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Ti prego non spezzarmi il cuore
Ti prego non spezzarmi il cuore
Ti prego non spezzarmi il cuore
E-book509 pagine7 ore

Ti prego non spezzarmi il cuore

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Info su questo ebook

Ero solo una bambina quando ho deciso che da grande avrei sposato Toren Grace. Al compimento del mio diciottesimo compleanno, mi sono accorta che era quello che volevo sul serio. Il problema? Ha quindici anni più di me. Ed è il migliore amico di mio padre. Toren è la persona più affidabile che conosco e anche se so che è l'ultimo uomo sulla faccia della terra che dovrei desiderare, non posso fare a meno di pensare a lui. è protettivo, rassicurante e possiede uno straordinario senso di lealtà. Ecco perché, quando l'ho baciato, ho mandato in tilt il suo mondo. Negare quello che entrambi abbiamo sentito, è impossibile. Ma Toren non rischierebbe mai l'amicizia con mio padre e fa il possibile per starmi lontano. Io, però, sono determinata. Perché non ho intenzione di rinunciare alle scintille che ho sentito quando ci siamo baciati.

Carian Cole
è nata e cresciuta nel New Jersey e adesso vive con il marito nel New Hampshire, circondata da una moltitudine di cuccioli. Ha una passione per i libri con protagonisti tatuati, selvaggi e un po' sfrontati. 
LinguaItaliano
Data di uscita30 gen 2019
ISBN9788822730855
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    Anteprima del libro

    Ti prego non spezzarmi il cuore - Carian Cole

    1

    Kenzi. Un giorno

    Toren. Quindici anni

    «Vogliamo che tu sia il suo padrino», dice Asher mentre posa delicatamente la neonata tra le mie braccia. Per rivolgermi a lui dalla sedia su cui la sto cullando, sono costretto a distogliere lo sguardo dagli occhi incantatori della bimba.

    «Io?», ripeto, lanciando un’occhiata a Ember nel suo letto d’ospedale, che replica con un sorriso stanco, ma sincero.

    «Sì, tu», rispondono entrambi all’unisono. «Se non fosse stato per te, probabilmente non ci saremmo mai conosciuti», aggiunge Ember, afferrando la mano di Asher. «E non avremmo avuto questa bellissima bambina. Siamo certi che la proteggerai».

    «Esatto, amico. Sei lo zio Tor, adesso».

    Sono zio. E i miei due migliori amici sono genitori. E non abbiamo nemmeno sedici anni, cazzo.

    Ma Kenzi Allyster Valentine ci cambierà per sempre. È necessario.

    «Wow, sono lusingato, ragazzi. Ci sarò sempre per lei, senza alcun dubbio».

    Respingo la fitta che mi colpisce allo stomaco. Non ho avuto la ragazza… ma ho avuto qualcosa di meglio che non mi sarei mai aspettato. Un dono dalle sembianze di una minuscola manina stretta intorno al mio dito, occhi enormi come gemme che fissano i miei come fossi la persona più fantastica in questo cavolo di universo e un primo accenno di quello che sapevo sarebbe diventato un sorriso da mozzare il fiato.

    In quel momento, si è creata una connessione.

    È fatta.

    Mi ha conquistato.

    Mia nipote.

    La mia figlioccia.

    L’amore della mia vita.

    Kenzi

    Salto giù dalla motocicletta e mi passo le dita tra i capelli all’altezza delle spalle per districare il casino di nodi. In moto il vento è crudele con i miei capelli e li trasforma in una balla di fieno in meno di cinque minuti. Afferrandomi i fianchi, Jason mi tira a sé e mi pianta sulle labbra un bacio secco che sa della polvere della strada.

    «Kenzi!». Una profonda voce maschile risuona dal fondo del vialetto, facendo sobbalzare entrambi. «Se vedo un’altra volta il tuo culo su quella moto, farai i conti con me».

    Le dita di Jason, che si erano fatte strada fino al mio sedere, vengono velocemente ritirate. «Porca puttana, è tuo padre?», chiede bisbigliando.

    Sospiro e scuoto la testa. Mio padre non è il tipo che alza la voce. A meno che non sia sul palco, ovviamente. Ma mai nel vialetto. E mai rivolgendosi a me. «No, è solo mio zio».

    Jason dà un’occhiata a Toren prima che il suo sguardo si posi ancora su di me. «Non è il tizio che possiede il negozio di motociclette in città? Credo di aver comprato la mia da lui».

    «Sì… Ma non siamo veramente parenti, è il miglior amico di mio padre».

    Tor continua a percorrere il vialetto nella nostra direzione; i suoi stivali di pelle nera pestano pesantemente la pietra, gli occhi fissi sul ragazzo le cui mani un attimo prima erano addosso alla sottoscritta. «Mi hai sentito?». Punta un dito contro Jason, con i muscoli che si tendono minacciosi lungo il braccio tatuato. «Non voglio più vederla su quella cazzo di motocicletta».

    «Sì, signore», risponde Jason, visibilmente pallido.

    «Meglio che vada in casa prima che cominci a schiumare dalla bocca». Mi metto la tracolla della borsa sulla spalla. «Divertiti stasera alla festa».

