir loro ogni nefandezza. A poco a poco le dicerie si facevano strada nella bocca di tutti, e assai spesso la più schietta virtù era quella che si tirava addosso le insinuazioni più maligne. Cosi, ad esempio, lo storico Paolo Giovio narra dapprima le sue storielle, soggiunge che non vi crede, ma con un’aria da far intendere che qualche cosa di vero debbano contenere.

    Ora è evidente che le fonti storiche di Blasco Ibañez sorto impure, e come tali, forse, cercate a bella posta per far rivivere un’immagine del nostro cinquecento a suo uso e consumo, a scopo di romanzo.

    Se l’autore avesse conosciuto a fondo La Civiltà del Rinascimento di Jacopo Burckhart e La Renaissance del De Gobineau, non sarebbe incorso in fondamentali errori di interpretazione.

    L’umanista Lorenzo della Valle, detto il Valla, più volte citato nel corso di questo romanzo, scrisse De tribus impostoribus e De voluptate (De vero bono), che il Blasco Ibañez intitola rispettivamente I tre impostori e Del piacere (v. pag. 133), attribuendo poi inesattamente al Valla stesso dottrine epicuree, mentre quegli si limitò a combattere la dottrina degli Stoici con quella d’Epicuro, dichiarando apertamente la sua simpatia per coloro che affermavano di aver diritto all’indulgenza per gli appetiti sensuali che la natura ha dato all’uomo. Ma era questo epicureismo? La dottrina di Epicuro è, come ognun sa, ben più nobile ed alta.

    L’esibizionismo carnale delle donne italiane al tempo della calata di Carlo VIII (v. pag. 207-208) e un quadro di fantasia storica, o di storia romanzata. È naturale che ad ogni invasione seguissero inevitabili immoralità; ma non bisogna confondere l’esercito, poco numeroso, delle « figlie della gioia » comune di tutti i tempi, con la grande maggioranza delle donne oneste italiane, tra le quali parecchie soffrirono la violenza dei francesi.

    D’altra parte si tratterebbe delle « belle signore ». Dove trovarle? Nell’aristocrazia certamente, o nella grassa borghesia. Ma la gran massa delle donne nostre fu di irreprensibile onestà. Si confrontino le storie più spassionate e si tenga conto di quella maldicenza di cui abbiamo fatto cenno a proposito della corruzione italiana del tempo.

    Pure a pag. 208 l’autore fa dell’ironia sulla facilità con cui le milizie di Carlo Vili invadevano l’Italia senza colpo ferire, e dice che da Milano a Firenze erano anzi accolte festosamente, guardandosi bene dal riferire il risoluto contegno dei magistrati fiorentini e il nobile gesto e la celebre frase di Pier Capponi.

    Il Blasco Ibañez attribuisce a Borgia (v. pag. 303) un pensiero, un disegno, una visione di Machiavelli, il quale nell’ultimo capitolo del « Principe » esorta il suo Principe a non lasciar passare l’occasione « acciò che l’Italia dopo tanto tempo, vegga un suo redentore », che per Nicolò era… Cesare Borgia.

    Il ritratto di Papa Giulio II, tracciato a pag. 362 e altrove, non eorrisponde al vero. È sempre lo spagnolo Blasco Ibañez che difende gli spagnoli Borgia. Si potrebbero parafrasare i noti versi del nostro Carducci: te Amore di terra natia — per te tutto il cuore mi duol ». In realtà Giulio li fu l’uomo che salvò il papato, portando all’attuazione de’ suoi progetti tutta l’erlergia di carattere che non si fiacca davanti ad ostacoli. E cominciò anzitutto a rendersi immune dalla piaga del nepotismo, il che è un gran titolo di gloria rispetto di suo antecessore. Comunque fu un uomo potente ed originale, che « non soffocò in sè alcuno sdegno, ne seppe nascondere nessun affetto ». Preso nel suo insieme, fu il « pontefice terribile » invocato da tutti, che ebbe, fra l’altro, la forza di proibire la simonia nell’elezione del Pontefice. Questa l’immagine vera di Giulio II, cioè l’immagine antitetica a quella che ne dà il Blasco Ibañez.

