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Save the date: Edizione italiana
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E-book252 pagine3 ore

Save the date: Edizione italiana

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Info su questo ebook

Avete presente il patto che fate con il vostro migliore amico d’infanzia?
Quello in cui, se a trent’anni sarete ancora single, soli e senza speranza, vi sposerete tra di voi?
Questa è la storia di ciò che accade quando si arriva al trentesimo compleanno e si deve mantenere quella promessa.

Personalmente, credo che l’amore, il romanticismo e tutte quelle sciocchezze siano un mucchio di... beh, avete capito. E Reese Collins, il ragazzo che mi metteva i vermi nei capelli durante i barbecue in cortile, lo sa meglio di chiunque altro.
Ma quando torna nella stessa città in cui io abito felicemente single da anni, riaffiorano i ricordi dei giuramenti passati. Reese è come un cane con un osso; un cane molto bello e si dà il caso che quell’osso sia io.

Non smette di perseguitarmi e la cosa assurda è che il mio cuore gelido e traditore sta iniziando a cedere… per il mio migliore amico.

Il matrimonio sembra un concetto così lontano quando sei una bambina che gioca a Monopoli in una casetta sull’albero. Ma quando scocca la mezzanotte del tuo trentesimo compleanno e ti rendi conto di non essere mai stata più sola in vita tua, l’idea di percorrere la navata non sembra più così sciocca.
LinguaItaliano
Data di uscita10 feb 2023
ISBN9791220705004
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    Anteprima del libro

    Save the date - Carrie Aarons

    1

    ERIN

    A volte vorrei essere avvisata, o forse solo godermi in modo consapevole il momento prima che accada un evento cruciale.

    Una sorta di sesto senso, una consapevolezza che qualcosa di cosmico sta per accadere. Come il giorno precedente alla mia prima mestruazione. Un cambio di canzone alla radio un minuto prima del mio primo incidente d’auto.

    Oppure i quattro secondi che mi hanno portata a incontrare Reese Collins.

    Ma credo che la vita sia fatta così. E per vita intendo essere messi KO, colti alla sprovvista da un evento a cui non si era preparati. Avrei voluto sapere, in quel momento, l’effetto che questo ragazzo avrebbe avuto sulla mia vita. In quanti guai ci saremmo cacciati, le conversazioni profonde che avremmo condiviso. Il legame duraturo che avremmo creato.

    Ma il tempismo non è mai stato dalla mia parte quando si trattava di Reese.

    Ci siamo incontrati come preadolescenti goffi e trasandati a un barbecue in cortile, costretti a giocare insieme da padri che erano diventati amici per la pelle durante le partite di basket di un campionato maschile molto competitivo. Lui era appassionato di Guerre Stellari, videogiochi e baseball. Io amavo leggere, ritagliare poster della star di turno dalle riviste e giocare con il mio San Bernardo, Waldo.

    Non avremmo potuto essere più diversi, eppure diventammo migliori amici. Inseparabili. Culo e camicia. Una relazione di quelle in cui ci si mette in punizione solo per evitare che l’altro stia da solo.

    Poi il liceo finì e l’università ci piombò addosso come una sveglia che continui a premere per spegnere, senza successo. Eravamo rimasti in contatto, ma quanto possono aiutare gli sms, le e-mail e le telefonate mensili?

    Io rimasi in zona, lui si trasferì. Gli anni, le nuove amicizie e altre persone importanti ci allontanarono ancora di più.

    In questo momento sono seduta davanti al computer, con una sua e-mail aperta sul browser che dice che sta arrivando a Philadelphia per un colloquio di lavoro e mi chiede se sono libera per cena.

    La mia mente vaga al nostro patto e mi chiedo se anche lui ci sta pensando, man mano che il nostro trentesimo compleanno si avvicina. Con due settimane e cinque giorni di distanza l’uno dall’altra, ci tiravamo le orecchie fino a perdere la sensibilità dei lobi.