    «Potresti venire alla festa con me». Lo scintillio ammiccante dei suoi occhi e il sopracciglio leggermente inarcato sembrano riferirsi a qualcosa di più di una semplice festa e, anche se dovrei saltare di gioia per l’occasione, dato che è uno dei ragazzi più belli della mia classe, sembrava più interessante visto da lontano. Prima di dimostrare di non saper baciare e di avere capacità comunicative pari a zero. Preferisco di gran lunga stare a casa a leggere un libro o passare il tempo con gli amici di mio padre che vengono per un falò.

    «Non posso proprio, Jase. Mi dispiace». Per niente. «Ti chiamo».

    Prima che Jason abbia modo di replicare, mi incammino lungo il vialetto di sanpietrini, rivolgendo occhiate pungenti a Toren quando lo affianco.

    «Ehi, ascoltami». Si gira e mi raggiunge non appena Jason sgomma via. «Quel ragazzino ha appena preso la patente per la moto. Non puoi salire dietro un tizio che sa a malapena guidare. È troppo irresponsabile. Potresti farti ammazzare. Puoi venire in moto con me, con tuo padre o i tuoi zii, ma non con un cazzo di ragazzino».

    «Non abbiamo fatto neanche dieci chilometri dalla scuola a qui. Smettila di rimproverarmi, non sei mio padre», controbatto.

    «Lo sono quasi. Dico sul serio, stai lontana da quella moto».

    «Va bene, zio Tor. Non ti arrabbiare».

    «Non mi hai ancora visto arrabbiato». Quando raggiungiamo casa, corre avanti a me e sale le scale del patio sul retro per aprirmi le portefinestre che conducono in cucina. All’interno, alcune borse della spesa sono in fila sull’isola di granito. Due volte al mese, a mio padre piace invitare i suoi amici e i membri della sua band per stare insieme in giardino, mangiare, bere qualche drink, farsi un tuffo in piscina e suonare un po’. Toren di solito porta il cibo, l’alcol e prepara tutto.

    Dovrei aiutarlo a mettere a posto la spesa, ma non sono dell’umore adatto. Voglio solo stare un po’ da sola, per cui sparisco in corridoio e poi su per le scale, chiudendomi alle spalle la porta della mia camera. Dopo essermi tolta le scarpe, crollo sul letto e fisso il soffitto a volta. Manca solo un mese al diploma e poi potrò fuggire dai drammi del liceo, dai falsi amici e dai maschi che palpeggiano di continuo e non sanno baciare.

    Cosa farò dopo? Non ne ho la più pallida idea. So solo che voglio lasciare la scuola e le persone che la frequentano.

    Non mi sento a mio agio con loro. Mai sentita. I miei genitori avevano solo quindici anni quando mi hanno avuta. Loro stessi andavano ancora al liceo, lo stesso liceo in cui sto per diplomarmi, per la precisione. Alcuni miei professori sono stati anche i loro professori e, ovviamente, tutto il corpo docenti lo sa. È un po’ strano pensare che mia madre era incinta di me e sedeva nelle stesse aule in cui siedo io ora. Forse è per questo che sono così intelligente – andavo al liceo già nell’utero.

    Sono nata in una famiglia di persone discretamente famose. Mio nonno è un popolare cantante e autore degli anni Settanta e mia nonna è una scrittrice di best seller d’amore che ha pubblicato più di un centinaio di libri, venti dei quali trasposti in film per la tv. I miei genitori hanno formato una rock band quando avevano diciassette anni e sono entrambi diventati musicisti conosciuti. La band di mio padre, Ashes & Embers, è ora composta dai suoi tre fratelli e due cugini. Io sono cresciuta nel bel mezzo di tutto questo. Quando avevo dieci anni, non ero certo estranea ai tour in pullman, ai concerti rumorosi, alle droghe e ai drammi. Ma, nonostante tutto questo, sono stata amata e coccolata. Ero la piccolina di tutti, in realtà. Tutti si prendevano cura di me. Non ero tenuta lontana da ciò che mi accadeva intorno e non perché i miei genitori fossero negligenti o irresponsabili. Volevano solo che facessi parte di tutto ciò che li riguardava. Mi esponevano alle cose della vita prima ancora che potessi capirle appieno, ma con il tempo tutto quadrava e riuscivo a digerirle. Credo che questo mi abbia resa più matura e più saggia di quanto dovrei essere, il che mi ha allontanata dai ragazzi della mia età.

    Non ci ho messo molto a capire che alcuni mi ronzavano intorno solo per le mie parentele. Molti ragazzi fingevano di essermi amici per avere biglietti dei concerti, magliette, autografi, o per vedere com’era fatta la nostra casa all’interno – sì, è grande e ha un piccolo studio di registrazione al piano inferiore, ma non è che qui accada niente di particolarmente eccitante. I maschi fingevano di farmi la corte per indurmi a dare i loro demo a mio padre o per incontrare le affascinanti donne della band di mia madre, le Sugar Kiss. Le ragazze del liceo, invece, speravano di incontrare i miei fighissimi zii rockstar o, peggio ancora, mio padre. Non so mai di chi posso fidarmi o chi voglia essermi amico semplicemente per quella che sono. Perciò, quando non passo il tempo con la mia migliore amica, Chloe, e con la sorella minore di mio padre, Rayne, sto principalmente a casa a divertirmi con la mia famiglia, la band e i loro amici. Solo con loro mi sento veramente a mio agio.