    A pagina 187 e altrove, l’autore accenna al Gre-gorovius e ad altri storici che avrebbero « provato » la falsità dei delitti e dei vizî attribuiti ai Borgia, specialmente a Lucrezia. Ma come è stato recentemente dimostrato, i documenti prodotti dal Gregorovius per riabilitare la figura di Lucrezia, o sono stati dallo storico male interpretati, o piegati alla dimostrazione di una tesi preconcetta.

    Qua e là ricorrono poi nel libro (p. es. a pag. 152198-394) fugaci allusioni a Cristoforo Colombo, con le quali facendosi eco delle mendaci teorie del Vig-naud, del Pereyra, dell’André e di altri denigratori del grande navigatore ligure, l’autore ne mette in dubbio la nazionalità o tenta di sminuirne i meriti; teorie che egli sviluppa poi in modo più ampio nei due ultimi volumi di questa serie, di « romanzi rievocativi »: In cerca del Gran Kan e Il Cavaliere della Vergine ¹ . Su tale argomento mi limito a rimandare il lettore alle note pubblicazioni colombiane dei nostri De Lollis e Caddeo, e all’ottima monografia dello Chàrcot: Christophe Colomb vu par un marin, in cui lo scienziato francese ci dà una magistrale e nobile difesa del Grande Ammiraglio.

    Carlo Boselli.

    PARTE PRIMA ²

    L’ULTIMO CROCIATO

    I.

    LE GIOIE E LE CONTRARIETÀ DEL CAVALIER TANNHÄUSER NELLA VENUSBERG.

    Nel guardare con aria distratta la data dei giornali appena arrivati da Parigi, Claudio ebbe per la prima volta nozione dell’esistenza del tempo.

    Sin allora aveva condotto una vita irreale, libera dalla schiavitù delle ore come dalle imposizioni dello spazio. Tutti i giorni erano uguali per lui. Non vi veva, ma si lasciava scivolar già tranquillamente lungo un declivio dolce, senza alternative e senza scosse. Il giorno presente era bello quanto il precedente e senza dubbio sarebbe uguale al prossimo domani. Ma ricordandogli la data dei giornali un’altra data identica custodita nella sua memoria, egli fece un calcolo del tempo che aveva trascorso durante quella dolce inerzia, unicamente paragonabile a quella degli esseri che nei racconti arabi rimangono immobili, nelle città incantate, come paralizzati da magico scongiuro.

    Un anno!… Era già passato un anno da queir avvenimento che divideva la sua esistenza, nello stesso modo che i fatti più importanti dividono la Storia, servendo di inizio ad una nuova epoca. Ricordava la sua sorpresa nel rovinoso castello papale di Pègni-scola, vicino al Mediterraneo, quando gli apparve-ina-spettatamente Rosaura Salcedo. La bella vedova era andata colà a cercarlo senza saper perchè, credendo di agire così mossa dalla nòia, e movendosi in realtà sotto l’impulso d’un amoroso istinto, non ben, definito ancóra, che lottava per acquistar forma. Poi rammentava l’uragano, da lui chiamato « provvidenziale », il rifugio di entrambi in un aranceto presso Castellón, la notte trascorsa nella casa di una contadina, che li aveva presi per marito e moglie.

    Non avrebbe mai rivisto» quella povera casa, e tuttavia essa si inalzava nel suo ricordo più grande e più maestósa di tutti gli edifici storici che aveva ammirato ne’ suoi viaggi. Più non rammentava il nome di quell’umile donna che aveva inconsciamente agevolato il loro avvicinamento; ma la sua figura persisteva nella memòria di lui con quello splendore dolce e attraente che suole avvolgere i grandi favoreggiatori del nostro passato.

    A partire da quella notte, il mondo cambiava per Borgia. Forse erano immutati gli esseri e le cose; ma era lui cambiato, vedendo così trasformate le condizioni della sua vita, trovando un nuovo incanto in ciò che prima considerava monotono e ordinario.

