Troppe volte vorrei dirti no
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Info su questo ebook
Dall'autrice della serie bestseller The Storm
Sono stato abituato ad avere sempre il controllo della situazione. Fuori e dentro l’ufficio. Così quando i miei genitori hanno agito alle mie spalle, assumendo a mia insaputa un co-direttore per aiutarmi a gestire gli affari di famiglia… diciamo che non l’ho presa benissimo. Specialmente quando ho scoperto che la persona in questione è un’insopportabile conoscenza del college. Mi ha sempre giudicato un playboy viziato, ma lei non è altro che un’odiosa signorina so-tutto-io. E adesso è qui, nel mio ufficio, a insegnarmi come gestire la mia compagnia. Ho lavorato sodo per arrivare dove sono e non mi farò mettere da parte da lei perché mi giudica un donnaiolo impenitente. Devo solo riuscire a togliermi dalla testa le sue gambe mozzafiato… Ma sì, ce la faccio. E ormai ho deciso: la signorina Morgan Stickford imparerà presto che Wilder Cross è l’unico che comanda.
Autrice bestseller di New York Times, USA Today e Wall Street Journal
Sono nemici, ma fanno scintille
«Una storia dolce, divertente, che sa diventare anche molto emozionante!»
«Sono morta dalle risate in alcuni passaggi, è stata proprio la lettura rinfrescante di cui avevo bisogno.»
«Mi sono innamorata fin da subito di Wilder, mi è piaciuto che il punto di vista fosse il suo: adorabile!»
Samantha Towle
Ha iniziato a scrivere mentre aspettava il primo figlio. La Newton Compton ha pubblicato il suo romanzo d’esordio Nonostante tutto ti amo ancora e la serie bestseller The Storm (The Bad Boy, The Wild Boy, Lover Boy). Vive con il marito e i figli nell’East Yorkshire.
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Anteprima del libro
Troppe volte vorrei dirti no - Samantha Towle
2019
Titolo originale: Under Her
This edition is published by arrangement with Dystel,
Goderich & Bourret LLC and Donzelli Fietta Agency srls
Traduzione dall’inglese di Mariafelicia Maione
Prima edizione ebook: agosto 2018
© 2018 Newton Compton editori s.r.l, Roma
ISBN 978-88-227-2391-8
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Librofficina
Samantha Towle
Troppe volte vorrei dirti no
Indice
Capitolo uno
Capitolo due
Capitolo tre
Capitolo quattro
Capitolo cinque
Capitolo sei
Capitolo sette
Capitolo otto
Capitolo nove
Capitolo dieci
Capitolo undici
Capitolo dodici
Capitolo tredici
Capitolo quattordici
Capitolo quindici
Capitolo sedici
Capitolo diciassette
Capitolo diciotto
Capitolo diciannove
Capitolo venti
Capitolo ventuno
Capitolo ventidue
Capitolo ventitré
Capitolo ventiquattro
Capitolo venticinque
Capitolo ventisei
Capitolo ventisette
Capitolo ventotto
Capitolo ventinove
Capitolo trenta
Capitolo trentuno
Capitolo trentadue
Capitolo trentatré
Capitolo trentaquattro
Capitolo trentacinque
Capitolo trentasei
Capitolo trentasette
Capitolo trentotto
Capitolo trentanove
Epilogo
Ringraziamenti
Capitolo uno
«Buongiorno, Mr Cross».
La voce cantilenante di Leah, la nuova receptionist seduta al bancone lucido, attraversa leggera l’atrio. Le vedo le gambe sotto la scrivania. La gonna le è risalita sulle cosce. Porta le calze.
So che lo spettacolino è tutto per me. Come ogni giorno, da quando ha cominciato a lavorare qui. Una tecnica di seduzione diversa dal solito, ma non mi è sfuggito che Leah vuole scoparmi.
Come c’era da aspettarsi: sono sexy e ricco da impazzire. E sono il capo. E futuro
CEO
dell’azienda di famiglia, Lingerie Under Her, non appena i miei genitori andranno in pensione e mi lasceranno la guida.