    La mia tasca vibra e tiro fuori il cellulare per leggere un messaggio.

    Chloe: Jason ha detto che non vieni stasera!.

    Io: No, non sono dell’umore adatto per una festa.

    Chloe: Dài! È venerdì sera! :) A Jason piaci molto.

    Io: Eh….

    Chloe: Non rovinare tutto! Questa è la tua occasione per perdere la grande V… È un cacchio di figo!.

    Non capisco perché Chloe non riesca a scrivere semplicemente cazzo. Ma non importa. La accetto così com’è perché le voglio bene. Ci siamo legate inizialmente in terza elementare, quando il primo giorno arrivammo accompagnate lei dalle sue due mamme e io da mio padre, che al tempo era già ricoperto di tatuaggi e portava i capelli lunghi fino alla vita. La nostra comune estraneità portò me e Chloe ad affezionarci l’una all’altra, mentre gli altri bambini ci evitavano come fossimo fenomeni da baraccone.

    Io: Basta con questa grande V. Sei ossessionata!.

    Chloe: Va bene. Ma vieni alla festa. Ci vado anch’io, ci divertiremo. Non puoi stare sempre a casa.

    Io: Davvero, non sono in vena stasera.

    Chloe: Ogni ragazza alla festa ci proverà con Jason.

    Io: Ci vediamo solo da due settimane. Non mi interessa cosa fa o chi si fa.

    Chloe: Dovrebbe, e vedrai che ti importerà! Ci sentiamo più tardi. tvb.

    Io: tvb anch’io.

    Non ho alcun interesse ad unirmi alla corsa alla perdita della verginità prima del diploma e nemmeno voglio essere solo un’altra tacca sulla cintura di qualche ragazzo prima che vada al college. Finora i baci di Jason non mi hanno fatto provare niente. Per adesso, mi basta vivere attraverso i romanzi d’amore che mia nonna mi invia sul Kindle, ma è comunque triste che i baci dei libri siano più eccitanti di quelli nella vita reale. Almeno per me.

    Musica, risate e voci mi destano dal sonno in cui sono sprofondata dopo aver messaggiato con Chloe quasi quattro ore fa. Mi meraviglia che mio padre non mi abbia svegliata appena uscito dallo studio, ma forse sta finalmente imparando a rispettare il mio chiudere la porta.

    Mi metto seduta, getto uno sguardo sul cellulare e vedo un nuovo messaggio arrivato circa un’ora fa.

    Jason: Sono alla festa. Vuoi che venga a prenderti? In macchina, ovviamente ;) Ci divertiamo.

    Scrivo una risposta veloce.

    Io: Grazie, ma sto bene così. Sono un po’ stanca stasera. Ti chiamo domani.

    Jason: Ok! ;) Mi raccomando, chiama ;).

    Non so bene neanch’io perché non faccio che evitarlo anziché cercare di divertirmi con lui. È carino e quasi sempre gentile. È popolare. Piace a tutti. Non credo mi stia usando per avere dei biglietti, il che è un grande valore aggiunto. Resta ancora un mistero per me, però, se voglia rendermi una tacca sulla sua cintura o se gli piaccia veramente. I suoi baci sono decisamente noiosi, ma immagino possa migliorare con il tempo. Forse è nervoso?

    O forse sono io.

    Dopo aver infilato le scarpe da ginnastica, vado di sotto, attraversando la cucina e le portefinestre fino al patio sul retro che dà sul giardino. Il sole è tramontato, ma il giardino è illuminato da varie luci nascoste nel paesaggio, da fiaccole sparse qua e là, dal braciere scoppiettante e dal freddo bagliore blu della piscina interrata.

    Non è un segreto che mio padre abbia fatto molti soldi grazie al successo strameritato della sua band. Mio padre o il modo in cui si comporta sul palco non mi hanno mai imbarazzata in tutta la mia vita. Non beve, non si droga, non fa cazzate. Gli altri miei zii nella band hanno avuto negli anni i loro momenti di pazzia, ma papà mai. Non pensa che al lavoro.

    Sono viziata? Non direi. Mio padre non mi comprerà un’automobile fino a dopo il diploma e solo se i miei voti restano buoni e se lavoro per pagarmi da sola la benzina e l’assicurazione. Ho una carta di credito con un limite così alto che potrei comprarmi una piccola isola, ma non ne abuso. Rispetto mio padre e la fiducia che ripone in me quel tanto che basta per non impazzire e andare a spendere cinquemila dollari in trucco e scarpe. Sono convinta che la fiducia che ci viene accordata sia un dono, proprio come l’amore. Amare e fidarsi di qualcuno significa dargli a sua volta fiducia, ed è una cosa che apprezzo molto di più delle cose materiali. Preferisco tutta la vita la fiducia a un paio di scarpe.

    Ci sono tipo una ventina di persone che socializzano nel mio giardino; alcuni accanto al fuoco, altri ai tavoli sul patio, altri ancora seduti sotto il gazebo a cantare e suonare strumenti acustici. Riconosco mio padre accanto al gigantesco barbecue in pietra, che gira bistecche e hamburger.

    «Ehi, ragazzina! Hai fame?», mi chiede non appena mi vede.

    «No, magari più tardi».

    «C’è l’insalata». Fa segno verso un tavolo su cui sono disseminate ciotole con vari tipi di frutta e verdura.