    Aveva scopèrto, come tutti gli innamorati soddisfatti della propria felicità, che la nostra esistenza è più ricca di poesia di quanto non immaginiamo in giorni di pessimismo. Volte le spalle al resto del mondo, non trovava altra vita degna di interesse all’infuori di quella della donna amata. Insieme avrebbero percorso la loro strada per tutto il resto della loro esistenza; e si noti che entrambi, essendo giovani, vedevano il futuro come un orizzonte senza limiti.

    Viaggiarono durante i primi mesi, andando là dove usa andare la gente di quella società in cui era fin allora vissuta Rosaura, e procurando nello stesso tempo di fare vita appartata. Si valsero della ferrovia per fuggire da quell’aranceto che dovevano poi tanto ricordare. Aspiravano a uno scenario meno rustico per il loro amore. Rimasero a Barcellona in attesa che lo chauffeur avesse riparato l’automobile in un’officina di Castellón; poi se ne tornarono in Francia, come se, passato quell’uragano nell’aranceto, non avessero ormai più potuto pensare ad altro che a se stessi. La vedova argentina si mostrava a un tratto assolutamente disinteressata per le bellezze della costa spagnola e per la storia romanzesca del papa Luna.

    Furono nuovamente ospiti di Marsiglia, ma stavolta senza i dubbî e le rinunzie inattese di qualche settimana innanzi. Claudio passeggiò finalmente per il giardino in declivio che metteva in comunicazione l’elegante casa di Rosaura, sulla Costa Azzurra, con i bianchi dirupi di aspro marmo che le onde marine scavavano senza posa.

    La solitudine, grata nei primi giorni, cominciò ad esser presto di peso a Rosaura. Ella, così desiderosa di mantenere la propria reputazione e il proprio rango sociale, finì col mostrarsi la più audace, come se si fosse compiaciuta di esibire al cospetto delle sue intime amiche quel suo innamorato, più giovane di Urdaneta.

    — Con discrezione, tutto si può fare nel nostro mondo — diceva ella come per convincere Borgia, timido e prudente.

    Viaggiando insieme e fingendo di vivere separati in uno stesso albergo, passarono i mesi estivi a Biar-ritz; poi a Venezia e nelle magnifiche stazioni alpine del Trentino. Claudio non poteva ricordare in modo esatto dov’era stato e che cosa avesse visto. Dovunque andasse, mare o montagna, città o paesaggio, tutto gli appariva come riflesso nelle pupille di Rosaura; ed egli apprezzava i diversi luoghi secondo i commenti di lei e la placidità o l’eccitazione dei suoi nervi.

    Gli sembrava in certi momenti che l’atmosfera cantasse intorno alla sua persona. I suoi piedi sentivano l’impressione di un suolo elastico. Aveva la certezza di poter saltare e mantenersi in aria, contro ogni legge fisica, come se si trovasse su di un altro pianeta. Viveva in perpetuo sogno, e qualche volta, al mattino, svegliandosi in una stanza d’albergo, lontana da quella occupata da lei, per mantenere certe convenienze che il più delle volte riuscivano inutili, si chiedeva con inquietudine: «Sono realmente l’amante di Rosaura? Non si tratta forse di un sogno fatto durante la notte, e non sto per convincermi ora che tutto è menzogna?»

    Respingendo sùbito dopo le ultime incertezze e le ubbie del sonno, l’orgoglio del suo trionfo si trasformava in modestia, grazie ad una misteriosa evoluzione psichica, per cui si giudicava indegno di tanta felicità. Vedersi amato da quella donna che aveva già considerata come appartenente ad una specie superiore, senza speranza che avesse a volgere gli occhi su di lui!…

    L’antico soprannome di « cavalier Tannhäuser », usato qualche volta da Rosaura, pareva accrescesse la sua vanità di amante. Essa era Venere, ed egli viveva a’ suoi piedi sazio d’amore, come il reprobo poeta. Quel giardino della Costa Azzurra, proprietà della vedova argentina, era paragonabile alla Venu-sberg, la leggendaria Montagna di Venere, magico luogo di voluttà e di poesia carnale, che faceva fremere di spavento gli asceti cristiani.