Esatto: vendo biancheria intima. Biancheria ultraprovocante. Proprio del genere che mi piace sfilare a una donna prima di farla urlare di piacere.
Il mio è il lavoro più bello del mondo.
«Buongiorno, Leah». Le rivolgo un breve sorriso cortese. Non quello che mi permette, in due secondi, di portarmi una donna a letto o di farla inginocchiare davanti a me.
Non flirto con Leah perché lavora per me.
Regola numero uno: mai scoparsi le dipendenti.
Non posso e non ho voglia di affrontare le complicazioni che ne deriverebbero.
A parte che rischierei di espormi a una causa civile e che mia madre mi ucciderebbe se intingessi la penna nell’inchiostro aziendale, non sopporto i melodrammi e le lacrime quando capiscono che volevo soltanto il sesso. Persino quando dico e ripeto che è solo l’avventura di una notte.
È la regola numero due: se è una sveltina, metterlo sempre bene in chiaro.
Regola numero tre: non farle mai sapere dove vivi, dove lavori o qual è il tuo numero di telefono, nel caso la regola numero due non venga ben recepita.
Chiamo l’ascensore e le porte si aprono subito, quindi entro e schiaccio il pulsante del quattordicesimo piano, dove si trova il mio ufficio.
Adoro questo palazzo. Per me è casa. Qui sono tutti di famiglia. Ai miei genitori piace che la ciurma sia soddisfatta e trattano molto bene i dipendenti, per cui loro li apprezzano. Sono i migliori. So che qui sono tutti rattristati all’idea che vadano in pensione. Quando l’hanno annunciato sono state versate molte lacrime.
A essere sincero, sarà strano rimanere qui e gestire l’azienda senza di loro.
Però, sono anche eccitato. È tutta la vita che sudo sette camicie per questo.
L’ascensore raggiunge il mio piano e io esco non appena si aprono le porte. Attraverso l’atrio della direzione ed entro nel mio ufficio.
Chrissy, la mia assistente personale, è già dietro la sua scrivania.
Alza gli occhi dallo schermo del computer. «Giorno, Wilder». Prende dalla scrivania il caffè d’asporto che ritira per me ogni giorno e me lo porge.
È l’assistente migliore del mondo. Sono fortunato ad averla.
«Grazie». Ne prendo un sorso. Mi piace caldo, quasi bollente. Non riuscirò mai a capire come faccia la gente a berlo tiepido; per me, più caldo è meglio è. Proprio come le donne.
«Passato un bel fine settimana?», mi domanda.
«Certo». Le faccio un sorrisetto.
Non fraintendetemi, amo il mio lavoro, ma i fine settimana sono riservati al divertimento e io adoro divertirmi.
Venerdì sera l’ho passata tra le gambe di Ida, una supermodella svedese che ho incontrato qualche settimana fa a una sfilata. Sabato era la serata tra ragazzi con i miei amici di sempre, Cooper e Dominic. Usciamo ogni sabato sera e ciascuno finisce nel letto di una sventola diversa.
Non sono affatto pronto a sistemarmi con una donna sola. Non ho nulla contro la vita di coppia in sé e per sé; solo che io non la voglio.
Be’, almeno non adesso. Mi piace – no, cazzo, amo la mia vita.
Amo il mio lavoro. E amo portarmi a letto una donna diversa ogni fine settimana. Posso godermi il sesso regolare senza le pretese e le complicazioni di una relazione, visto che ho sempre donne in abbondanza pronte a soddisfare le mie necessità. Tuttavia, non sono un bastardo egoista: mi piace assicurarmi che la donna che scopo si diverta. Altrimenti non vengo.
Ho fatto un sacco di sesso orale e l’adoro. Niente mi dà più carica che assaporare una donna per la prima volta.
La mia organizzazione è perfetta. Il sesso è riservato al fine settimana, perché gli altri giorni sono tutti per il lavoro, che viene sempre al primo posto. Non credo che le cose cambieranno molto presto, di certo non ora che subentro ai miei nella direzione dell’azienda.
Forse, in un lontano futuro – diciamo fra dieci o quindici anni – incontrerò una ragazza con cui vorrò una relazione vera, ma a essere del tutto sincero non mi sembra molto probabile.