    L’accordo che avevamo stretto a quindici anni mi balena alla mente mentre sono seduta nel mio appartamento, con le sirene che strillano sulla Center City, dieci piani sotto di me. Le mie mani esitano sui tasti, perché non so come rispondere.

    Arrotolo tra le dita una lunga ciocca setosa biondo grano, un colore che ho strapagato ma che sembra naturale, mentre mi mordicchio il labbro inferiore. Com’è che mamma chiama sempre la mia bocca? Un arco di cupido, a causa del labbro superiore più piccolo e incurvato.

    La pelle sopra la bocca è secca e incrostata da una maschera per il viso che avrei dovuto lavare via venti minuti fa, cosa che non ho fatto perché sono troppo pigra per alzarmi. Ho un aspetto abbastanza gradevole, potrei persino essere bella se riuscissi a truccarmi bene gli zigomi e se i miei capelli non fossero maltrattati a suon di shampoo secco. Le rughe però hanno iniziato a segnare il mio viso mentre mi stavo avvicinando alla fine dei vent’anni. Eppure, ogni settimana mi spunta ancora un brufolo da qualche parte sul viso. Come mai? Vorrei che il mio corpo scegliesse, giovane o vecchia. Non voglio essere infastidita da entrambe le estremità dello spettro.

    Inoltre, mi sono lasciata prendere dal feed di Facebook, guardando cani carini e bambini di persone con cui non parlo da più di dieci anni. Tutta questione di priorità, vero?

    «Che diavolo sto facendo?» Mi prendo mentalmente a schiaffi, perché è ovvio che andrò a cena con Reese quando sarà in città.

    Appoggio le dita sulla tastiera, dita dalle unghie dipinte con uno smalto rosa chiaro e che hanno davvero bisogno di una manicure, e digito un’e-mail di risposta al mio migliore amico.

    Reese,

    Certo che posso cenare con te, ma non sei autorizzato a vantarti di quanto sia stato fantastico il tuo colloquio. Perché sappiamo entrambi che incanterai i guaritori di piccole persone e finirai per farti amare da questa città più di quanto amino me.

    Però offri tu, visto che il settore medico è sicuramente più remunerativo di un giornale in via di estinzione.

    Ti incontrerò solo se mi porterai un muffin da quella pasticceria che mi piace.

    Ti tollero,

    Erin

    P.S.: In realtà non vedo l’ora, prepara gli shottini ai sottaceti.

    L’e-mail è piena di battute che capiamo solo noi e chiudo il portatile sorridendo. Negli ultimi tempi sono diventata troppo cinica, il che significa che probabilmente è passato troppo tempo dall’ultima volta che ci siamo visti. Io e Reese siamo come i poli opposti di una batteria, ci carichiamo a vicenda per essere divertenti ed eccentrici. Anche se di solito lui lo fa meglio di me.

    Sono passati tre mesi da quando sono andata a trovarlo a Dallas e ci siamo ingozzati in quella piccola pasticceria vicino al suo appartamento, dove gli ho confessato il mio amore eterno per i muffin. Non mentivo quando dicevo che avrebbe offerto lui, visto che la mia posizione di direttore editoriale del più grande giornale della città, il Philadelphia Journal, ha più prestigio nel titolo che nello stipendio.

    Mi alzo dal divano grigio scamosciato, il regalo di Natale che mi sono fatta quando l’ho visto in saldo da Pottery Barn, e attraverso il mio modesto appartamento. Non è la scatola di scarpe che avevo affittato quando mi trasferii a Philadelphia dai sobborghi della Pennsylvania. E nemmeno i tre coinquilini inclusi in quell’appartamento; no, ho promesso a me stessa che avrei scelto la solitudine anche se avrebbe inciso un po’ di più sul mio budget rispetto alla convivenza con altri.

    Dopotutto, ho quasi trent’anni.

    Poi, mi torna in mente il patto e cominciano a sudarmi le mani. E se anche Reese lo ricordasse e fosse tornato a riscuotere le promesse fatte in passato?

    Oh, merda. Non sono pronta a dire lo voglio. Soprattutto al ragazzo che mi metteva i vermi nei capelli.