    Rosaura pareva soddisfatta del risultato di un’avventura iniziata leggermente, senza un proposito determinato, con un acceleramento alquanto pazzesco. La sua vanità femminile era lusingata dalla dedizione amorosa di Claudio, che le aveva fatto sin da principio omaggio incondizionato della propria volontà. I primi mesi non furono mai turbati da dispute e da scène di gelosia, come quelle che già avevano amareggiato la relazione di Rosaura con Urdaneta, il famoso generale-dottore. Borgia mostrava un certo misticismo nella sua adorazione, considerando Rosaura come una dea; e si sa che le divinità si obbediscono senza discutere.

    Nei momenti di gratitudine amorosa, quando si sente il bisogno di ricompensare con tenere parole la gioia ricevuta, essa non faceva che ripetere:

    — Quanto sei buono!… Perciò ti amo come non ho mai amato nessuno.

    Dopo le settimane autunnali trascorse a Parigi, l’inverno li aveva risospinti nella Costa Azzurra.

    La signora Pineda si insediò nella sua lussuosa villa fra Nizza e Monte Carlo, ma stavolta con tutte le comodità di un lungo soggiorno, attorniata da numerosa servitù, non trascurando occasione di far sapere alle amiche la propria ferma volontà di non andarsene fino all’inizio dell’inverno.

    La sua passione le aveva fatto dimenticare ancor una volta quella maternità che solo sentiva rinascere in giorni di pessimismo amoroso. A Parigi erasi preoccupata dell’educazione de’ suoi due figlioli, affermando che era per lei un sacrificio doversene separare; ma che così esigeva il loro avvenire. A fianco della madre non avrebbero mai acquistato una vera e propria istruzione. Il bambino era stato inviato in Inghilterra, affinchè ne facessero fin dall’infanzia un perfetto gentleman; e la bimba veniva affidata ad un aristocratico collegio di Parigi, diretto da monache. E credendo così di aver adempiuto per il momento a tutti i suoi doveri materni, Rosaura potè dedicarsi in modo assoluto, libera da importuni testimoni, alla vita comune con colui che essa chiamava il « suo poeta ».

    Claudio si era apparentemente insediato in un albergo vicino alla proprietà della signora Pineda, ma passava, in realtà, tutto il giorno e gran parte della notte nel giardino o nella casa di Rosaura; comunque, il suo « domicilio ufficiale » all’albergo era, come diceva Borgia, una discreta concessione ai rispetti sociali. Le persone amiche di lei chiudevano gli occhi e ammettevano con apparènte buona fede che il giovane spagnolo non fosse che un visitatore della ricca vedova, esistendo fra loro la naturale simpatia causata dalla comunanza dell’idioma e dell’origine etnica.

    Così si andò prolungando per alcuni mesi ancóra la vita irreale di Claudio. Non esistevano in quel giardino della Costa Azzurra i magici cantucci della Venusberg con letti di coralli e ghirlande di fioriture fantastiche, simili a quelle dei campi sottomarini. Ma i suoi boschetti di rosai, dove abbondavano tanto i fiori quanto le foglie, le spianate con fontane dallo stillicidio canoro, i sussurranti frascheti sotto i quali tubavano le colombe, e la spiaggia di azzurra ghiaia fra rocce che sembravano blocchi di marmo in attesa d’uno scalpello, furono parecchie volte testimoni delle lente conversazioni dei due innamorati e dei loro silenzi di passione interrotti dallo schioccar dei baci.

    Poco prima che Borgia si rendesse conto del fatto che era già trascorso un anno dacché conviveva con Rosaura, quell’esistenza comune cominciò a subire variazioni. Essa gli disse un giorno con una certa gravità, come se presentisse un pericolo:

    — Dobbiamo pensare un po’ meno a noi, tornare alla nostra vita di prima, senza tralasciare perciò di volerci molto bene. Tutte le esagerazioni finiscono col riuscir forzate e durano poco.

    La bella Madame Pineda cominciò a mostrarsi nei saloni da gioco di Monte Carlo, nei pranzi di galg degli hòtels, nei dancings più eleganti all’ora del tè, seguita dal « suo spagnolo », che era da tutti accettato come un suo compagno legale, senza che nessuno si prendesse la briga di definire il carattere di tale familiarità.