    «Ne mangio un po’ più tardi. Non ho molta fame ora».

    Mi osserva per qualche secondo. «Ti senti bene?». La sua faccia assume la tipica espressione di chi non ha idea di come comportarsi con un’adolescente indisposta o di malumore.

    Sorridendo, gli afferro il braccio e mi avvicino per dargli un bacio sulla guancia. «Tranquillo, papà. Ho mangiato un gelato tornando a casa da scuola».

    Si allontana dal calore del barbecue e si scosta i lunghi capelli castani dalla faccia. «Con quel ragazzino, Jason? Su una moto?».

    Al diavolo Toren e la sua boccaccia. «Sì, ma solo da scuola. Non è molta strada. E comunque, che cavolo, Tor deve per forza dirti tutto quello che faccio?»

    «Non tutto, solo le cose stupide», dice con un largo sorriso. «Ha ragione, però. Stai lontana da quella moto. Non vogliamo che tu ti faccia male».

    Parla al plurale. Praticamente sono stata cresciuta da tutti e da nessuno.

    Papà non sta con Toren. È al mille per mille innamorato perso di mia madre. Mia madre, il suo amore adolescenziale. Ma lei non è più con noi e mio padre è una rockstar trentaduenne, con una figlia di diciassette anni, che cerca di fingere di non essere devastato e sull’orlo di una crisi di nervi. Ma io lo conosco bene. Ha paura che possa accadere qualcosa anche a me. Che un momento io sia con lui e il seguente non ci sia più. E non lo biasimo per questa sensazione, perché la provo anch’io.

    Quando perdi qualcuno che ami senza spiegazioni, senza un addio, senza una vera fine, resti bloccato in un limbo logorante. Non sai se aggrapparti al barlume di speranza che quel qualcuno possa tornare o lasciarti andare al dolore e accettare che se ne è andato per sempre. Perciò barcolli tra le due emozioni finché non diventi matto.

    Lascio andare un sospiro. Non posso pensare o parlare di mia mamma senza crollare io stessa, perciò sono entrata in una fase di negazione e non affronto la cosa. Lei è via. Come in una lunga vacanza senza accesso al telefono. È più facile così.

    «Ok. Niente più moto, papà. Promesso». Non mi pesa placare la sua iperprotettività nei miei confronti perché ha già fin troppo stress nella sua vita.

    Le larghe spalle si rilassano di nuovo e mi rivolge un sorriso che gli illumina il viso e gli addolcisce gli occhi. È il sorriso riservato a me e mia madre, che ogni volta mi fa sciogliere il cuore. Mio padre è un uomo incredibilmente bello, ha quell’aspetto che fa sì che le donne si fermino a fissarlo con gli occhi spalancati, la bocca aperta e il cuore che scalpita. Alcune gli chiedono addirittura di potergli toccare i capelli o le braccia tatuate, mentre altre desiderano solo che sia lui a guardare loro per catturare quello sguardo proveniente dai suoi occhi espressivi. La sua bellezza non si vede soltanto, si percepisce, come una brezza calda che ti accarezza l’anima. O almeno, è così che una volta una giornalista lo ha descritto dopo avergli fatto un’intervista.

    Riempio un piattino con un po’ di frutta per farlo contento, poi avvisto Tor seduto da solo a bordo piscina. Attraverso il giardino, fermandomi a prendere una birra in una delle borse frigo. Il chitarrista di un’altra band locale è seduto su una sdraio proprio accanto al minifrigo. Probabilmente perché così non deve alzarsi per prendersi un altro drink. Che pigro.

    «Come va, Finn?». Agito la bottiglia per far cadere il ghiaccio.

    Mi risponde con un gesto della mano che tiene il drink. «Kensington».

    «Fai la guardia alla birra?», lo stuzzico.

    «Può essere. Non è per te quella, vero?», mi guarda con sospetto. «L’ultima volta che ho controllato non avevi ancora ventun anni, ragazzina».

    «No, è per Toren».

    Gli compare un sorrisetto sulle labbra. «Se stai giocando alla cameriera, allora prendo una bistecca al sangue e delle patatine fritte».

    «Bel tentativo, Finn».

    Ride e mi lancia una patatina mentre mi allontano.

    Toren è ancora per terra a fissare la piscina quando mi siedo accanto a lui a gambe incrociate. La piscina è riscaldata, ma non ci è ancora entrato nessuno. È inizio primavera, per cui l’aria è un po’ troppo fredda perché la gente abbia voglia di nuotare. Delle foglie vaganti galleggiano in superficie, dandomi un senso di pace. Non si immergono, non volano via. Semplicemente galleggiano, senza peso e senza sforzo. Vorrei essere una foglia.

    Offro a Tor la bottiglia fredda e lui la prende, usando il suo portachiavi per stapparla.

