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Caccia al killer
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E-book284 pagine3 ore

Caccia al killer

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Info su questo ebook

Le agenzie di Intelligence di tutto il mondo sono sulle tracce di Mirror Face, un pericoloso terrorista informatico che sta seminando morte e distruzione.
Per catturarlo CSIS e CIA uniscono le forze e obbligano uno dei migliori hacker canadesi, Sebastian “Race”, e uno dei più spietati killer americani, Hayden “Backer”, a lavorare insieme.
I due si trovano presto a vivere una fortissima attrazione reciproca che sembra sfociare in un sentimento impossibile. Le cose si complicano ancora di più quando ad aiutarli arrivano due vecchie conoscenze di entrambi.
Tra segreti, inseguimenti rocamboleschi, sparatorie e tradimenti, riusciranno questi due cattivi ragazzi a portare a termine una missione apparentemente impossibile?
LinguaItaliano
Data di uscita22 apr 2022
ISBN9791220702874
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    Anteprima del libro

    Caccia al killer - Velia Rizzoli Benfenati

    1

    Cinque anni dopo, New York, 13 marzo


    Uscendo dal centro di formazione in cui insegnava informatica e software design, quel venerdì sera Sebastian si tirò su il bavero del cappotto rabbrividendo all’aria gelida di fine marzo. Quando l’inverno decideva di infliggere uno dei suoi proverbiali colpi di coda, la città di New York diventava un inferno di ghiaccio.

    Inferno forse non era la parola giusta per indicare una delle città più vivaci del pianeta da un punto di vista culturale, Sebastian ne era perfettamente consapevole, ma lui non era un tipo da metropoli, nonostante il lavoro di diplomatico del padre gli avesse fatto trascorrere l’infanzia in molte capitali europee. Preferiva i piccoli centri, dove la dimensione umana aveva ancora valore. E, anche se non amava in modo particolare il freddo, in quel momento sentiva una forte nostalgia per il suo Canada. Avrebbe dovuto chiamare sua sorella per decidere come procedere con l’ultimo libro che stava scrivendo, ma non si sentiva ispirato. Rachel avrebbe aspettato, tanto quello che scriveva i romanzi per bambini era lui. Lei però ci metteva la faccia e lavorava al cartone animato. Era così da quando aveva sedici anni.

    Si diresse verso la metropolitana, pensando che a casa l’aspettava un bel bagno caldo, una pizza al salmone e panna e un film alla TV via cavo. Aveva proprio bisogno di una tranquilla serata in solitudine con il computer spento. Per lavorare al suo Super Wof aveva tutto il week-end e per rimorchiare uno sconosciuto in qualche gay club preferiva il sabato sera, quando gli uomini con una doppia vita fatta di mogli e figli a Staten Island erano a casa con le suddette famiglie. In quanto a vite doppie o triple, gli bastavano le sue. Per ciò che riguardava gli incontri occasionali la sua preferenza andava verso le persone che effettivamente erano chi dicevano di essere.

    Sorrise al pensiero dell’imminente fine settimana, ma a turbare i suoi progetti arrivò puntuale una telefonata. E Sebastian, prima di rispondere, maledisse il karma. «Agente Race, abbiamo un incarico urgente per lei. Venga immediatamente a Ottawa.»

    Non ci poteva credere. Non ci voleva credere. Possibile che quelli del CSIS ¹ avessero la deprecabile caratteristica di chiamarlo sempre il venerdì sera? «Immediatamente quando? Sono per strada, non ho i documenti con me…»

    «Non è un problema nostro. Recuperi il passaporto nel più breve tempo possibile. Ha un aereo già prenotato a nome Sebastian Lafitte presso l’ufficio della Canadian Airlines all’aeroporto LaGuardia fra tre ore.»

    «Fantastico. Vi costerà una fortuna in taxi.»

    «Agente Race, non dica stupidaggini e si muova. Il suo contatto l’attenderà all’aeroporto.»

    «Meraviglioso, mi mancava Skinner.»

    Chiuse la comunicazione senza dire altro e senza salutare la donna che con voce fredda l’aveva convocato. Fermò un taxi e si diresse verso il suo miniappartamento nel cuore di Manhattan. Tutta quella scocciatura era dovuta al solo fatto che quegli spilorci del CSIS non gli avevano pagato niente di più grande e non avevano accettato che vivesse un po’ decentrato.