E poi, sarebbe una tremenda ingiustizia nei confronti delle donne di Chicago se mi togliessi dal mercato. Ho un uccello troppo favoloso per dedicarlo a una sola.
La domenica di solito esco con i miei amici per il brunch, per raccontarci le tresche della notte prima, poi il pomeriggio lavoro da casa, preparandomi per il lunedì mattina.
«E il tuo fine settimana?». So che Chrissy doveva andare a Milwaukee, dai genitori della sua fidanzata.
Sì, fidanzata, una donna. Chrissy è gay e sta per sposare una certa Wendy. E no, non è la tipica lesbica mascolina o da stereotipo porno.
È una donna normale, di bell’aspetto. E gestisce la mia vita alla perfezione.
«Tutto bene, però Wendy e sua madre hanno parlato di roba da matrimonio per l’intero fine settimana, senza sosta».
Alza gli occhi al cielo e io rido.
«Comunque, ti ho preparato l’agenda della mattinata, ma prima ci sono i tuoi genitori che ti aspettano nel tuo ufficio».
«Davvero?». Lancio un’occhiata alla porta dello studio.
«Sì».
«Da quanto attendono?»
«Cinque minuti o giù di lì».
«E non hanno detto perché volevano vedermi?»
«No».
Mi sento un pochino a disagio.
Naturalmente, i miei genitori ogni tanto si presentano nel mio ufficio senza preavviso, ma è insolito che lo facciano di prima mattina.
L’ultima volta che li ho trovati ad aspettarmi così di buon’ora è stato sette anni fa, in un ufficio molto più piccolo e merdoso di questo, quando lavoravo nel reparto vendite e avevo appena fottuto l’accordo Renshaw. Il grosso contratto che mi avevano affidato.
E intendo dire che mi ero fottuto la figlia di Mr Renshaw, Amber, qualche mese prima.
In mia difesa posso dire che all’epoca non sapevo chi fosse e che l’accordo stava a malapena muovendo i primi passi.
Il problema era che Amber voleva qualcosa di più che un giro sul mio uccello e sentendosi dire che era solo una sveltina – come le avevo precisato ancora prima di fare sesso – non ne era stata per nulla contenta. Del tipo che si era tolta una scarpa con il tacco a spillo e me l’aveva lanciata in testa. Ero stato fortunato a non averci rimesso un occhio.
Davvero, perché certe donne accettano il sesso occasionale e una volta finito di farlo si scordano la conversazione di prima?
So che ho un uccello portentoso, ma non ha il potere di cancellare la memoria.
Non ho tempo per una storia. E la mia vita mi piace così com’è: sesso senza impegno.
Ma Amber si era presentata alla cena di lavoro con Mr Renshaw, mi aveva guardato, sussurrando qualcosa all’orecchio del padre e ciao, fine della storia. Renshaw aveva deciso che non aveva più interesse a vendere i nostri prodotti nei suoi centri commerciali. Be’, lui non era stato così educato nell’esprimersi, ma le parole esatte ve le potete immaginare da soli.
Capisco che è sua figlia, ma non è colpa mia se è matta come un cavallo. E, a essere sincero, se quel tipo non sa separare gli affari dalle questioni personali non dovremmo lavorare con lui.
I miei genitori però non la vedevano proprio così.
Oltre a una sfuriata gigantesca per il fallimento del contratto, mi era toccato subire una ramanzina da mia madre: dovevo trattare le donne con rispetto e non cercare di portarmi a letto tutta Chicago.
Questa però è una storia vecchia di sette anni. Anche se il fatto di avere mandato a rotoli proprio quel contratto mi urta ancora, va detto che all’epoca non avevo nessuna esperienza in fatto di affari. E in questo campo, tutti possono commettere un errore.
Non mi sono lasciato scoraggiare da questo scivolone. Mi piace troppo scopare per smettere.
Semplicemente, scelgo molto meglio chi portarmi a letto, il che significa che tengo le mie attività del fine settimana molto, molto lontane da qualsiasi cosa abbia a che vedere con l’ufficio. Se sento anche solo l’odore di un legame di lavoro con una possibile scopata, rinuncio e passo alla conquista successiva.