    «Pensavo ce l’avessi con me». Ne beve un lungo sorso prima di guardarmi di sottecchi. È facile capire perché Jason fosse spaventato da lui; esteriormente, Tor sembra proprio uno duro. È un armadio senza un grammo di grasso sul corpo robusto e duro come una roccia, ricoperto di inchiostro dal collo alle nocche. Ondulati capelli castani gli arrivano alle spalle. Di solito li porta legati in una corta coda per non averli in faccia mentre lavora o per non farli annodare quando è in moto. Tutti sanno che indossa regolarmente occhiali scuri per proteggere degli occhi ancora più scuri e che il suo mezzo preferito è una Harley personalizzata che in strada ruggisce così forte che a malapena si possono sentire i propri pensieri. Ma nell’animo è un tipo tranquillo. Riflessivo. Incredibilmente affettuoso e generoso. Diversamente da mio padre, Tor possiede una bellezza rude, quasi intimidatoria. Chloe lo ha soprannominato l’orgasmo che cammina. Mi sa che è davvero troppo fissata col sesso ultimamente.

    Metto da un lato la mia ciotola di frutta. «Dovresti conoscermi».

    «Non avrei dovuto metterti in imbarazzo davanti al tuo ragazzo».

    Mi passa la bottiglia e io bevo un sorso. La birra non mi piace per niente, ma ogni tanto la assaggio pensando che magari un giorno il sapore cambierà e comincerà a piacermi come al resto del mondo. Ma no. Mi fa ancora schifo.

    «Non è il mio ragazzo».

    «Davvero? Mi sembravi molto presa da lui qualche settimana fa. Ricordo distintamente dei versetti e una danza della felicità quando ti ha chiesto di uscire».

    Sospiro un po’ imbarazzata a quel ricordo così colorito e gli ripasso la birra; le nostre dita si toccano sulla bottiglia fredda e umida. «Lo ero, finché non l’ho conosciuto meglio. Non c’è niente. Non provo niente. Non lo trovo interessante. È solo… bleah». Simulo un sussulto.

    Tor ride e scuote la testa. «Deve essere una cosa contagiosa, allora. È esattamente quello che Lisa ha detto a me qualche giorno fa».

    «Vi siete lasciati?»

    «Non stavamo esattamente insieme, Kenz. Stavamo valutando se poteva funzionare. Testando le acque».

    Prendo una grande, succosa fragola dal mio piatto e ne mordo metà. «Cos’ha detto?».

    Guarda per un attimo il cielo prima di rispondere. «Allora, vediamo. Aveva una lista intera, in verità. Ha detto che non do abbastanza. Non comunico abbastanza. Sono troppo freddo e riservato. Troppo silenzioso. Lavoro troppo. Non sorrido abbastanza. Non mi vesto abbastanza bene». Alza le spalle. «Nulla che non abbia già sentito».

    «Non sei affatto freddo, zio Tor. Semplicemente non sei il tipo che parla per il gusto di parlare. Parli quando hai davvero qualcosa da dire. Forse è solo arrabbiata perché non le dici quello che vorrebbe sentire».

    «A quanto pare, non ho mai molto da dire e, quando ce l’ho, non è quello che gli altri vorrebbero sentire. Anche lei mi ha detto più o meno le stesse cose…». Alza il mento e fa un cenno in direzione del giardino, gli occhi puntati sulla ragazza che sta parlando con mio padre, Sydni, che con la sua lunga chioma rosso fuoco che le scende sulla schiena somiglia a una sirena. Zia Sydni suona il basso nella band di mia mamma ed è la sua migliore amica. E negli ultimi dodici anni è stata spesso fidanzata con Toren. Ma non sempre.

    Ultimamente, però, per me è la donna innamorata di mio padre, anche perché non è molto brava a nasconderlo.

    Eh sì, la mia vita è proprio una soap opera.

    «Lo ha detto anche Sydni?», chiedo.

    «Sydni ha detto moltissime cose nel corso degli anni, ma sappiamo entrambi qual è il nocciolo della questione. Non sono lui. Non sorrido come lui, non parlo come lui, non la faccio ridere come fa lui, non sono ricco come lui. Non reggerò mai il confronto. Bla, bla, bla. Per lei non sono che uno sporco meccanico che rincorre animali». Tracanna la birra che ora mi pento di avergli dato.

    «Lui non la vuole, zio Tor», gli dico, cercando di calmarlo. «La vede soltanto come un’amica».

    «Lo so. Cazzo, lo sanno tutti. Ma ciò non cambia quello che prova lei».

    «Magari potete riprovarci. Sono passati un paio di mesi da quando vi siete lasciati, magari la pensa diversamente ora. A volte bisogna perdere qualcosa per cominciare ad apprezzarla, sai? Sa che ti stavi vedendo con Lisa. Magari questo le ha fatto aprire un po’ gli occhi. La gelosia può essere di grande ispirazione».

    Un ghigno si spande sul suo viso. «Sei davvero una ragazza intelligente, Kenz. Ma quella nave ha levato l’àncora. Non voglio stare con una donna che è innamorata di un altro. Che vada al diavolo».

    Sono d’accordo. «Non ti biasimo. Meriti di meglio. È una stupida».

    È difficile amare così tante persone, volerle vedere felici, ma comunque non condividere alcune cose che fanno. Mia madre sarebbe molto delusa se sapesse che Sydni corre dietro a mio padre e che sta facendo sentire Tor come se non fosse abbastanza. Voglio vedere mio padre di nuovo felice e, sebbene lo ammiri per la sua fedeltà a mia mamma, mi domando per quanto ancora si torturerà non permettendo a se stesso di andare avanti. Non voglio che vada avanti con Sydni, però. Non perché non mi piaccia, in realtà mi piace. È solo che sarebbe troppo contorto. Sydni è la migliore amica di sua moglie e l’ex del suo migliore amico.

