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La prima impresa. Shakespeare in Warburg e Benjamin: Con una lettera di Aby Warburg trascritta e presentata da Claudio Wedepohl
La prima impresa. Shakespeare in Warburg e Benjamin: Con una lettera di Aby Warburg trascritta e presentata da Claudio Wedepohl
La prima impresa. Shakespeare in Warburg e Benjamin: Con una lettera di Aby Warburg trascritta e presentata da Claudio Wedepohl
E-book162 pagine2 ore

La prima impresa. Shakespeare in Warburg e Benjamin: Con una lettera di Aby Warburg trascritta e presentata da Claudio Wedepohl

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Info su questo ebook

Qual è il senso della continua e a volte misteriosa presenza di Shakespeare nella riflessione di Aby Warburg e di Walter Benjamin? Shakespeare è di certo un simbolo per la cultura europea. E nell’interrogarsi su Shakespeare anche Warburg e Benjamin si interrogano in effetti sul senso stesso della cultura, sulle sue possibilità e i suoi doveri.
I becchini, dice ad Amleto uno degli uomini che scavano la fossa di Ofelia, sono stati i primi ad avere un grado di nobiltà, perché sono stati i primi ad avere “arms”: armi, e di qui anche stemmi o imprese nobiliari, ma anche braccia per scavare. E in effetti quello che tanto Warburg quanto Benjamin sembrano cogliere in Shakespeare è una continua messa in causa dell'immagine nel suo significato codificato – l’impresa o stemma nobiliare come simbolo delle gerarchie prestabilite – a favore del nascere di nuove immagini che si fanno “impresa” nel senso di avventura energetica, lotta per liberare l'espressione da tutto quello che ha di irrigidito e per renderle la sua vera forza, il suo legame con la vita.
Il libro si apre con una lettera di Warburg su Shakespeare, trascritta e presentata da Claudia Wedepohl, archivista e studiosa del Warburg Institute, che ci introduce alla lettura che Warburg dà di Shakespeare in pagine intense e ancora poco note.
LinguaItaliano
EditoreJaca Book
Data di uscita17 feb 2022
ISBN9788816803312
La prima impresa. Shakespeare in Warburg e Benjamin: Con una lettera di Aby Warburg trascritta e presentata da Claudio Wedepohl

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    Anteprima del libro

    La prima impresa. Shakespeare in Warburg e Benjamin - Alice Barale

    FILOSOFIA

    Dello stesso Autore

    (a cura di), Arte e Intelligenza artificiale. Be my GAN, 2020

    Il giallo del colore. Un’indagine filosofica, 2020

    © 2022

    Editoriale Jaca Book Srl, Milano

    tutti i diritti riservati

    Prima edizione italiana

    gennaio 2022

    Redazione Jaca Book

    Impaginazione Elisabetta Gioanola

    Stampa e confezione

    Stampatore Galli & C. Srl, Gavirate (Va)

    dicembre 2021

    ISBN 9788816803312

    Editoriale Jaca Book

    via Frua 11, 20146 Milano

    tel. 02 48561520, 342 5084046

    Ebook www.jacabook.org

    libreria@jacabook.it; www.jacabook.it

    Seguici su

    INDICE

    Introduzione

    Amleto e Faust: una lettera di Aby Warburg su due melancolici della letteratura mondiale, di Claudia Wedepohl

    Lettera a Fritz Saxl ed Erwin Panofsky del 19 febbraio 1923 (trascritta e presentata da Claudia Wedepohl), di Aby Warburg

    Parte I

    WARBURG E SHAKESPEARE

    1.Warburg, Shakespeare e la prima impresa

    2.Strani profeti: l’eredità di Karl Giehlow in Aby Warburg e Walter Benjamin

    3.La rinascita in Warburg tra sguardo e racconto

    4.A caccia di draghi: Warburg, Tyamat… e Riccardo

    Parte II

    BENJAMIN E SHAKESPEARE

    1.Libertà per gli spiriti: Walter Benjamin legge La Tempesta (e Il Signore di Ballantrae)