    2

    REESE

    I fumi di scarico caldi di un autobus mi colpiscono in pieno viso. Accidenti, essere di nuovo sulla mia East Coast è bello e allo stesso tempo puzzolente da morire.

    È passato troppo tempo; ho persino sorriso quando l’autista di un Uber, che mi ha scaricato dall’aeroporto in mezzo alla città, ha suonato il clacson e mostrato il dito medio a un’auto in coda. Dallas, il luogo in cui lavoro e abito al momento, è fantastica… ma c’è qualcosa nella schiettezza di Philadelphia e dei suoi abitanti che ho sempre apprezzato. Il sud è amichevole, dai ritmi lenti e tutti sono gentili. Venendo dalla periferia della Pennsylvania, a due passi dalla città dell’amore fraterno, sono cresciuto nel caos, nel linguaggio aspro e nel freddo.

    Attraverso la strada sulle strisce pedonali e aggiungo il fatto di non dover pagare l’auto ai vantaggi di accettare un lavoro qui. L’ospedale pediatrico di Philadelphia incombe su di me mentre l’umidità si deposita in ogni fessura del mio vestito. Raddrizzo le spalle. Fa un caldo infernale, ma sarei un idiota se non indossassi una cravatta e una giacca elegante per il colloquio. Questo ospedale è un sogno, soprattutto per un infermiere di terapia intensiva neonatale, che è ciò che ho fatto negli ultimi otto anni. È il pesce grosso dei lavori nel mio campo e voglio prenderlo all’amo come se fossi Moby Dick.

    Mi presento al banco dell’accettazione e dico alla receptionist che sono qui per un colloquio.

    «A che piano?» mi chiede, senza nemmeno alzare lo sguardo.

    Mi faccio coraggio, assicurandomi che la mia fossetta faccia una comparsa quando Dorothy, come dice il cartellino, alza lo sguardo. «Il reparto di terapia intensiva neonatale, spero di entrare a far parte dell’équipe.»

    Questo mi fa guadagnare un sorriso e non importa cosa pensi la receptionist di me, ma lo considero un punto a favore nella mia scheda di valutazione di questa giornata di colloqui.

    Dorothy mi dice di aspettare nell’atrio e che Joann Callens, presidente delle risorse umane, scenderà a breve.

    Vado in bagno per asciugarmi il sudore dal collo e lavarmi le mani prima che Joann scenda. Mi guardo allo specchio dopo aver fatto pipì ed essermi sciacquato il viso. Vedo riflessi nello specchio gli stessi occhi verde chiaro e gli stessi capelli castano scuro, quasi neri, ma posso dire di avere un aspetto stanco. In parte per il volo e in parte per la discussione che ho avuto con Renée poco prima di imbarcarmi.

    Sono forse pazzo per aver preso in considerazione l’idea di tornare a casa, e di lasciarmi alle spalle praticamente tutta la mia vita?

    A dire il vero, il trasferimento non poteva arrivare in un momento migliore. L’ospedale in cui lavoravo sta fallendo, nonostante tutto quello che abbiamo fatto per salvarlo. Stanno per essere inglobati in una multinazionale, e tutti sappiamo cosa succede quando quegli avvoltoi arrivano e fanno a pezzi un ospedale e il suo personale.

    La vita a Dallas è diventata monotona e, da nativo della East Coast, mi manca la neve. Sono sicuro che non mi mancherà dopo aver camminato su due metri di neve per andare al lavoro dopo la prima tempesta, ma sarebbe bello avere delle vere e proprie stagioni. E smettere di dover camminare in modo buffo per sette mesi l’anno perché mi sudano le palle.

    Ma soprattutto, le cose con Renée sono… complicate.

    Dopo due anni di frequentazione saltuaria, vuole un anello. E anche se lei mi rende felice e credo di amarla, c’è qualcosa che mi frena. Forse è il modo in cui cerca di costringermi a fare quello che vuole. O il fatto che non sopporta di guardare nemmeno un minuto delle partite dei Phillies in TV, anche se io mi sorbisco ore e ore dei suoi reality trash.