    Sospirò stancamente: sperava di essere a casa entro domenica sera e di svolgere quell’incarico senza compromettere il suo lavoro di copertura con il centro di formazione di informatica, altrimenti si sarebbe dovuto licenziare. In quella eventualità, spiegare alle autorità americane come riuscisse a vivere nel cuore della Grande Mela con i soli proventi di ghost-writer, per quanto di successo, sarebbe stato un bel po’ complicato.

    Ottawa,14 marzo


    L’ufficio di Philippe Montier, il direttore della sezione informatica del CSIS, era quanto di più banale e già visto si potesse immaginare: moquette chiara, mobili in legno scuro massiccio, divani e poltrone eleganti. Sebastian sbuffò, era stato in quel posto in centinaia di occasioni e di rado per ricevere grandi encomi. Il più delle volte era stato per sentirsi ordinare qualche porcata informatica in cui convogliare o scoprire dove fossero sparite quantità di denaro inimmaginabili per i comuni mortali. Essere un agente segreto significava avere a che fare più con le scartoffie e gli schermi del PC e molto meno con l’azione di quanto Hollywood mostrasse. Si aggiustò l’odiata cravatta e attese che Montier, di fronte a lui, finisse di guardare i documenti e lo degnasse di attenzione. Era abituato a venire trattato in quel modo, faceva parte del lavoro, ma l’idea di avere interrotto la sua vita ed essersi precipitato all’aeroporto, così da trovarsi lì di prima mattina, per poi dover attendere era una cosa che gli dava comunque fastidio. Senza considerare che veniva da una settimana pesante e che non aveva neanche il diritto di godersi un week-end libero.

    Montier posò la cartellina e si apprestò a parlare, scrutandolo come se non si fidasse di lui. «Molto bene, agente Race, abbiamo un incarico molto particolare da affidarle, questa volta. Mi dica… lei, esattamente, cosa sa a proposito di Mirror Face?»

    Sebastian avrebbe voluto sgranare gli occhi, ma era addestrato a non mostrare i suoi sentimenti. «So che è un pericoloso terrorista informatico. Non un semplice hacker come me, ma un vero e proprio assassino. Da quanto mi risulta dovrebbe avere parecchi morti sulla coscienza. Anche se non è mai stato detto pubblicamente, sappiamo che il volo 897 della Quantas ² del 2016 è caduto esplodendo perché lui si è infiltrato nei sistemi di comunicazione dell’aereo e ha manomesso i computer di bordo. Così come l’esplosione alla centrale nucleare di Mumbai dell’anno scorso è stata opera sua.»

    Montier si sistemò sulla sedia e incrociò le mani davanti a sé. Sebastian si sentì come uno studente durante un’interrogazione. Chissà se avrebbe ricevuto un voto o qualche spiegazione sull’incarico che lo aspettava. «Esatto. Ma, mi dica, ha mai studiato il suo metodo di lavoro? Sarebbe in grado di imitarlo?»

    «Mirror Face lavora in modo piuttosto semplice, come fanno praticamente tutti gli hacker di questo mondo: crea account fittizi che rimbalzano da una cella all’altra per il pianeta, rendendo di fatto impossibile il rintracciamento dell’IP originale. I suoi attacchi sono di tipo low e slow, quindi potrebbe usare una sola macchina alla volta ³. I suoi messaggi sono sempre a posteriori, rispetto ai crimini che commette, e usa un linguaggio piuttosto elementare, come se l’inglese non fosse la sua lingua madre. Sia chiaro, per fare quello che ha fatto lui ci vogliono delle competenze che avremo sì e no in una decina al mondo, ma io posso dire di far parte di quel ristrettissimo club. Per un hacker che scrive favole per bambini, imitarlo è più semplice che non rintracciarlo.»

    Non fece la domanda che gli frullava in testa, ovvero perché gli chiedevano quelle cose, non era lì per ficcare il naso.

    «Molto bene, agente Race. Allora se le dicessi che vorremmo che prendesse il posto di Mirror Face sarebbe disponibile ad accettare l’incarico?»

    Sebastian non mostrò alcuno stupore, non proruppe in esclamazioni di sorpresa o di disgusto.

    I suoi superiori erano capaci di fare qualunque sorpresa. Però c’era qualcosa che doveva sapere. «Non immaginavo che Mirror Face facesse parte della nostra compagnia. Cosa gli è successo? È morto?»