Forse i miei genitori vogliono solo parlare dell’avvicendamento. Andranno in pensione tra qualche settimana e io diventerò
CEO
.
So cosa state pensando: mi hanno scelto perché sono il figlio.
Sbagliato.
I miei genitori sono tosti. Saremo anche ricchi, però mi hanno costretto a sudarmi qualsiasi cosa. Hanno costruito quest’azienda insieme dal nulla e vogliono mi sia chiaro che se vuoi qualcosa nella vita devi faticare per averla. Niente ti viene servito su un piatto d’argento.
Per tutta la durata del liceo ho fatto dei lavoretti part time, purché non interferissero con i miei studi. Ho smesso solo al college, perché volevano che mi concentrassi sulla facoltà che frequentavo. Ma ho passato tutte le estati in ufficio a lavorare per loro – allo smistamento o alla reception. Mi sono fatto il culo per conoscere ogni angolo di quest’azienda.
Ho frequentato per quattro anni la Northwestern e mi sono laureato in Economia e commercio. Poi sono andato alla Columbia per un master in Economia gestionale. Dopo la laurea, sono tornato a casa, a Chicago, e ho cominciato a lavorare qui, dapprima nel reparto vendite, poi in tutti gli altri, così da comprendere il funzionamento della ditta, in attesa di diventarne amministratore delegato.
E adesso è il mio momento.
«Augurami buona fortuna», dico a Chrissy.
«Non ne ha bisogno, Mr Presto
CEO
». L’ultima parte la sussurra, anche se non c’è nessuno che possa sentirla.
Un mese fa, quando i miei genitori hanno annunciato che sarebbero andati in pensione, non hanno comunicato formalmente che avrei preso il loro posto. Tuttavia, probabilmente lo sanno già tutti. Cioè, è scontato.
È probabile che mi aspettino proprio per questo – per parlare del grande annuncio.
Non mi entusiasmo facilmente, ma adesso sono davvero su di giri.
Pensando al mio futuro status di amministratore delegato, apro la porta del mio ufficio con un cazzo di sorriso a trentadue denti in faccia.
«Mamma, papà», li saluto.
Sono seduti sul mio divano di pelle nera. Cazzo se adoro il mio ufficio: è grande, le finestre alte fino al soffitto offrono una vista magnifica della città. E ho un bagno privato, che non è poco.
«Wilder». Mamma mi rivolge un caldo sorriso. «Come stai?»
«Bene. Cosa posso fare per voi?». Mi avvicino alla mia scrivania.
Cala un breve silenzio che mi annoda lo stomaco.
È mio padre a romperlo: «Dobbiamo parlare».
«Okay». Poso il culo sulla sedia.
Si girano verso di me. Non mi piace quel che leggo in faccia a tutti e due: imbarazzo.
Merda.
Bevo un sorso di caffè, perché avverto la necessità che il calore del liquido mi rinsaldi, poi poso il bicchiere sulla scrivania.
«Che succede?». Costringo la voce a mantenersi ferma.
«Ecco…». Papà si schiarisce la voce.
«C’è una novità». Mamma ha un tono di finta allegria.
Non se ne vanno. Hanno cambiato idea.
Doppia merda.
Il fatto che li voglia vedere in pensione non fa di me un cattivo figlio o un egoista. Hanno lavorato sodo per tutta la vita, hanno fondato quest’azienda e l’hanno resa ciò che è: ora che si avvicinano ai settant’anni, voglio che entrambi si riposino e si godano il loro periodo d’oro.
«Buone o cattive?». Sposto lo sguardo dall’una all’altro, cercando di leggere qualcosa nelle loro espressioni indecifrabili.
«Buone». Mamma fa un gran sorriso. «Giusto, Frank?». Dà di gomito a papà.
Lui risponde con un grugnito che gli fa guadagnare un’occhiata di disapprovazione da parte della mamma. E che non calma la nausea che mi sento addosso.
«Senti, tesoro, sono buone notizie, anche se tu di primo acchito potresti non vederla a questo modo. Ti chiedo di avere la mente aperta e ascoltare quel che dobbiamo dirti».