    Ma non si tratta solo di piccole cose stupide come queste… quando la guardo, non vedo la mia futura moglie. È una cosa orribile da dire di qualcuno che dovrebbe essere, ed è stata, la tua compagna per molto tempo… ma è così.

    Ci siamo presi una pausa, la quinta quest’anno ed è solo giugno. Questo la dice lunga. Si è arrabbiata perché ho accettato un colloquio così lontano, perché ho pensato di prendere e andarmene senza considerare lei e la nostra relazione. In realtà l’ho presa in considerazione, solo che non sono arrivato alla conclusione che voleva lei.

    Sto aspettando da solo cinque minuti nell’atrio quando arriva Joann.

    «Piacere di conoscerti, Reese. Sono Joann Callens.» È una donna anziana che si avvicina a me con passo sicuro e si capisce che fa sul serio. Il tailleur pantalone, il distintivo dell’ospedale che le pende dal collo, il caschetto di capelli lisciati alla perfezione.

    Ma il sorriso sul suo volto è accattivante ed è l’unica cosa che mi impedisce di mettere in dubbio le mie possibilità qui. Questa donna conosce il suo potere, sa come esercitarlo, lo si percepisce. Ma si spera, e sembra che sia così, che Joann Callens sia abbastanza equa da considerare tutti gli aspetti della mia personalità e del mio lavoro.

    «Grazie per avermi permesso di fare un colloquio per questa posizione.» Le stringo la mano tesa, cercando di eguagliare la forte presa che mi restituisce.

    «Spero che abbia fatto buon viaggio, lei è di qui, giusto?»

    Annuisco, sorridendo. «Sono cresciuto appena fuori città. Sono un fan del ristorante di Jim da sempre, quindi se mi dice che le piace Pat o Gino, potrei dover riconsiderare la mia domanda di ammissione.»

    La scelta di un locale che serve cheesesteak, il tipico sandwich alla carne e formaggio, da parte di un filadelfiano la dice lunga su di lui.

    Joann esita un attimo e poi sorride. «Anche a me piace Jim, quindi penso che siamo già partiti con il piede giusto.»

    Mi fa fare un giro dell’ospedale, indicandomi piani e stanze, salutando il personale e illustrandomi i loro obiettivi futuri. Cerco di non rimanere a bocca aperta di fronte alla tecnologia di punta di cui dispongono. L’ospedale in cui lavoro ora è buono, ma questo posto lo fa sfigurare.

    Finalmente arriviamo a destinazione, la stereotipata sala conferenze in vetro che si affaccia su un cortile laterale dell’ospedale. Mi chiedo spesso il motivo di questi cortili e il motivo per cui ospedali li costruiscano. Forse gli architetti o le persone che non lavorano nel settore medico pensano che saranno utilizzati come spazio all’aperto per le famiglie dei pazienti o per il personale durante le pause. Mi mordo la lingua per non sorridere, perché nessuno li usa mai. Sono troppo preoccupati di ciò che accade all’interno delle mura dell’ospedale, che si tratti di familiari o di pazienti.

    Joann inizia con le solite domande: mi chiede della mia carriera finora, quali sono i miei punti di forza e di debolezza, cosa farei in questa o quell’altra situazione, e via dicendo.

    E poi mi chiede perché sono entrato in questo campo, l’unica domanda che ha un significato profondo per un candidato infermiere maschio. Che sia giusto o meno porla.

    «Beh, so che non può chiedermelo in un colloquio, ma probabilmente vorrà sapere perché un uomo dovrebbe voler diventare un infermiere. Tantopiù un infermiere di terapia intensiva neonatale.» Inclino la testa verso di lei, sapendo che la maggior parte delle persone è scioccata dal fatto di trovare un uomo in questo tipo di lavoro. «Innanzitutto, sono un infermiere perché amo lavorare con i pazienti a un livello più intimo di quello consentito dal lavoro di un medico. Mi piace conoscere le loro stranezze e le loro personalità, tenere loro la mano quando devo usare l’ago o scherzare con loro quando finalmente possono mangiare un pasto dopo un’operazione.»