    Montier girò la testa verso la finestra senza rispondere per qualche minuto. Anche a quello Sebastian era abituato: capiva perfettamente che l’uomo non era sicuro di potersi fidare, anche se lui era un agente di comprovata esperienza e lealtà. «No, non è morto e non fa parte dell’agenzia. Al contrario, noi vogliamo prenderlo, possibilmente vivo, ma non necessariamente. Per far questo abbiamo bisogno di un’esca. Di qualcuno che lo spinga a venire allo scoperto. Lei sarebbe disponibile a fare questo per noi?»

    «Come lei sa già, Signore, non ho mai rifiutato un incarico e non ho intenzione di cominciare adesso.»

    «Molto bene. Sapevo di potermi fidare. Ora, le darò le istruzioni sulla base delle informazioni che siamo riusciti a raccogliere, a cominciare dal fatto che il nostro uomo è nordamericano.»

    2

    Sanaa, 20 aprile


    Dall’alto di un palazzo diroccato, Hayden si infilò i guanti antisdrucciolo. Montò e posizionò con cura il fucile militare ad alta precisione che aveva portato su per le scale distrutte dentro uno zaino da escursionista. Si tolse la barba finta che copriva la carnagione pallida, il cappello da pescatore che celava i capelli corti di un biondo chiarissimo e gli occhiali da sole che nascondevano gli occhi con lenti a contatto colorate. Tutta quella mascherata si era resa necessaria perché alla CIA non avevano pensato al suo aspetto fisico quando gli avevano ordinato di uccidere un pericoloso trafficante d’armi e simpatizzante dell’ISIS. Quando aveva fatto notare che un uomo dall’aspetto di uno scandinavo, alto un metro e novanta, non sarebbe passato esattamente inosservato in Yemen, gli avevano risposto Indossa un burqa e fingiti donna. Perché, era ovvio, una donna di un metro e novanta sarebbe passata inosservata. Soprattutto in un paese dove le donne, di norma, non indossavano il burqa afghano, ma il niqāb yemenita ¹.

    Hayden si mise il vecchio cappellino con visiera da cecchino e si posizionò. Conosceva bene quel tipo di fucile: ci aveva già lavorato in Afghanistan e in Iraq quando era un Seal. Era un M24, caricato con munizioni a punta cava, perfette per coprire le grandi distanze. In condizioni standard poteva colpire un bersaglio a oltre ottocento metri, ma lui non aveva bisogno di una gittata simile: il suo obiettivo sarebbe uscito dalla porta che vedeva nel mirino a poco più di cinquecento metri di distanza. Sapeva di dover attendere il suo uomo circa ventisette minuti perché aveva intercettato la telefonata in cui quest’ultimo diceva a che ora sarebbe uscito dal palazzo per vedersi con un compratore d’armi. Se anche l’uomo avesse mentito, non sarebbe stato un problema: Hayden era addestrato ad attendere ore, sempre nella medesima posizione, per non perdere di vista il bersaglio, per lui era sufficiente sapere che quello era il posto giusto in cui aspettare la vittima. Uccidere gli era costato un bel numero di notti insonni, sia da militare che da agente segreto, ma non a causa di inesistenti sensi di colpa.

    Quella volta però fu fortunato, l’uomo, un ceceno, uscì dal palazzo con sei minuti di anticipo. Il vento era assente, il campo libero. Hayden fece esplodere due colpi in rapida successione centrando l’obiettivo al cuore e alla testa. Il rumore degli spari fu attutito dal caos della città.

    Assicuratosi che l’uomo fosse morto, Hayden si cambiò di nuovo il cappello, rimise barba e occhiali, infilò i guanti nello zaino e scese le scale scalcinate senza nessuna fretta, abbandonando il fucile. Aveva tempo in abbondanza: conoscendo le tecniche investigative yemenite, sapeva che ci avrebbero messo ore prima di capire da dove erano partiti i colpi. Inoltre, anche se i russi fossero intervenuti nell’indagine, per quando fossero saliti sul tetto, probabilmente il fucile sarebbe stato già rubato da qualcuno e rivenduto al mercato nero. In ogni caso, era stato molto attento nel maneggiarlo: non c’erano impronte sue neanche sui proiettili rimasti. Hayden sapeva di avere un nutrito fan club in tutto il mondo arabo. Era perfettamente consapevole di avere una cospicua taglia sulla testa e di essere uno degli uomini più ricercati da tutti i militanti dell’ISIS e dai loro sostenitori, non voleva che lo scoprissero con tanta facilità. Non era mai stato catturato, ma era conscio del fatto che il trattamento che gli avrebbero riservato non sarebbe stato più gentile di quello che gli americani adottavano con i terroristi. Probabilmente non sarebbe sopravvissuto più di ventiquattro ore alle torture, e l’idea di finire sgozzato come un maiale, dopo un’agonia del genere, non gli piaceva; per quelli come lui preferiva un sano plotone di esecuzione.

