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A letto con il nemico
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E-book352 pagine4 ore

A letto con il nemico

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Info su questo ebook

Un grande thriller

Lui non è l’uomo che pensavi di aver sposato…

Quando Alice Gill vede apparire nel test di gravidanza una piccola linea blu, è al culmine della gioia.
Ma la sua felicità viene ben presto interrotta: la polizia bussa alla porta pochi minuti dopo, con una notizia de­vastante. Suo marito, Dominic, è morto. Sconvolta, Alice va a identificare il cor­po. Non ci sono dubbi, è rimasta vedo­va. Ma quando il fratello di lui, tornato dall’estero, raggiunge l’obitorio per ve­dere la bara, insiste che non si tratta di Dominic Gill. Quello che giace lì davanti a loro non è suo fratello. Allora chi è l’uomo che Alison ha sposato? I segreti che si è portato nella tomba metteran­no in pericolo anche la sua vita?

Conosci davvero la persona che hai sposato?

L’autrice di thriller psicologici che ha conquistato l’Inghilterra

«Assicuratevi di avere un sacco di tempo a disposizione quando finalmente vi siederete a leggere questo libro perché non riuscirete a lasciarlo finché non sarete arrivati all’ultima pagina!»

«Avvincente e da brivido, è sicuramente uno dei migliori thriller psicologici che abbia mai letto.»

«Non ci sono parole per descrivere il talento di questa autrice nel tenere alta la tensione.»

«Ogni volta che pensavo di avere intuito qualcosa arrivava un colpo di scena fenomenale.»

«Avevo voglia di leggere un buon thriller e questo ha decisamente superato tutte le mie aspettative.»

«La scrittura di Alison James è serrata, non ti lascia scampo. Ci sono punti in cui mi sono accorta di trattenere il respiro.»
Alison James
È nata nelle Cotswolds, ma ha tra­scorso la maggior parte dei suoi anni formativi all’estero. Ha studiato Lingue a Oxford, lavorando come giornali­sta prima di tornare all’università per prendere la laurea in Legge. Dalla sua esperienza legale nel campo criminale trae ispirazione per scrivere thriller ad alta tensione.
LinguaItaliano
Data di uscita18 dic 2020
ISBN9788822746672
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    Anteprima del libro

    A letto con il nemico - Alison James

    EN.jpg

    Indice

    Prologo

    PARTE PRIMA

    Capitolo 1. Alice

    Capitolo 2. Alice

    Capitolo 3. Alice

    Capitolo 4. Alice

    Capitolo 5. Alice

    Capitolo 6. Alice

    Capitolo 7. Alice

    Capitolo 8. Alice

    Capitolo 9. Alice

    Capitolo 10. Alice

    Capitolo 11. Alice

    Capitolo 12. Alice

    Capitolo 13. Alice

    Capitolo 14. Alice

    Capitolo 15. Alice

    Capitolo 16. Alice

    PARTE SECONDA

    Capitolo 17. Ben

    Capitolo 18. Ben

    Capitolo 19. Ben

    Capitolo 20. Ben

    Capitolo 21. Ben

    Capitolo 22. Ben

    Capitolo 23. Ben

    Capitolo 24. Ben

    Capitolo 25. Ben

    Capitolo 26. Ben

    PARTE TERZA

    Capitolo 27. Alice

    Capitolo 28. Alice

    Capitolo 29. Alice

    Capitolo 30. Alice

    Capitolo 31. Alice

    Capitolo 32. Alice

    Capitolo 33. Alice

    Capitolo 34. Alice

    Capitolo 35. Alice

    Capitolo 36. Alice

    Capitolo 37. Alice

    Capitolo 38. Alice

    Capitolo 39. Alice

    PARTE QUARTA

    Capitolo 40. Alice

    Capitolo 41. Alice

    Capitolo 42. Alice

    Capitolo 43. Alice

    Capitolo 44. Alice

    Epilogo

    Una lettera da parte di Alison

    narrativa_fmt.png

    2811

    Questa è un’opera di finzione. I nomi, i personaggi, i luoghi,

    le organizzazioni, gli eventi e gli avvenimenti sono frutto

    dell’immaginazione dell’autrice o sono usati in modo fittizio

    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta,

    memorizzata su un qualsiasi supporto o trasmessa in qualsiasi forma e

    tramite qualsiasi mezzo senza un esplicito consenso da parte dell’editore

    Copertina © Sebastiano Barcaroli

    Titolo originale: The Man She Married

    Copyright © Alison James 2020

    First published in Great Britain in 2020

    by Storyfire Ltd trading as Bookouture

    Alison James has asserted her right to be identified

    as the author of this work

    All rights reserved

    Traduzione dalla lingua inglese di Carlotta Mele

    Prima edizione ebook: gennaio 2021

    © 2021 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-4667-2

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma

    Alison James

    A letto con il nemico

    OMINO.jpg

    Newton Compton editori

    A Clare, Ali e Vanessa.