    Vivo in un profondo, oscuro, sconcertante mare di persone. Alcune sono stelle marine e altri squali. Io ondeggio sulla mia piccola zattera; e intanto osservo e imparo.

    Sfregandomi le braccia scoperte, mi porto le ginocchia al petto e guardo mio padre allontanarsi da Sydni e portare la sua chitarra acustica sotto al gazebo per unirsi agli altri in vecchie canzoni rock. Lei non lo segue. Ottimo.

    «Hai freddo?»

    «Un pochino», rispondo. «Quando tira il venticello, fa freschetto».

    Si sfila il maglione grigio che indossa sopra la maglietta e me lo porge. «Tieni, mettilo».

    Esito prima di accettare. «Ma così avrai freddo tu».

    Aggrotta le sopracciglia, come se fosse troppo figo per sentire freddo. «Sto bene. Mettilo».

    Lo prendo, lo faccio scivolare sulla testa e un brivido mi percorre, ma non per il freddo. Il calore del suo corpo è ancora impregnato nel tessuto della felpa e mi riscalda come fosse un abbraccio. Infilo le mani nelle maniche decisamente troppo lunghe per me e arrotolo i polsini.

    «È enorme, ma ti ringrazio».

    «Sei carina. Tienilo. Aggiungilo alla tua collezione».

    Ridendo, mi inclino verso la sua spalla e lui poggia la testa sulla mia per qualche secondo prima di allontanarla per finire la sua birra.

    Accumulo cose di Tor da quando ero una bambina. Principalmente camicie, tazze, vecchi accendini, i jeans sbiaditi che indossava al liceo, un coltellino, dei cappellini da baseball, una cintura di cuoio e altri oggetti a caso. Mi sono presa ogni cosa per cui mi ero fissata e avevo deciso di volere per me solo perché era stata sua. E lui me la lasciava prendere sempre.

    Anche lui collezionava parti di me. Solo che ancora non lo sapevo.

    2

    Kenzi. Cinque anni

    Toren. Vent’anni

    Riesco a sentirla piangere prima ancora di varcare la soglia e, quando lo faccio, si fionda verso di me e la prendo al volo mentre si lancia tra le mie braccia. Il suo viso è rosso, bagnato di lacrime, gli occhi verdi iniettati di sangue.

    «Zio Tor…», riesce a dire tra respiri affannati che mi colpiscono al cuore.

    Le asciugo le guance col pollice. «Che succede, angioletto?»

    «Il mio coniglietto! Ho guardato da tutte le parti e non c’è più. Dev’essere su quel cazzo di bus del tour».

    Ah. L’adorato coniglietto di peluche che le ho regalato al suo ultimo compleanno e che porta sempre con sé. Cerco di trattenere la risata che mi provoca il suo epico utilizzo della parola cazzo.

    «Ehi, Kenzi! Non si dicono queste brutte parole». Mi guarda con aria di sfida e dice che la cosa non le interessa.

    Adoro la sua irriverenza.

    «Mi domando da chi l’abbia sentita», dice Ember guardandomi.

    Kenzi mi tira i capelli. «È scomparso, zio Tor. Solo questo importa».

    «Non è scomparso, angioletto. È solo in viaggio. Ma vuoi sapere una cosa? C’è un altro coniglietto là fuori che ha bisogno di te. Ti va di andare a cercarlo?».

    Annuisce in modo solenne e tira su con il naso. «Sì. Adesso».

    Ash ed Ember scuotono il capo quando ci vedono tornare ore dopo con un nuovo coniglietto di peluche… e una coniglietta vera, completa di gabbia extra comfort che provvedo a sistemare vicino alla finestra della sua camera. Grazie alla coniglietta, che abbiamo deciso di chiamare Snuggles, Kenzi è fuori di sé dalla gioia e io mi sento un eroe per aver salvato la situazione e averle fatto tornare il sorriso.

    «Ti tiene completamente in pugno, amico», mi dice Asher.

    «Ti dovrai occupare tu di quel coniglio, Tor», mi avverte Ember. «Io non la pulisco quella gabbia ogni settimana».

    Scrollo le spalle. «Non è un problema. Gli animali sono molto utili per i bambini. Li responsabilizzano».

    «Ha cinque anni, Tor».

    «E quindi? L’età non conta un cazzo».

    Faccio l’occhiolino a Kenzi che gira per la stanza con in grembo la sua nuova coniglietta e sul viso un adorabile sorriso. Delle lacrime non c’è più traccia. È il miglior sballo che abbia mai provato.

    Tor

    Asher mi porge una tazza di caffè nero e si accascia sulla sedia di fronte a me al tavolo della cucina, guardandomi con aria un po’ preoccupata.

    «Sydni pensa che tu la stia evitando».

    La testa mi fa troppo male per l’alcol di ieri sera per affrontare un interrogatorio di Asher sulla mia vita. Cerca sempre di giocare allo strizzacervelli, e a volte dà ottimi consigli, ma altre volte le sue tiritere filosofiche mi danno ai nervi. Ora è una di quelle volte.

    «Perché è così». Ricordo vagamente lei che mi segue sul divano ieri sera e io che le dico di andare a farsi fottere.

    «Credi che se lo meriti? Vuole solo che parli con lei».