    Borgia la credette più sicura per sè, vedendola fedele alle antiche abitudini. Così evitavano la noia d’una lunga intimità sempre a quattr’occhi. Poco tem-do dopo però, questo spirito di adattamento del giovane cominciò a pericolare di fronte ai piccoli incidenti giornalieri di una vita agitata.

    La bella argentina aveva ripreso ad amare il ballo, ed egli non era un vero ballerino. Rosaura dovette confessare, con un sorrisetto alquanto nervoso, l’impossibilità di ballar bene con lui.

    — Te ne intendi di molte cose, e perciò ti ammiro… Ma in fatto di danze… non hai proprio nessuna competenza!

    Poiché in realtà non amava il ballo, Claudio cominciò a mostrare una rassegnazione di marito cortese, standosene tranquillamente seduto, mentre essa ballava con altri uomini. Poi, quando Rosaura tornava al suo fianco, egli le sorrideva con forzata mansuetudine. Nulla poteva dire a una donna che si affrettava a lusingarlo con parole amorose, come se gli chiedesse perdono.

    In verità Borgia non aveva di che lagnarsi. Essa continuava ad amarlo come prima, come le bellezze arrivate agli ultimi confini della gioventù.sogliono amare un uomo più giovane di loro.

    — Il ballo — diceva — è per me come una ginnastica sociale, uno sport alla moda.

    Rosaura pareva dimenticasse Claudio nei dancings degli hòtels e ai tavoli da gioco di Monte Carlo; ma una volta soddisfatte quelle sue due passioni, tornava a cercarlo con lo stesso amore, senza che egli potesse avvertire diminuzione alcuna.

    Tanta fiducia nella fedeltà di Rosaura finì per fargli sopportare senza gelosia la presenza di un uomo il cui nome aveva turbato qualche volta la serenità del suo amore nei primi mesi di vita comune.

    Trovandosi a Parigi, egli aveva conosciuto Urda-neta, il generale-dottore, a una festa americana alla n quale aveva assistito accompagnandovi la signora Pineda. Senza dubbio il capoccia desiderava l’amicizia di lui, e lo cercò, facendosi presentare da un comune amico.

    Cosa inesplicàbile per Borgia!… Aveva pensato sempre con òdio a quell’uomo, e ora, vedendolo Ravvicino, doveva confessare che non gli riusciva antipatico. Odiava il generale-dottore solo quando si trovava lontano. Poi, in sua presenza, gli pareva assurdo che il nome di quell’uomo potesse agitare i suoi nervi.

    Urdaneta era venuto a vivere a Cannes per qualche settimana, e i due innamorati lo incontrarono parecchie volte negli alberghi di Nizza o al Casino di Monte Carlo.

    Rosaura, più tenace ne’ suoi deviamenti, lo trattava con freddezza, sforzandosi di far vedere a tutti che quell’uomo non era ormai altro per lei che uno dei tanti suoi conoscenti. Il passato era morto, e ben morto. Borgia, invece, si sentiva attratto verso quel simpaticone irresistibile. Se il suo nome gli infondeva gelosia, la sua presenza non suscitava nel suo animo nessuna avversione, anzi gli ispirava una certa commiserazione simpatica.

    Qualche volta perfino, sentendo che Rosaura parlava di lui con disprezzo, aveva cercato di difenderlo. «Povero generale Urdaneta!… ». La sua epoca gloriosa stava per finire.

    Era ormai l’uomo seduttore che declina e sopravvive a 6e stesso. Riusciva ancóra ad attirar l’attenzione di alcune donne con la sua gran barba crespa, U suo aspetto di bella bestia da combattimento? le sue passate avventure e la sua maschia petulanza; ma non sapeva nascondere il crescente avvilimento cui era in preda.

    Soffriva continue scarsità di denaro, cosa del resto non straordinaria nella sua storia di instancabile scialacquatore. Il fatto più terribile era che gli si andava precludendo lo sfruttamento del suo paese, da lui sempre considerato come una sicura miniera al di là dell’Oceano.