    Un amico è per sempre

    Prologo

    Cammino verso la bara aperta poggiata su dei sostegni al centro della stanza silenziosa. Le pesanti tende di velluto alle finestre sono state tirate con discrezione, nell’angolo c’è una lampada accesa e accanto, su un piedistallo, una composizione di fiori finti.

    Mentre mi avvicino, intravedo la punta del suo naso in contrasto con il raso bianco plissettato della bara. È una visione così strana e soprannaturale da farmi girare la testa, e il pavimento sotto ai miei piedi sembra oscillare. Il cuore mi martella nel petto. Ora sono abbastanza vicina da vederlo. Il viso, il corpo, tutto.

    Non ho idea di chi abbia fornito all’impresario delle pompe funebri il completo che indossa: so solo che non sono stata io. Osservo la curva della bocca, il ciuffo di capelli sulla fronte, il viso spigoloso. Ha la fede all’anulare sinistro. Mi tolgo la mia e la lascio cadere nella bara.

    Sembra proprio uno di quegli indovinelli che si trovano nelle parole crociate. Perché l’uomo che giace nella bara di mio marito non è mio marito.

    È uno sconosciuto.

    Parte prima

    Capitolo 1

    Alice

    Oggi

    «Sai che è tutto un mucchio di stronzate?»

    «Che cosa?», chiedo, anche se so già la risposta.

    «San Valentino». La mia amica JoJo parla con l’entusiasmo di una vera miscredente. «È solo un trucco di marketing per farti comprare una valanga di robaccia rosa e rossa». Beve un lungo sorso di cappuccino con aria trionfante. «E comunque la Chiesa ha depennato san Valentino dalla lista dei santi».

    «Penso che alla gente non importi un fico secco della storia reale», ribatto, posando la tazza di caffè sul piattino e ammirando la superficie lucida delle mie unghie rosse appena fatte. «Le piace solo avere una scusa per dare sfogo al romanticismo».

    «È questo che hai in mente?», fa JoJo lanciandomi un’occhiata tagliente. «Vuoi dare sfogo al romanticismo? Ti sei stufata di fare la vecchia signora sposata?».

    Mi sono ritagliata una mezz’oretta da passare con la mia migliore amica da Bean & Beaker, la nostra caffetteria preferita in Chamberlayne Road. Ho preso il pomeriggio libero per fare spesa e cucinare una cena di san Valentino a mio marito. Dal momento che sono la titolare della compagnia – una società di catering in rapida espansione che si occupa di matrimoni e feste aziendali – posso prendermi del tempo libero quando voglio. In teoria, almeno. In pratica è difficile, dal momento che siamo impegnatissimi. Con la primavera alle porte ci sono una valanga di matrimoni, che si aggiungono alla stagione dei premi televisivi.

    Sorrido. So che devo avere l’aria imbarazzata. «Certo, abbiamo avuto degli alti e bassi, ma da quando… sai…».

    «Dall’episodio della donna pazza», interviene JoJo.

    «Sì. Da quel momento… le cose sono andate benissimo. Alla grande, in realtà». Non riesco a impedire alle mie guance di avvampare.

    JoJo lo nota. Ovvio che lo nota. «Aliiice?», dice strascicando il mio nome. «C’è qualcosa che devi dire a zia JoJo?».

    Mi guardo di nuovo le unghie rosso vermiglio, prendendo il cucchiaino dal piatto e rigirandomelo tra le dita. «Non dire una parola. A nessuno. Promettimelo».

    «Certo che te lo prometto. Dai: sputa il rospo!». Dal sorrisetto emozionato di JoJo è evidente che ha indovinato cosa sto per dirle. Mi conosce davvero troppo bene.