    Guardo Joann sporgersi in avanti e so che pende dalle mie labbra. Non sto mentendo, lo penso davvero. Amo il mio lavoro. Ma so vendermi davvero bene, soprattutto quando sto cercando di ottenere qualcosa che desidero davvero.

    Proseguo: «Amo quello che faccio. Mi impegno con passione e faccio di tutto per far sentire i miei pazienti a loro agio, anche se si tratta di neonati di due giorni. Penso che ci sia un equilibrio delicato quando si lavora in terapia intensiva neonatale, perché in realtà si hanno due pazienti, anche se si è incaricati di curarne uno solo. I genitori sono l’altra priorità, e io mi sento molto bene quando riesco ad aiutare questi genitori, che sono allo stesso tempo addolorati e felici, a legare con il loro piccolo nel modo più normale possibile, data la loro situazione medica.»

    Quando finisco la mia piccola diatriba, non interrompe il contatto visivo con me, ma si appoggia all’indietro sulla poltrona e mi studia, un leggero sorriso sul viso. E io so di aver fatto centro. Non sono presuntuoso, solo sicuro di me.

    Ci sono alcune cose in cui sono molto bravo e so quali sono. Fare l’infermiere e la capacità di sostenere una conversazione sono due di queste.

    In quel momento mi viene in mente la voce di mia madre: «Non dubitare mai delle cose in cui sai di essere bravo. Ci sono già abbastanza cose per cui sentirsi in imbarazzo, non lasciare che siano i tuoi punti di forza.»

    Non avendo mai avuto una figlia, credo che lei abbia rafforzato troppo la mia stima con i discorsi sulla fiducia in sé. Ma non posso dire che non abbiano funzionato.

    Dopo altri cinque minuti di chiacchiere, Joann si alza e mi tende la mano. «Le faremo sapere. Grazie per essere venuto, Reese.»

    Quando esco dall’ospedale, mi scrollo di dosso il nervosismo del colloquio. Il mio corpo si rilassa e avverto un improvviso e disperato bisogno di una birra.

    E poi penso a Erin. E al patto. E mi chiedo se ci abbia pensato da quando le ho detto che sarei venuto in città.

    3

    ERIN

    Il sole sta tramontando sulla città, facendo scintillare gli infissi metallici delle finestre sugli edifici, quando apro la porta del ristorante di pesce in cui ho prenotato.

    «È bello vedere che sei in ritardo come al solito, Carter.» Per poco non vado a sbattere contro Reese, che mi sta aspettando all’ingresso.

    Alzo le mani, ansimando. «Scusa, scusa, ci sono state delle modifiche dell’ultimo minuto sul giornale di domani e ho dovuto fare un po’ di aggiustamenti. E non chiamarmi per cognome, sai che lo odio.»

    Mi scosto i capelli annodati dal viso e respiro a fatica, un effetto collaterale dell’aver corso e del fatto che non mi alleno da chissà quanto tempo. Non faccio esercizio, eppure la quota per l’abbonamento in palestra esce dal mio conto in banca ogni mese. Dovrei fare qualcosa al riguardo.

    Solo in quel momento guardo davvero il mio migliore amico. Ogni volta che vedo Reese da adulto, resto sconvolta. Quando non sono con lui, lo penso in termini infantili, al modo in cui appariva quando andavamo a pesca di pesciolini al ruscello o quando le lucciole gli lampeggiavano intorno al viso in una notte d’estate.

    Vedendolo uomo… rimango sempre un po’ sconcertata da quanto sia attraente. Credo che sia sempre stato carino, con il suo fascino fanciullesco, la fossetta, i capelli castani spettinati alla perfezione e corti ai lati. Ma con l’avanzare dell’età, ciò che succede agli uomini ha cominciato a succedere a Reese. Ha un aspetto più robusto, le sue spalle si sono riempite e i muscoli hanno preso il posto del ragazzino esile che conoscevo un tempo. Una barbetta

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