    Senza considerare il fatto che non poteva neanche dilettarsi a guardare il fondoschiena dei locali perché in Yemen l’omosessualità era punita con la pena di morte per lapidazione e ciò poteva diventare motivo di grande frustrazione. Essere vissuto sotto DADT ² per tanti anni gli aveva dato un bagaglio di esperienza molto utile per certe circostanze.

    Arrivato sulla strada polverosa, camminò per un’ora girando in tondo per i viottoli della città vecchia. Quando fu certo di essere del tutto trasparente nella folla e nel caos, si nascose, si tolse la maschera, indossò il suo cappello con visiera, cambiò gli occhiali da sole e la maglietta, infilò tutto nello zaino e tornò al suo hotel con l’aspetto di un fotografo o un turista.

    Un paio d’ore dopo, Jesper Clarck, viaggiatore norvegese, prese il volo diretto a Stoccolma. Poi scomparve nel nulla. Da lì Aidan Remington, cittadino inglese, percorse via terra il lungo tragitto fino a Parigi. Ci mise una decina di giorni, ma non era importante, perché era in giro per conoscere l’Europa. Da Parigi, Hayden Baker, antiquario e restauratore di Green Water Town, nel Vermont ³, prese un aereo diretto a Washington D.C., con un paio di manifesti originali della Belle Époque, commissionati da un cliente, e un quadro di Gunnar Brenjnger, il più grande esponente dell’impressionismo norvegese ⁴, acquistato per passione personale. Alla dogana giustificò l’acquisto spiegando che aveva ricevuto un’inaspettata eredità e che aveva deciso di investire in arte il denaro ricevuto. A se stesso disse che, in fondo, qualcuno era morto davvero per permettergli l’acquisto di quel quadro.

    3

    Green Water Town, 13 maggio


    Hayden si sedette in poltrona piacevolmente stanco. Era arrivato a casa da poche ore: non appena atterrato a Washinton aveva spedito a Carol, la sua socia, i manufatti artistici e si era recato a Langley ¹ a fare rapporto. Come si aspettava, quello che aveva ottenuto era stato uno sguardo carico di rimprovero da parte della segretaria del suo capo a causa della barba lunga di qualche giorno, i vestiti spiegazzati e non eleganti come da protocollo. Il dettaglio che fosse stato in una bettola in Yemen per quasi un mese, avesse fatto l’autostop come finto turista per dieci giorni, avesse recitato il ruolo dell’artista sregolato amante dell’arte per due giorni a Parigi e, da ultimo, fosse reduce da un volo transcontinentale non era stato di suo interesse.

    Ora, però, era finalmente nella sua adorata casetta rossa seduto sulla sua poltrona preferita. Si era fatto una bella doccia, rasato la barba e si apprestava a godere un meritatissimo bicchiere di Talisker 40 Limited Edition ² e la lettura di un libro di Graham Green in edizione originale del 1950, mentre dal giradischi Ella Fizgerald e Miles Davis piangevano le loro struggenti note. Gli piaceva il suono del vinile, per il jazz era il massimo, anche se doveva ammettere che per la musica classica preferiva ascoltare la purezza del suono digitale quando non poteva godere di un concerto dal vivo. Nessuno avrebbe mai sospettato che un killer della CIA con un passato da Navy Seal avesse gusti tanto ricercati.

    Si mise comodo e aprì il libro cominciando a leggere le prime pagine in attesa di essere colto dal sonno. Molto probabilmente avrebbe trascorso la notte su quella poltrona, ma non era un problema: nessuno lo sapeva, ma lui riusciva a dormire in un letto vero e proprio solo se era in compagnia. Non aveva mai dormito in un letto da solo.