    Mi guardo intorno: la caffetteria è affollata, piena di mamme con i passeggini, di sicuro dirette a scuola a prendere i figli. Perciò riduco la voce a un sussurro. «Credo di essere incinta».

    «Credi?».

    Apro la borsa quel tanto che basta per far intravedere a JoJo la scatola di un test di gravidanza. «Lo faccio stasera, prima che Dom torni a casa». Scorgo un’espressione che le attraversa il viso rapidamente, come di preoccupazione. «Che c’è?»

    «Sei sicura di essere pronta?»

    «Certo. Ho quasi trentaquattro anni».

    «Voglio dire… sei sicura che lo siate entrambi? Dom è pronto a diventare papà?»

    «Certo che lo è». Mi rendo conto di essermi messa sulla difensiva. «Ha la mia stessa età», proseguo.

    «Non parlavo dell’età. Senti, sappiamo entrambe che non sono l’esperta qui». A trentasei anni JoJo è sfacciatamente single: la sua relazione più duratura non ha raggiunto i dodici mesi. «Ma siete sposati da… quanti anni sono ormai?»

    «Quasi tre».

    «Esatto. Non è molto. E quando vi siete sposati vi eravate appena conosciuti. E da quel momento avete dovuto affrontare un bel po’ di sfide, per usare un eufemismo». Si sporge sul tavolo per afferrarmi la mano. «Tesoro, se fossi incinta sarei contentissima per te. Senza dubbio. Sto solo dicendo che, in una relazione, avere un bambino comporta dello stress aggiuntivo».

    Le rivolgo un sorriso beato. «Sarà un nuovo inizio. Un progetto di coppia. Voglio vederla così. E comunque abbiamo già posticipato la gravidanza, appena ci siamo sposati, dal momento che Dom non era pronto. Ma adesso che mi avvicino ai trentacinque… be’, non possiamo rimandare per sempre, no?».

    Paghiamo e JoJo si avvia verso il suo appartamento a Notting Hill Gate per riprendere il suo lavoro da editor freelance. Mi saluta con un gioioso: «È giunta l’ora di rimettermi sotto, tesoro!».

    Io cammino verso Kilburn High Road. Compro formaggi, insalata e pane artigianale all’alimentari e del branzino dal nostro pescivendolo preferito. Al supermercato scelgo una bottiglia di champagne rosa e dei cioccolatini costosi in una scatola a forma di cuore: JoJo mi prenderebbe di certo in giro, ma io lo vedo come un simbolo commovente della nuova vita che entrerà in famiglia. Un cuore, proprio come quello piccolino che potrebbe battere nella mia pancia. E poi sotto sotto Dom è sempre stato cioccolato-dipendente. So come addolcirlo.

    Mi trascino verso Waverley Gardens con tremila buste. Come al solito il mio cuore fa un tuffo quando svolto l’angolo e vedo casa. La mia casa.

    Certo, adesso è la nostra. Ma per qualche anno è stata solo mia.

    In molti non hanno capito. «Che strano», mi dicevano, «una ragazza single che vive tutta sola in una casa con quattro camere da letto, tre bagni e un giardino enorme».

    Se ero dell’umore giusto, rispondevo a tono. Ho ereditato una grossa somma di denaro – abbastanza da comprarla senza mutuo e avviare una società tutta mia – quando mia madre è morta di tumore al seno. All’epoca avevo venticinque anni e mio fratello David ventisette. L’eredità di mamma è andata a noi perché avevamo già perso nostro padre otto anni prima, a causa di una cardiopatia congenita.

    Un’altra frase che mi hanno rivolto spesso: «Sei così fortunata». E, di nuovo, a seconda dell’umore, mi limitavo ad annuire, oppure a far notare che vivevo nella sicurezza della mia adorabile casetta in uno dei sobborghi più verdi di West London solo perché ero rimasta orfana. Quella la consideravano una fortuna? Avevo perso entrambi i genitori, due persone che amavo alla follia. Avevo perso la loro protezione. Inoltre, essere ricca e dovermi confrontare con i miei coetanei ventenni e squattrinati mi aveva fatto sentire sola. Quando parlavano di me, le persone pronunciavano la parola ereditiera come se stessero dicendo lupo mannaro.