    Ormai non poteva più imbarcarsi per fare una nuova rivoluzione in patria, raccoglier denaro e tornarsene a Parigi. La piccola repubblica aveva seguito l’evoluzione dei paesi vicini, decretando a un tratto l’ostracismo a Urdaneta. Ora la nazione era governata da uomini giovani, che avevano studiato negli Stati Uniti o in Europa, e vi fondavano imprese industriali, bisognose di pace.

    « Caro generale-dottore, vi consigliamo di non venire — gli scrivevano i suoi intimi amici. — Qui tutto è assai cambiato. La gente non acclama più il vostro nome; e se doveste venire, ne sareste forse danneggiato. »

    E Urdaneta, che da Parigi fiutava i venti della sua patria esattamente come i suoi corrispondenti, si guardava bene dall’imbarcarsi per tentare un intervento armato, ben sapendo che nel linguaggio del suo paese « danneggiare » equivaleva press’a poco a « fucilare ».

    Oppresso da debiti crescenti e costretto a fare economie — il che era per lui segno di indiscutibile decadenza — rimaneva, indeciso, senza sapere quale rotta seguire. Uomo navigato in materia di amori, non tentò di ricuperare la milionaria argentina. Storia ormai finita!… Certamente Rosaura non sarebbe tornata a lui, ora che teneva quel giovane completamente sottomesso alla sua volontà, dolce nelle parole e negli atti. Inoltre, egli sapeva quale fosse il valore della gioventù per le donne d’America, di quel mondo estremamente giovane, che sente ancóra veemenze di tribù primitiva al cospetto delle esistenze primaverili.

    Egli si considerava anche in un certo stato di inferiorità in presenza di Claudio Borgia. Ah, la gioventù!…

    Vedeva in quello spagnolo un erede degno di rispetto, e s’interessava involontariamente alla sua sorte, lasciando trasparire tale interessamento dai suoi sguardi e dai suoi sorrisi benevoli. Forse l’oscura simpatia che spingeva Borgia verso di lui non era che un riflesso de’ suoi stessi sentimenti.

    Qualche volta Claudio credeva di legger chiaro in quegli amichevoli sguardi e in quella bonaria espressione. Forse lo giudicava un futuro compagno d’infortunio. Con donne come Rosaura, innamorate della vita e in possesso di un’anima pagana, chi può essere veramente tranquillo?… « Temi, compagno mio, la gioventù — pareva gli dicesse Urdaneta. — Qualche giorno sopraggiungerà un altro pretendente, con meno anni sulle spalle, destinato a succederti: come te a me. »

    Quando Borgia credeva di indovinare ciò nell’espressione affettuosa e triste dell’eroe caduto, tranquillava se stesso con una petulanza di innamorato felice… Lui era lui: cioè un uomo molto superiore, sia per intelligenza che per gusti, a quel guerriero selvaggio che al di là dell’Oceano aveva dato morte a centinaia d’uomini, e che qui in Europa cominciava a sembrare un personaggio piuttosto grottesco, lontano dal suo ambiente favorevole, impossibilitato a continuare la sua antica storia.

    Le maggiori contrarietà subite da Borgia nella sua vita d’allora provenivano da quel mondo alquanto ibrido, ma sempre elegante, che si riuniva durante l’inverno sulla Costa Azzurra. Gli si era aggregato contro la sua stessa volontà, trascinato dalle abitudini e dai gusti di Rosaura, lasciandosi presentare a persone che non lo interessavano punto, ma con le quali doveva sostenere conversazione nei « tè danzanti », nei saloni dello Sporting Club di Monte Carlo, nelle feste di beneficenza, nei concerti classici.

    Quella era una mescolanza internazionale, nella quale figuravano sfaccendati d’ogni paese; gente il più delle volte di romanzesca vicenda, senza nessuna solida istruzione, che parlava numerose lingue, e che aveva viaggiato molto, per vedere superficialmente le diverse nazioni, interessandosi soltanto ai loro grandi alberghi e alle loro alte classi sociali.