    «Non ho nulla da dire a una tipa che un secondo dice di volermi sposare e il successivo ammette di amare te».

    Asher cambia posizione. «Non ama me, Tor».

    Mi esce fuori un verso a metà tra una risata e uno sbuffo. «Oh, credimi, è così. E vuoi sapere una cosa? Non me ne frega un cazzo. Ho chiuso. Puoi averla».

    «Non la voglio. Sono sposato». Indica la sua fede di platino, poi la fa girare attorno al dito. Lo fa spesso, un’abitudine di cui non sono certo si renda nemmeno conto.

    Mentre sorseggio il mio caffè amaro, decido di lasciarlo nella sua illusione. Fargli affrontare il fatto che Ember non tornerà più è un’impresa che non mi va di intraprendere. E se non ci è riuscita Sydni, nessuno potrà. Pochi uomini possono resistere a Syd dalle gambe chilometriche, i capelli rosso fuoco, il seno prosperoso, un talento sconfinato e un irrefrenabile impulso sessuale. Staremmo tutti meglio se si mettesse con lei e andasse avanti con la sua vita. Sarebbero entrambi felici e io potrei bloccare la porta girevole da cui lei continua a entrare ogni volta che realizza di non poterlo avere.

    Non voglio essere la seconda scelta di nessuno.

    Eppure, per qualche ragione, finisco sempre per esserlo. Dovrei decidermi a farmi tatuare il numero due direttamente sulla fronte.

    «Che fate svegli così presto?».

    Kenzi interrompe il nostro faccia a faccia silenzioso entrando in cucina con ancora addosso la mia felpa di ieri sera, senza pantaloni e con dei calzini viola pelosi. Mentre si allunga verso la credenza, si alza sulle punte per prendere una delle sue tazze preferite, una volta mia, e la felpa si solleva scoprendole metà sedere e lasciando in mostra le mutandine bianche con i cuori rossi. Distolgo velocemente lo sguardo e mi porto la tazza di caffè alle labbra. Non ho visto niente. Non ho visto niente…

    «Io ho una riunione e zio Tor ieri ha bevuto troppo, perciò ha dormito qui. E dove sono i tuoi vestiti? Possiamo permetterci dei pantaloni, lo sai? Non dovresti vagare mezza nuda quando abbiamo compagnia».

    Kenzi si passa la mano tra i capelli arruffati. «Ma papà, come facevo a sapere che c’era qualcuno? Mi sono appena svegliata. E poi è solo Tor. Da quando lo chiamiamo compagnia? Viveva praticamente con noi». Apre il frigo e tira fuori latte, uova, formaggio e un contenitore con verdure a dadini, poi si china per prendere una padella da un armadietto in basso.

    Devio di nuovo lo sguardo mentre Asher finisce il suo caffè e si alza. «Io vado». Mi rivolge un cenno. «Ci vediamo, amico. Ti va di fare un giro in moto domani? Dovrebbe essere bel tempo».

    Mi va sempre di fare un giro. «Sicuro».

    «Papà, faccio le omelette. Non ne vuoi una prima di andare?»

    «Non ho tempo stamattina. Ma sono certo che Tor ne vorrà una». Le bacia la fronte. «Rientrerò per le quattro. Ceniamo insieme».

    Non rifiuto mai del cibo. «Infatti mi andrebbe proprio qualcosa da mangiare». Kenzi fa delle omelette superlative, piegate sapientemente come fanno nelle tavole calde. Quando cerco di farmele da solo, sembrano carcasse di animali investiti.

    Appena Asher va via, mi alzo, butto il caffè fatto da lui e ne faccio dell’altro. Prepara sempre questo costosissimo schifo colombiano così forte che sento il cuore palpitare per il resto della mattina.

    «Hai dormito con la mia maglia addosso?», domando.

    Rigira l’omelette nella padella e sbircia verso di me attraverso i capelli d’oro che le coprono la faccia.

    «Forse…».

    Serio, prendo due piatti dalla credenza e glieli sistemo accanto ai fornelli. «Kenz… Ce l’avevo addosso mentre lavoravo a una moto ieri. Probabilmente c’era ancora del grasso sopra. Per non parlare del sudore».

    Facendo spallucce, fa scivolare un’omelette perfetta su uno dei piatti. «Puoi prendere questa. E quindi? Mi piace. È calda».

    «È sporca».

    Ride. «Comoda. Sporca. Qual è la differenza? Mi piace per la sensazione che mi dà e per il suo odore».

    Che le piacciano la sensazione e l’odore di qualcosa che è caldo e sporco mentre ha addosso solo la mia felpa è qualcosa a cui farei meglio a non pensare. Ma lo faccio, per un attimo, prima di seppellirlo in quell’anfratto del mio petto dove ci sono gli altri pensieri che non mi concedo.

    Come il pensiero che Ember avrebbe dovuto essere mia.

    E il pensiero che avrei voluto poter dire addio a mio padre.

    E il pensiero che avrei dovuto aiutare mio fratello.

    E il pensiero che avrei dovuto provarci seriamente con Sydni anni fa.

    E non dimentichiamoci il pensiero che sarei dovuto restare nella band.

    Così tanti rimorsi.

    Aspetto che si sieda anche lei a tavola prima di tagliare la mia omelette, perché mia madre mi ha insegnato le buone maniere e una delle più importanti è non cominciare a mangiare finché non sono tutti seduti.