    Si potrebbe pensare che, con la casa da feste ideale, fossi al centro dell’attenzione nelle interazioni sociali: in realtà continuavo ad andare a festicciole organizzate in squallidi appartamenti in affitto. A causa della mia fortuna ho perso degli amici. La mia condizione economica ha creato un abisso tra me e gli altri. Sapevo che la casa era troppo grande per viverci da sola, perciò ho provato ad affittare una stanza all’amica di un’amica, ma non ha funzionato: la trattava come se fosse un centro sociale. Perciò ho smesso. Avevo comunque intenzione di riempirla, ma con un marito e dei bambini, non con degli affittuari. Poi ho capito che raggiungere quell’obiettivo era molto più difficile di quanto avessi immaginato. I fidanzati di turno si lasciavano intimorire dal fatto che avessi più possibilità finanziarie di loro. Feriva il loro orgoglio di maschi alfa.

    Ma Dominic no. A lui non dava affatto fastidio. Era diverso da tutti gli altri.

    Cammino sul vialetto di pietra, lascio cadere le buste sul portico e prendo le chiavi. Poi apro la porta con un calcio e sollevo la spesa per posarla in cucina. Quando ho finito di fare l’insalata, di disporre il formaggio su un vassoio e di preparare il pesce, sono già le sei. Mando un messaggio a Dominic.

    Quando torni? Bacio

    Vado in bagno con la scatoletta del test di gravidanza, – è stata dura aspettare, ma ho voluto prima preparare la cena. Mentre apro il pacchetto con dita impazienti, Dom risponde.

    Tra non molto. Forse 30-40 minuti. Bacio

    Mi posiziono a cavalcioni sulla tazza e faccio pipì sullo stick. Mentre aspetto i due minuti necessari, inizio a far scorrere l’acqua nella vasca e ci verso dentro una generosa quantità di olio essenziale. Poi, tenendo il test in equilibrio sul bordo, mi infilo nell’acqua calda e profumata e mi concedo un breve istante di relax, prima di afferrare lo stick.

    Nella seconda finestrella appare una sola parola: Incinta.

    Rimango a fissarla per qualche secondo con uno stupido sorrisetto sul viso, lasciando raffreddare l’acqua. Poi mi alzo e vado in camera. Sto quasi per posare il test di gravidanza sul cuscino di Dominic, per fargli la sorpresa di san Valentino più bella di tutte, ma l’emozione prende il sopravvento. Così gli mando una foto del risultato positivo e, come didascalia, metto l’emoji di una donna incinta, un biberon e una faccina scioccata. Normalmente, durante la giornata non ci scambiamo messaggi: ma oggi non è un giorno come tutti gli altri. Niente affatto.

    Mi asciugo e mi spalmo la crema idratante su tutto il corpo, indugiando sulla curva leggera dello stomaco. Poi metto della biancheria di pizzo, e scelgo un vestito dalla cabina armadio. Decido di non indossare nulla di rosa – troppo scontato, nonostante il tema della serata – e opto invece per un tubino vinaccia e dei tacchi color carne. Mi sistemo con cura la chioma castana, poi la arrotolo in uno chignon spettinato. Poi alla fine, grazie al trucco, creo quello che le riviste femminili chiamerebbero un look da sera. Dominic lo noterà? Ci penso. Forse sì. Non gli piace quando mi metto in ghingheri, come dice lui. Ma ultimamente lo vedo che si sforza di incoraggiarmi e di farmi più complimenti.

    Lancio un’occhiata allo schermo del telefono, per controllare se ha risposto alla foto, ma non ci sono nuove notifiche. È probabile che stia guidando e non abbia visto i messaggi.

    Al piano di sotto le stanze sono fredde perciò accendo il fuoco in salotto, e dispongo qualche candela qua e là, tanto per decorare. Non devo preparare nient’altro da mangiare, perciò verso un po’ di patatine in una ciotola e tiro fuori i calici per lo champagne.

    Poi però mi fermo. Il problema dello stappare lo champagne – e in particolare lo champagne rosa il giorno di san Valentino – è che richiede la presenza di un pubblico. Sarebbe strano se iniziassi a bere prima dell’arrivo di Dominic, e comunque ora devo cominciare a fare attenzione all’alcol. Perciò tiro fuori dal frigo una bottiglia mezza vuota di vino bianco e me ne verso un dito, chiudendo in bellezza con dell’acqua frizzante. Non può fare male al bambino, penso. Giusto un assaggio. Afferro il bicchiere e prendo posto davanti al fuoco, rannicchiandomi sul divano per sfogliare una copia di «Elle Decoration».