    2.«To call fools into a circle»: l’interpretazione benjaminiana di Come vi piace (e della Tempesta)

    3.Con «occhio disarmato»: Benjamin e la commedia di Shakespeare e Molière

    4.Stoffa e materia. Mimesi e (fine della) magia in Walter Benjamin

    Fonti

    Profili biografici

    INTRODUZIONE

    Mi sono accorta, dopo aver scritto per alcuni anni su Aby Warburg e Walter Benjamin, che la presenza di Shakespeare era un tema costante dei lavori che avevo dedicato loro. Ho pensato così di riunire i saggi che vertono su questo argomento, con l’intenzione di indagare il significato che l’opera del grande drammaturgo ha per i due studiosi. Solo qualche mese fa, i giornali intitolavano È morto William Shakespeare, riferendosi al dolce vecchietto che era stato vaccinato per primo nel Regno Unito e nel mondo contro il Coronavirus, e che è purtroppo venuto a mancare poco dopo per altre cause. L’annuncio suscitava l’impressione di un contrasto tra la vita individuale e quella dell’arte o dei simboli. E Shakespeare (quello cinque-seicentesco) è di sicuro un simbolo per la cultura europea. Nell’interrogarsi su Shakespeare anche Warburg e Benjamin si interrogano certamente sul senso della cultura, sulle sue possibilità e i suoi doveri. Lo fanno, come spesso accade nel caso di Shakespeare, attraverso l’emergere spesso insistente di alcuni personaggi, a volte maggiori – come Amleto o Riccardo III – ma a volte anche minori, come i becchini con cui il pricipe di Danimarca dialoga.

    Proprio i becchini, del resto, sono i responsabili del titolo di questo volumetto, la prima impresa, che viene dallo scambio di battute che essi hanno mentre scavano la fossa di Ofelia, e che Warburg cita a più riprese durante il suo ricovero psichiatrico. Gli appartenenti a questa professione, sostiene uno dei becchini mentre scava, sono stati i primi ad avere un grado di nobiltà, perché sono stati i primi ad avere arms: armi, e di qui anche stemmi o imprese nobiliari, ma anche braccia per scavare. E in effetti quello che tanto Warburg quanto Benjamin colgono in Shakespeare è una continua messa in causa dell’immagine nel suo significato codificato – l’impresa o stemma nobiliare come simbolo delle gerarchie prestabilite – a favore del nascere di nuove immagini che si fanno impresa nel senso di avventura energetica, lotta per liberare l’espressione da tutto quello che ha di irrigidito e per renderle la sua vera forza, il suo legame con la vita.

    Si è parlato per Shakespeare, e per il barocco in generale, di un crollo delle certezze e dei punti di riferimento metafisici che caratterizzavano, seppure con mille tensioni, il Rinascimento¹. Quello che interessa a Warburg e a Benjamin non è però tanto il crollo, quanto la straordinaria possibilità, che esso offre, di una ricostruzione. Quando Warburg, dal suo ricovero psichiatrico, scrive a più riprese di Amleto, lo cita innanzitutto come un esempio della capacità che la malinconia ha di riscattarsi e andare oltre sé stessa. Benjamin, da parte sua, ama particolarmente un passo del Re Lear in cui il figlio di Gloucester, Edgar, accompagna il padre cieco nella salita di quella che il vecchio pensa essere una scogliera e da cui intende buttarsi. Il burrone è però solo nell’immaginazione del padre e, quando questi si scaglia da esso (cadendo quindi a terra sul palcoscenico) e sopravvive, comprende che da allora potrà affrontare la propria sofferenza «finché essa stessa non gridi basta, basta!, e muoia»².