    «Allora… ti sei preso una bella sbronza ieri sera». I suoi occhi danzano mentre mastica e ingoia. «A cosa è dovuto?»

    «Cattivo umore, immagino. Non ho intenzione di farla diventare un’abitudine».

    «Un cattivo umore di nome Sydni o un cattivo umore di nome Lisa?»

    «Mangia la tua colazione. Comunque entrambe».

    «Nessuna delle due vale una sbronza, zio Tor. Non vorrai tornare a essere un ubriacone…».

    La gelo con lo sguardo per aver sollevato l’argomento. Qualche anno fa ho avuto quello che si potrebbe chiamare un problema con l’alcol, ma non commetterò mai più lo stesso errore.

    «Non accadrà».

    «Bene. Perché ora sono grande e armata di fotocamera e Instagram. Documenterei tutti i tuoi momenti più imbarazzanti».

    «Sono certo che lo faresti, mocciosa».

    Inclina la testa verso di me, mordendosi il labbro, e io conosco quello sguardo anche troppo bene. Lo fa quando ha qualcosa da dirmi o da chiedermi. Mi preparo psicologicamente, perché so che Kenzi riserva a me tutte le conversazioni più profonde o strane. «Chloe pensa che dovrei perdere la grande V con Jason», dichiara finalmente.

    Quasi mi strozzo col caffè.

    «Chloe dovrebbe tenere la bocca chiusa. E le gambe». Dio. Non sono affatto preparato a questo tipo di conversazione, soprattutto con i postumi della sbronza ancora in circolo. Mi aspettavo volesse farsi un tatuaggio, o un piercing al naso, o i capelli viola per abbinarli ai calzini. Non che si parlasse di sesso.

    «Perché? Ho diciassette anni. Quasi diciotto. Magari ha ragione».

    Mi asciugo la bocca. «No, si sbaglia».

    «Tu quanti anni avevi?»

    «Quando?»

    «La tua prima volta».

    «È diverso. Io sono un maschio».

    «Allora quanti anni aveva lei? La ragazza con cui l’hai fatto?»

    Cazzo.

    «Kenz, dovresti farlo solo quando senti che è il momento giusto. E con il ragazzo giusto».

    «Lo so… ma se quello giusto non arrivasse mai?»

    «Arriverà». Detto da un trentaduenne ancora single. «Sei giovane, goditi la vita e non preoccuparti di andare a letto con i ragazzi. Tuo padre darebbe di matto se ti sentisse parlare in questo modo. Vuoi fargli venire un infarto?».

    Rotea gli occhi. «Lui pensa che abbia ancora cinque anni».

    «Anch’io».

    Mi dà un calcetto sotto il tavolo. «No, non è vero. Non sei affatto come lui. E mia mamma doveva aver avuto sui quattordici anni, ovviamente, quando ha cominciato a fare sesso».

    «Credo che dovresti parlare con tua nonna di queste cose. O tua zia. Magari Rayne. Qualcuno che appartenga al genere femminile».

    Arriccia il naso. «Nah! Mi sentirei a disagio a parlare con loro».

    «E con me no?».

    Scuote la testa. «Mi piace parlare con te. Mi ascolti davvero e non mi giudichi».

    «Ne sono lusingato. Ma sono l’ultima persona a cui dovresti chiedere consigli sulle relazioni o sul sesso».

    Mi appoggio allo schienale della sedia e allontano il piatto vuoto. Non riesco a pensare a Kenzi che fa sesso. Il mio cervello è troppo confuso dalle visioni di lei da bambina e dallo scorcio di sedere mezzo nudo che ho visto qualche minuto fa. Sta crescendo troppo in fretta. Sembra ieri che le facevo da babysitter. E ora mi fa domande sul sesso e somiglia sempre meno a una bambina e più a una donna. È estremamente disorientante e non ho idea di come faccia Asher ad affrontare tutto questo.

    «La maggior parte delle ragazze che conosco ha già fatto sesso, anche molto prima di avere diciassette anni. E addirittura con diversi ragazzi. Non contemporaneamente, però… almeno credo. Capisci cosa voglio dire, no?». Si ferma e io annuisco, perplesso e senza più parole. «Non provo nulla del genere per nessuno dei ragazzi con cui sia mai uscita, però. Non mi piace nemmeno baciarli», dice giocando con il suo tovagliolo, senza guardarmi. «Pensi che ci sia qualcosa di sbagliato in me? Perché non provo ancora nulla?».

    Soffoco la risata e il sollievo che provo. «No, angioletto. Non sei affatto sbagliata».

    «Davvero?»

    «Davvero. Proverai qualcosa quando sarai pronta e quando troverai il ragazzo giusto. Non puoi forzarlo. Deve avere un significato, capito? Soprattutto la prima volta. Non farlo solo perché lo dice quella cretina di Chloe. Sii te stessa, come hai sempre fatto. Non cedere alle pressioni, non lo hai mai fatto».

    Annuisce lentamente. «È solo che odio essere sempre quella strana che non fa quello che fanno tutti gli altri. Voglio mescolarmi con la massa per una volta».

    «Credimi, non sei strana. Sei unica. Hai sempre ragionato secondo la tua testa e i tuoi schemi. Mi

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