    Quando alzo di nuovo lo sguardo sono le sette passate. Dominic è ufficialmente in ritardo, il che non è insolito. Dal momento che è il direttore finanziario di una multinazionale dell’edilizia, ha degli orari di lavoro lunghi e irregolari, ed è possibile che qualcuno l’abbia trattenuto per un meeting informale proprio mentre se ne stava andando. Perciò non sono preoccupata, piuttosto un po’ irritata. Specie dal momento che ho vuotato il sacco riguardo la gravidanza. E anche perché non posso riempirmi di nuovo il bicchiere di vino per far passare il nervosismo.

    Guardo il telefono, ma non ci sono nuove chiamate o messaggi. Sospiro. Vado in cucina e accendo il forno. Avvolgo il pesce nella carta stagnola e nel frattempo mi verso altra acqua frizzante nel bicchiere, poi improvviso un condimento per l’insalata e controllo di nuovo il mio smartphone. Sono quasi le sette e mezza. Dominic doveva essere a casa un’ora fa. Il messaggio che gli ho mandato su WhatsApp ha due spunte blu, ma quando lo chiamo il suo telefono squilla a vuoto e poi parte la segreteria. Invece di lasciare un messaggio, riattacco e chiamo JoJo su FaceTime.

    «Wow! Stai benissimo!», esclama lei. «Che bel vestito». Indica il suo maglione e i suoi leggins. «Io almeno mi sono sforzata!».

    «Ho fatto il test».

    Spalanca gli occhi. «E?»

    «È positivo».

    «O mio Dio, è fantastico! L’hai già detto a Dom?».

    Mi sforzo di accennare un sorriso. «Gli ho mandato un messaggio, ma ancora non risponde. Mi ha detto che sarebbe tornato un’ora fa».

    «Hai provato a chiamarlo?»

    «Nessuna risposta».

    JoJo assume un’aria corrucciata. «Razza di idiota. Ecco che facciamo: vengo io a festeggiare con te. E mangio anche la sua porzione. Che c’è per cena?»

    «Branzino. E champagne rosa. Che ovviamente ora non posso più bere».

    «Ancora meglio, ce ne sarà di più per me! Prendo il cappotto».

    Entrambe sappiamo che sta scherzando, ma vorrei quasi che facesse sul serio. «A essere onesta forse sarebbe più divertente». Sospiro. «Suppongo che tornerà presto, ma non mi sento più così emozionata di dirgli che sono incinta il giorno di san Valentino».

    «Dove pensi che sia?».

    Faccio spallucce. «Di sicuro è stato trattenuto al lavoro. Ma sarebbe stato carino se me lo avesse detto. Dopotutto è la sera di san Valentino».

    «Sei sicura che sia tutto qui? In fondo Dom ne ha combinata qualcuna…».

    Non può esserci di mezzo lei, penso. Quella storia è finita: Dominic se n’è accertato. Lo so perché al tempo ero accanto a lui, proprio di fronte al bancone della centrale di polizia.

    «Sono sicura», dico con fermezza. «Va tutto bene tra noi adesso. Meglio che mai. Però è un comportamento un po’ strano, persino per lui».

    «Perché non chiami in ufficio? Così, per toglierti ogni dubbio».

    Dopo aver camminato su e giù per un’altra mezz’ora, seguo il consiglio di JoJo e compongo il numero della segretaria di Dom. Come previsto, è già andata a casa. Alla fine, dopo aver provato un altro paio di numeri, riesco a parlare con qualcuno al desk di accoglienza: mi dicono che il signor Gill è uscito dal lavoro intorno alle sei. Stamattina è andato in macchina perché c’era lo sciopero dei mezzi perciò gli chiedo di controllare il parcheggio. La sua macchina non c’è, ovvio. Adesso sono le otto e un quarto. Per tornare da Silvertown in macchina non ci vogliono più di venti minuti, massimo trenta in caso di traffico intenso. Rimetto il pesce in frigo, e vado al piano di sopra, in camera. Mi sfilo il vestito e i tacchi e indosso felpa e jeans. Torno sul divano e mi siedo, avvilita: non voglio più pensare al fatto che ora ho un bambino nella pancia.

    Perché proprio adesso?, penso. Perché doveva fare tardi proprio ora che andava così bene fra noi? Perché, solo per una volta, non poteva attenersi ai piani? Forse la notizia del bambino l’ha turbato in qualche modo? E perché mai?