«Va bene…». Non va affatto bene.
«Ecco, non c’è modo di girarci intorno, quindi… abbiamo assunto un altro
CEO
per venire a lavorare qui e aiutarti a dirigere l’azienda».
«Scusa, come hai detto?». Sto per avere un infarto, ne sono quasi certo. Mi sfrego la faccia raggelata e poi fisso mia madre. «Devi ripetere, perché per un attimo mi è sembrato… di sentire che avete assunto un altro…
CEO
».
«L’ho detto. È così».
Capitolo due
Cazzo. Cazzo. Cazzo.
Fisso il volto impassibile di mia madre. Poi papà, il cui sguardo vacuo non mi dà molte indicazioni.
«È uno scherzo?»
«No», mormora mia madre. È la voce che usava per rabbonirmi da piccolo, quando capitava qualcosa che mi faceva stare male.
Il tono conciliante.
Un tempo lo amavo. Ora, è ufficiale, lo odio.
«Perché cazzo l’avete fatto?»
«Wilder, bada a come parli», mi sgrida lei.
Come se fosse il momento di sindacare sul mio uso della lingua inglese.
Guardo papà con gli occhi sgranati. «Non darete a me il posto?».
Vedo un lampo di angoscia nei suoi occhi. «Ma certo che sì». Ha un tono risoluto. «È tuo, Wild. Senza dubbio. Solo che tua madre ha pensato…».
«Abbiamo pensato», lo interrompe lei con un’occhiata severa, «che ti avrebbe fatto comodo il sostegno di un co-amministratore. Gestire un’azienda di questa portata comporta un sacco di lavoro».
«Lo so. E sono preparato e pronto per mettermi all’opera. Mi state formando da sette anni per questo. Gesù, è da quando sono venuto qui per la prima volta, da bambino, che mi sto allenando per questo obiettivo. Conosco tutto di questo lavoro! Nessuno è più preparato di me sull’industria della biancheria intima». Sto alzando sempre di più la voce, ma non riesco a fare altrimenti.
Un co-
CEO
. Un cazzo di co-
CEO
.
«Wilder, sappiamo che hai esperienza e sai moltissime cose. Non si tratta di questo. Tuo padre e io abbiamo diretto quest’azienda con successo insieme. Oggigiorno in tantissime imprese ci sono due
CEO
. Avere un socio con cui gestire tutto offre moltissimi vantaggi».
Vorrei fare una scenata isterica di quelle memorabili. Lanciare i giocattoli fuori dalla culla. Urlare che si sbagliano. Che potrei gestire quest’azienda bendato e con un braccio legato dietro la schiena. Vorrei giocarmi la carta del come potete fare questo a vostro figlio
. Su mio padre potrebbe anche funzionare, ma sulla mamma no, lo so bene. È un tipo tosto. Facendo i capricci riuscirei solo a convincerli ancora di più che hanno fatto bene ad assumere un altro
CEO
per affiancarmi.
No, la strategia migliore è comportarmi da persona matura.
Dire loro che sono sgomento. Non incazzato: sgomento. Soprattutto perché hanno agito di nascosto, alle mie spalle. Ma assicurare che lavorerò insieme a questo coglione di co-
CEO
con tutta la buona grazia del mondo.
In realtà, quello che farò sarà cercare un modo per liberarmi di questo stronzo che mi ha rubato il posto e dimostrare che sono perfettamente in grado di dirigere l’azienda da solo. La mia azienda.
Prendo un respiro profondo per calmarmi e appoggio i palmi delle mani sulla scrivania. «Be’, non posso dire di essere contento di questo cambiamento inaspettato, perché non lo sono; ma è la vostra ditta e potete agire come meglio credete. Sì, sono vostro figlio – il vostro unico figlio – ed erede. Ma mi avete educato bene, quindi mi conformerò a qualsiasi azione riteniate migliore per l’azienda». Okay, forse sto calcando un po’ la mano, ma non ho altra scelta e il senso di colpa è l’unica carta che posso giocarmi.
«Wilder, so cosa stai pensando, e cioè