    In quel mondo cosmopolita si incontravano personaggi di autentica importanza: uomini politici venuti a meno, rimpiangenti l’autorità perduta; membri di famiglie detronizzate; magnati del denaro che venivano a riposare qualche mese sulle sponde del Mediterraneo. E intorno a tale gruppo scelto, un’inquieta marea di duchesse e di principesse di diversi regni, sul cui passato si raccontavano piccanti storielle; no-bildonne russe che si sostenevano vendendo le ultime gioie ed i mantelli di ermellino; avventuriere che si facevano tollerare grazie a una strisciante cortesìa viperina; antiche mondane che avevano consolidato la loro posizione sposando qualche vecchio milionario con un piede nella fossa.

    Tutti menavano una vita movimentata, percorrendo in automobile i sessanta chilometri di strada maestra che dividono Cannes da Mentone, per assistere a feste nelle diverse città, o per arrischiare il loro denaro sui tappeti verdi dei casini situati lungo la cornice della Costa Azzurra.

    I temi di conversazione erano sempre gli stessi: la ricchezza e l’amore. Qualche volta li dimenticavano per parlare di titoli nobiliari e di antiche cariche politiche, valutando gli uni e le altre alla stregua della simpatia che i singoli individui ispiravàn loro.

    — Perchè mai vivo in mezzo a gente così insulsa? — si chiedeva Claudio Borgia.

    In realtà, era l’obbligo assuntosi di seguire Rosaura, che lo condannava per sempre a figurare in quel mondo frivolo, maldicente, e nello stesso tempo esageratamente tollerante verso l’amoralità.’

    Soffriva nel vedersi misconosciuto da quella gente bene educata ed amabile. Tutti lo accoglievano con sorrisi e strette di mano, ignorando la sua vera personalità. Era per loro « l’amico di Madame Pineda, giovane spagnolo, simpatico, distinto… » e nulla più.

    Alcune vecchie signore cominciavano a chiamarlo « marchese », senza che gli fosse dato sapere da chi provenisse l’iniziativa di tale invenzione. Pareva loro senza dubbio impossibile che essendo spagnolo, non fosse « marchese di Borgia ». In quella società brillante, ibrida e sqspettosa, quasi tutti ostentavano un titolo, e soltanto ai milionari degli Stati Uniti era concesso di portare semplicemente e puramente il loro casato.

    L’« amico » di Madame Pineda si rendeva conto del concetto che avevano di lui molti uomini e donne con cui parlava in banchetti e balli. Si limitavano a dire che era « simpatico e distinto », ma Claudio leggeva qualcos’altro nel silenzio che seguiva tali pàrole. Poiché la vedova argentina era ricca, forse lo credevano protetto dalle sue amorose larghezze. Ciò non era considerato peccato nè difetto dai membri di quel mondo speciale; ma quasi accresceva agli occhi delle signore il valore di un uòmo, conferendogli l’attrattiva di un gioiello caro, di un oggetto di lusso assai costoso.

    Così si spiegava Borgia le occhiate allettanti e le frasi a doppio senso di alcune amiche intime di Rosaura quando parlavano a quattr’occhi con lui. Lo ritenevano senza dubbio il gigolò della vedova Pineda. Forse presentivano in lui una misteriosa potenza tentatrice d’amore, dal momento che una dama elegante e desiderata gli rimaneva ancor fedele, dopo un anno di relazioni… E tale sospetto, che i meno prudenti lasciavano indovinare, lo indignò dapprincipio, finendo poi per farlo sorridere con amara rassegnazione.

    Fin dai primi giorni di vita amorosa, egli si era rifiutato di accettare le conseguenze del gran dislivello esistente fra le loro fortune.

    — Io sono l’uomo — protestava, con orgoglio, quando nei loro viaggi Rosaura pretendeva di pagare anche le spese di lui.

    Per una fatalità paragonabile a quella ai certe leggi fisiche, l’enorme fortuna della bella argentina pesava sulla loro unione, e sebbene Rosaura sostenesse la maggior parte della sua vita sempre fastosa, il godimento di quelle prodigalità toccava’anche il suo compagno. Comunque Borgia provvedeva al proprio mantenimento, e senza che la sua amante se ne accorgesse, essa era causa per lui di non poche spese straordinarie.

    « Le donne ricche — si diceva talvolta il giovane — costano più "denaro che le povere, senza che esse giungano a rendersene conto ».