    Per distrarmi prendo il portatile e comincio a scorrere le decine di email di lavoro non lette.

    Alla fine, alle nove e dieci, sento il rumore di una macchina nel vialetto. Vado all’ingresso e spalanco la porta. Ma non è chi mi aspettavo. Niente affatto.

    Capitolo 2

    Alice

    Passato

    Come prima cosa noto i suoi occhi.

    Ha dei bei tratti, ordinari, convenzionali. Ha i capelli biondo cenere un po’ lunghi, arricciati sopra al colletto della camicia, e acconciati con troppo gel. Ma quegli occhi! Le iridi sono del colore più strano che abbia mai visto, un colore che faticherei a descrivere. Troppo chiari per essere marroni: più una sorta di caffè latte. Oppure tortora, come la pelle di camoscio, con pagliuzze color ambra agli angoli. È leggermente abbronzato, e ogni cellula del suo corpo sembra emanare vitalità, salute. E sicurezza.

    Siamo nello stesso ascensore che si dirige verso il piano terra di Ellwood Archer, un edificio del distretto di Silvertown, sulla sponda nord del Tamigi. Sono stata a un appuntamento con un assistente esecutivo per parlare del lavoro che dovrebbe svolgere la mia società, la Comida: fornire il servizio di catering per alcuni pranzi di lavoro dei direttori. Se il piano va a buon fine sarà un vero passo in avanti per la mia piccola impresa. Perciò, quando l’uomo mi segue in ascensore, proprio mentre le porte si chiudono, io sto sorridendo. Nonostante non mi stia rivolgendo a lui, l’uomo ricambia d’istinto il sorriso.

    Ha un completo un po’ troppo piccolo, la cravatta leggermente storta. Quello, e il modo in cui maltratta la valigetta, mi fanno capire che vestirsi formale non rientra nelle sue attività giornaliere.

    «Dove?», chiede.

    «Piano terra, grazie».

    E con ciò la nostra interazione avrebbe dovuto concludersi, se non fosse che all’improvviso l’ascensore sobbalza e si arresta. L’uomo schiaccia ripetutamente i pulsanti e poi, dato che non succede nulla, preme l’allarme.

    Dall’interfono proviene una voce. «In che modo posso aiutarla?»

    «Ehm… siamo rimasti bloccati».

    «Che piano, prego?»

    «Credo tra il dodicesimo e il tredicesimo».

    «Attendete un momento in linea…».

    C’è un breve silenzio, durante il quale ci scambiamo occhiate perplesse, poi l’altoparlante prende di nuovo vita.

    «Se ne occuperà il nostro tecnico: dovrebbe arrivare tra qualche minuto. Tenete duro».

    L’uomo si rivolge a me con un sorriso affascinante. «Sei mai rimasta bloccata in ascensore?». Ha un vago accento che non riesco a riconoscere.

    Scuoto la testa, e stringo il cappotto e la borsa in modo piuttosto cerimonioso.

    Lui mi tende la mano. «Dominic Gill. Piacere».

    Io la afferro. «Alice Palmer».

    «Lavori qua?»

    «No, sono venuta per un incontro. Gestisco una società di catering, spero di poter svolgere qualche lavoro per la Ellwood Archer».

    «Wow, notevole». Di solito, di default, sono impostata sulla modestia, sul deviare i complimenti.

    «L’ho avviata da poco».

    «Be’, fa lo stesso».

    «E tu?». Sto cercando con impazienza di distrarlo, di fargli distogliere lo sguardo intenso con cui mi fissa. «Lavori qui?»

    «No, non ancora. Ma spero di lavorarci presto. Ho appena fatto un colloquio».

    «Come è andata?», chiedo, più per passare il tempo che per reale curiosità. Anche se c’è un non so che di interessante in lui.

    «Be’ sai… credo bene, ma è sempre difficile dirlo. Ed è da tanto che non faccio un lavoro d’ufficio. Sai, ero nel lato più… più manuale dell’edilizia».

    Gli guardo le mani, che sbucano dalla giacca del completo troppo piccolo. Sono abbronzate e callose, con tracce di terra attorno alle unghie.

    All’improvviso l’ascensore riprende vita con uno scatto e qualche secondo dopo ci troviamo al piano terra. Quando le porte si aprono, mi giro verso di lui. «Buona fortuna per il lavoro».