    La ripresa, dunque, che passa attraverso una crisi. Una crisi che non è soltanto epocale (la crisi del barocco, o quella del Novecento), ma strutturale, perché riguarda i fondamenti stessi della nostra cultura, ovvero le parole e le immagini in cui il pensiero si esprime. «Words, words, words… [parole, parole, parole…]», dice Amleto del libro che tiene in mano. Ogni parola è diventata morta e insensata, come il mondo simile a una prigione in cui Amleto si trova costretto a vivere. Eppure c’è qualcosa, oltre le parole dei vecchi libri e le cascate di discorsi con cui quelli che lo circondano cercano di occultare la verità, che è ancora vero, che non sembra ma è: «Sembra, signora? No, è. Non conosco sembra»³, Amleto risponde alla madre. Il fascino di questo personaggio sta proprio in questo suo restare fedele a qualcosa di vero, che ancora non riesce a emergere, ma che lotta per farlo.

    Linguaggio e immagini sono rovine – è questa la grande lezione del libro sul barocco di Benjamin, ed è anche il grande cruccio che spinge il giovane Warburg a fuggire la «storia dell’arte estetizzante», cercando le radici vitali della nostra cultura nelle pratiche performative, anche non legate all’arte alta, come le feste rinascimentali e le danze degli Indiani d’America⁴ –, ma rovine a partire da cui è possibile, a ogni attimo, ricostruire. Più che rovine si potrebbero considerare quindi, per restare in tema con La Tempesta, castelli di sabbia, o – con un’immagine che Benjamin userà per descrivere proprio l’opera di Shakespeare – forme fatte con le nuvole. In Shakespeare l’aspetto convenzionale e arbitrario del linguaggio e delle immagini (quello che Benjamin chiama il loro carattere «allegorico») trova il coraggio di riavvicinarsi a quel che di volta in volta gli sfugge. A questo elemento sfuggente, eppure vitale, sono stati dati molti nomi nel corso dei secoli. Benjamin lo chiama «l’elementare», per indicare il suo carattere di origine, come materia inafferrabile di ogni successiva elaborazione: «Caratteristico di Shakespeare è in effetti proprio questo: che entrambi i versanti sono per lui ugualmente essenziali. Ogni manifestazione elementare della creatura acquisisce significato attraverso la sua esistenza allegorica, e ogni aspetto allegorico acquisisce forza attraverso la dimensione elementare del mondo sensibile»⁵. Warburg lo chiama invece la «commozione passionale», a indicare l’elemento fondamentale dell’emozione o del pathos, che attende sempre nuove forme o formule per potersi esprimere: «Ma all’Inghilterra fu dato il genio di Shakespeare, che impose al pubblico, come leitmotiv dei suoi personaggi, al tempo stesso la commozione passionale e la riflessione consapevole»⁶. Alla fine della propria vita, lo chiamerà il «chaos e la hyle»⁷: la materia nel suo aspetto ancora informe e indeterminato. Se da giovane Warburg aveva temuto (e ne aveva buone ragioni, visto il tracollo psichico a cui era andato incontro) questo caos come un mostro contro cui lottare – e di cui ripercorrere di volta in volta la geneaologia, dalla Medusa dei Greci, contro cui combatte Perseo, al Tyamat babilonese, drago dei mari profondi – alla fine della sua vita lo considera come qualcosa da cui ci si può e ci si deve fare scherzosamente sedurre, per generare nuove forme e nuova conoscenza. È a questo proposito che Warburg cita Riccardo III, quando il terribile gobbo conquista la regina a cui ha appena ucciso il marito. Proprio come per l’Atteone di Bruno, di cui Warburg legge in questo periodo – Bruno è del resto un altro dei grandi pensatori che si pongono a riflettere, in quella fine di Cinquecento, sulla nuova infinità del cosmo –, Warburg immagina la possibilità che alla paura succeda il fascino per quell’ignoto (Diana al bagno, la natura infinita e inesauribile rispetto alla conoscenza) che appariva mostruoso. Lo stesso appello – un appello a guardare, con il pensiero e con i sensi, a tutto quello che la cultura nelle sue forme più comode e irrigidite lascia dimenticato e oscurato, per raggiungere una cultura più viva e più vera – è lanciato da Benjamin quando individua la caratteristica distintiva di Shakespeare nella capacità di osservare il mondo «con occhio disarmato»⁸. Nella consapevolezza che ogni impresa, per essere davvero tale, deve essere necessariamente ogni volta soltanto la prima.