    Da bambino, di notte, era solito vagare per le grandi case di suo padre o sua madre e accucciarsi sotto qualche mobile o qualche dipinto perché la sua stanza era troppo isolata e nel buio aveva paura. Poco prima del suo decimo compleanno, nella casa di suo padre era arrivato un fratellino e lui, per diversi anni, aveva trascorso le notti dei week-end dormendo ai piedi del letto del piccolo Julian, assicurandosi che il bambino non avesse incubi. Anche se in pratica non si erano mai parlati, Hayden aveva adorato il suo fratellino e nessuno si era mai accorto di nulla fino a un giorno di giugno in cui era stato costretto ad andarsene per sempre, tagliando i ponti con tutti. Per fortuna la sua fuga era coincisa con uno dei periodi di reclutamento dei Navy Seal e lui non era stato costretto a inserirsi nella gang del suo amante del tempo. Quando era entrato nel campo di addestramento e gli avevano dato una branda, era stata la prima volta che aveva dormito da solo su un supporto sollevato da terra. Non era stato facile.

    Per quel motivo la stanza padronale al piano superiore della villetta non era mai stata usata, sebbene Hayden la pulisse e cambiasse le lenzuola regolarmente. A Green Water Town, meno di quattromila anime, non c’erano molti uomini disponibili e lui preferiva farsi un viaggio di qualche ora fino a Burlington o arrivare a New York per avere un fugace rapporto occasionale, piuttosto che complicare la sua esistenza in un paese così piccolo. Di norma riusciva a unire l’utile e il dilettevole trovando sempre dei pezzi interessanti per il suo negozio.

    Distolse i pensieri da Julian, dalla Grande Mela e dalla sua infanzia e cercò di immergersi un po’ nella lettura di uno dei suoi autori preferiti fino a quando non squillò lo smartphone.

    Rassegnato al fatto che quel telefono avrebbe sempre suonato nei momenti meno indicati, rispose senza lasciar trasparire alcuna emozione. «Agente H a rapporto, Signore.»

    «Buonasera, agente. Come te la passi?»

    Se Jason Robinson, il suo capo, avesse potuto vederlo, avrebbe notato il sorriso sarcastico sul volto magro. «Come uno che, dopo un viaggio d’inferno, si apprestava a godere della quiete casalinga, ma che è stato disturbato dal suo superiore. A parte questo, sono sopravvissuto al viaggio di ritorno, Signore, cosa posso fare per lei?»

    «Mi sento quasi in colpa a chiedertelo, ma… devi tornare a Washington. Immediatamente.»

    Senza emettere un solo sospiro, Hayden guardò l’orologio. «Mi permetto di farle notare, Signore, che il primo aereo da Burlington per Washington partirà tra non meno di dieci ore.»

    Scimmiottando il suo tono, e senza nascondere un sorriso nella voce, Robinson replicò: «Mi permetto di farti notare che l’agenzia dispone di una flotta di aerei privati e che ce ne sarà uno ad aspettarti all’aeroporto di Burlington tra due ore. Ti voglio qui tra otto ore al massimo, H, quindi datti una mossa.»

    Hayden sospirò impercettibilmente. «Sì, Signore, mi metto subito in strada.»

    Chiuse la comunicazione e si guardò intorno, andò in cucina, finì di bere ciò che rimaneva del suo Talisker, pulì e ripose il bicchiere e si preparò un termos di caffè. Poi salì in camera, dove teneva una borsa da viaggio sempre pronta e un completo adatto per entrare a Langley senza far venire un travaso di bile alla segretaria di Robinson, si cambiò e spense lo stereo e le luci. Andò quindi in garage e mise in moto la Porsche, salutando mentalmente, con una punta di tristezza, il suo amato pick-up da lavoro. Quando fu sulla strada mise in funzione il sistema di allarme.

    A Green Water Town nessuno aveva mai provato a entrare nel suo rifugio senza permesso, tutti sapevano che arrischiarsi a fare una cosa del genere a misterioso antiquario equivaleva a staccare un biglietto di sola andata per il cimitero. Tutti lo conoscevano come un uomo che, seppur non molto loquace, era sempre disponibile a dare una mano, ma anche come il tipo di persona con cui era preferibile andare d’amore e d’accordo.

    4

    Langley,14 maggio


    Robinson fissò Hayden con il solito ghigno divertito. Aveva l’aria riposata di chi, dopo aver ordinato a un suo agente di viaggiare tutta la notte, se n’era andato a dormire come un bambino. In quel momento Hayden odiava profondamente il

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