    Sto attraversando l’atrio, verso le porte d’ingresso, con Dominic alle spalle. Non lo vedo, ma sento che si affretta per raggiungermi.

    «Ti andrebbe di prendere un caffè?».

    Esito. Lui mi guarda fissa negli occhi.

    «Magari al volo. Dovrei davvero tornare in ufficio e sistemare alcuni documenti».

    Troviamo una caffetteria in Albert Road, accanto alla svolta per l’aeroporto di Londra.

    «Quindi…». Dominic non perde tempo e si lancia in un interrogatorio. «Sei sposata?».

    Scuoto la testa. «No».

    «E vivi da queste parti?»

    «Ho una casa a Queen’s Park».

    «Una casa tutta tua?»

    «Sì, una casa mia, tutta per me». Abbasso lo sguardo per osservarmi l’anulare della mano sinistra, quello dove una volta c’era l’anello di fidanzamento. «Sono molto fortunata. Ho ereditato dei soldi».

    I suoi occhi color tortora si stringono appena. «Deve essere una grande responsabilità mantenerla, eccetera eccetera. Io non penso di essere in grado, soprattutto non con questa crisi».

    «Sei cresciuto a Londra?». Un cameriere ci porta due tazze di cappuccino e io afferro la mia, grata di avere qualcosa da fare con le mani. La schiettezza di quest’uomo mi sta mettendo davvero a disagio.

    Dominic scuote la testa. «Scozia».

    È scozzese. Ecco spiegato l’accento.

    «Non vivo qui da tanto, e non potrò rimanere a lungo se non inizio a fare qualche soldo vero». Sorride appena, come se si fosse reso conto di essere sembrato un po’ cinico.

    «Be’, spero che otterrai il lavoro a Ellwood Archer».

    «Il piano è quello…». Si strattona la cravatta e la toglie per infilarla nella tasca della giacca, poi si sbottona il colletto della camicia. «Così va meglio. Odio mettermi queste dannate cose. Quindi, vivi davvero in una casa tutta tua?».

    Di nuovo quella franchezza spiazzante. Torno a guardarmi le mani. «Sì… Senti, scusami ma devo davvero andare». Mi alzo, e nel gesto rovescio nel piattino qualche goccia di cappuccino rimanente.

    Lui mi rivolge un ghigno addolorato. «Anche io. Ho delle cose da fare». Si alza. «Sarebbe bello vederci di nuovo, no?»

    «Il punto è che…», esito. Mi sono esposta già più di quanto volessi. «Ho un ragazzo, tipo».

    «Tipo? Quindi posso sperare?»

    «No, ce l’ho. Ho un ragazzo».

    Non è del tutto vero, ma dal momento che non ho intenzione di rivedere Dominic dico a me stessa che una piccola bugia bianca non farà male a nessuno. Un paio di settimane fa ho iniziato a parlare con un tipo di nome Richard su Tinder, e da allora ci siamo incontrati di persona una volta. È stato un solo appuntamento, però alla fine abbiamo concordato di vederci di nuovo presto. Ma per quanto ne sappia Dominic, potrei avere una relazione stabile. Con Richard, che è un po’ scemo e di cui, al momento, non riesco a ricordare il cognome.

    «Ah, be’». Non sembra turbato. «Allora magari ci vediamo in giro. Nel frattempo stai alla larga dagli ascensori traballanti».

    Credevo sarebbe stato il primo e ultimo incontro con Dominic Gill.

    Mi sbagliavo.

    Capitolo 3

    Alice

    Passato

    «Perciò sei sopravvissuta al viaggio in ascensore?».

    Sono passate quasi cinque settimane, e Comida, la mia società, si sta occupando del catering del primo pranzo dei direttori di Ellwood Archer. Ho istruito per tempo il mio team di chef e camerieri ma decido di farmi vedere comunque all’evento, così il consiglio noterà la mia dedizione. E sarà chiaro che sono pronta a mettere le mani in pasta se necessario. Sono appena uscita dall’ascensore e mi sto dirigendo verso la cucina adiacente alla sala riunioni.

    «Ah. Ciao».

    Quando alzo lo sguardo e vedo Dominic Gill vado in confusione, in parte perché sto cercando di tenere in equilibrio con le braccia una pila enorme di tovaglioli da tavola, e dall’altra perché ho dimenticato quanto è

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