    * * *

    Per la parte su Warburg, un ringraziamento va a tutte le persone che lavoravano e lavorano nell’Archivio di quello straordinario posto che è il Warburg Institute di Londra, tra cui Claudia Wedepohl, Dorothea McEwan e Eckart Marchand, senza il cui aiuto non sarei riuscita a districarmi nel labirinto degli scritti warburghiani, e agli amici che hanno reso ogni volta preziosa la mia permanenza lì, come Desiré Cappa e Oscar Schiavone, con alcune (temibili) incursioni di Lisa Valentini. Per la parte su Benjamin la mia gratitudine va a Fabrizio Desideri, grande maestro di studi benjaminiani. Un ringraziamento va infine a Maddalena Mazzocut-Mis, Claudio Rozzoni e Andrea Scanziani, perché discutendo con loro mi capita sempre di ripensare i temi dei miei lavori passati alla luce di nuove idee e progetti.

    ¹Cfr. su questo M. Donà, Tutto per nulla: la filosofia di William Shakespeare, Bompiani, Milano 2016.

    ²W. Shakespeare, King Lear, trad. it. Re Lear, a cura di A. Lombardo, Feltrinelli, Milano 2018, IV.6, p. 227.

    ³W. Shakespeare, Amleto, trad. it. di E. Montale, Mondadori, Milano 1988, I, 2.

    ⁴Recentemente, Freddie Rokem ha analizzato l’Amleto come rappresentazione dell’interazione, tanto conflittuale quanto necessaria, tra filosofia e teatro, riflessione e performance. È questo un tema importante, come si cercherà di mostrare, anche nell’interpretazione warburghiana e benjaminiana di Shakespeare. Cfr. F. Rokem, Philosophers and the Thespians: Thinking Performance, trad. it. Filosofi e uomini di scena, Pensare la performance, a cura di A. Sacchi, Mimesis, Milano 2013.

    ⁵W. Benjamin, Origine del dramma barocco tedesco, nuova edizione italiana a cura di A. Barale, prefazione di Fabrizio Desideri, Carocci, Roma 2018, pp. 266 ss.

    ⁶A. Warburg, Nachhall der Antike. Zwei Untersuchungen, a cura di P. Schneider, Diaphanes, Zurich-Berlin 2012; trad. it. L’antico nell’epoca di Rembrandt, in A. Warburg, Opere. La rinascita del paganesimo antico e altri scritti (1917-1929), a cura di M. Ghelardi, vol. II, Aragno, Torino 2008, pp. 626-628.

    ⁷«L’atto della dedizione eroico-erotica al caos e la Hyle/ atto originario creatore del distacco che produce lo spazio del pensiero», A. Warburg, Giordano Bruno, in Id., Opere, cit., vol. II (1980), Aragno, Torino 2008, p. 979.

    ⁸W. Benjamin, Shakespeare: Wie es euch gefällt (1918), in Id., Gesammelte Schriften, ed. by R. Tiedemann, H. Schweppenhäuser, vol. II.2, Suhrkamp, Frankfurt am Main, p. 611.

    AMLETO E FAUST: UNA LETTERA DI ABY WARBURG SU DUE MELANCOLICI DELLA LETTERATURA MONDIALE

    Claudia Wedepohl

    Warburg è affascinato per tutta la vita dal capolavoro di Dürer, Melencolia I (1514). Non riesce però mai a dare una forma definitiva e

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