    Quest’almo di vita comune con una milionaria cominciava a intaccare la sua fortuna. Aveva speso più del doppio delle sue rendite, chiedendo frequenti anticipi al suo amministratore di Madrid. Non amava il gioco, e si vedeva costretto a giocare a Monte Carlo, a Nizza o a Cannes, perdendo sempre. Inoltre, a fianco di quella donna che parlava ad ogni istante di abiti e ne riceveva di nuovi ogni settimana, era per lui necessario occuparsi dei propri indumenti con una minuziosità femminile, andando in cerca del sarto ogni qualvolta essa fissava la sua attenzione sull’abbigliamento e sulle novità di qualche gentleman appena arrivato da Londra.

    Egli aveva la certezza che alla lunga gli sarebbe stato impossibile resistere economicamente a quella vita con una donna che possedeva dei milioni… E la gente lo credeva il suo gigolo!

    Rimetteva a più tardi il pensare a quella disuguaglianza di fortune. Attendeva qualcosa d’insperato che avrebbe dovuto sorgere nell’avvenire: un livellamento salvatore, senza fermarsi a riflettere in qual modo ciò avrebbe potuto verificarsi, contentandosi della sua felicità presente.

    L’unica cosa che gli causava vere contrarietà nella sua attuale situazione, era quella di vedersi incompreso dalle persone che attorniavano Rosaura. Peccato non aver continuato in quella vita dei primi mesi d’isolamento e d’amore nel bel giardino rumoroso, tutto fragrante di mimose di garofani e di sali marini, che essi chiamavano la loro Venusberg!

    Tutti i loro amici parlavano molte lingue, tranne quella di Borgia. La lingua francese li univa nei loro rapporti quotidiani, ed egli riusciva solo eccezionalmente a trovare qualcuno che balbettasse parole spagnole, apprese in viaggi nell’America del Sud.

    Invano Rosaura, col desiderio di elevarlo dinanzi agli occhi di quelle grandi frivole, andava dicendo che Borgia era scrittore, un grande scrittore! Alcune dame inglesi, il cui romanticismo si accoppiava alla nostalgia della perduta giovinezza, si interessavano subitamente a lui, chiedendógli notizia dei suoi romanzi, che certamente dovevano essere stati tradotti in francese o in inglese. Claudio cercava di esimersi, tutto confuso. Egli non aveva scritto romanzi, unico genere letterario che possa resistere alla prova della traduzione. Non scriveva che versi, e in spagnolo, forzatamente prigionieri della loro forma primitiva. Tradurre versi equivale a rompere un vaso di profumi, perchè se ne disperda nell’aria l’essenza.

    Anche in ciò si vedeva incompreso e dispregiato. Era semplicemente un ballerino sgraziato, un ascoltatore silenzioso di chiacchiere mondane, molto al disotto di certi giovani frivoli che provocavano parole di elogio nei dancings per la loro abilità nel muovere i piedi, e che erano assai ricercati dai gruppi di signore che si divertivano alle loro mormorazioni quasi femminili.

    — Sono felice — si diceva molte volte Claudio, — e come mi annoio non appena ella si allontana!… Faccio schifo a me stesso!

    All’improvviso provava un desiderio crudele di tormentare con le sue lagnanze la donna adorata. Era un lavorìo subcosciente, una mala passione che pareva provenisse da un altro uomo. In quei momenti l’amore era per lui composto di aggressività e di odio affettuoso.

    — Tu devi aver avuto molti amanti — diceva nelle ore di maggior confidenza. — Raccontami; tanto non me ne importa nulla.

    Invano Rosaura protestava… L’incredulo Borgia si ostinava nelle sue domande… Come mai una donna di tale bellezza, che tanto interessava gli uomini, poteva essere giunta a lui senza un ricco passato amoroso?…

    Egli non nominava Urdaneta. Prescindeva da quell’antecessore come se ne ignorasse l’esistenza, appunto perchè era l’unica realtà. Voleva conoscere « gli altri », il cui numero ingrandiva o rimpiccioliva, secondo il capriccio della sua gelosia. Quegli « altri » erano il mistero con la sua crudele attrazione, il passato di Rosaura, vuoto ed oscuro, che egli aveva bisogno di

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