Uno e mezzo
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Anteprima del libro
Uno e mezzo - Luciano Marrone
Luciano Marrone
Uno e mezzo
© 2023 Europa Edizioni s.r.l. | Roma
www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it
ISBN 979-12-201-3793-5
I edizione giugno 2023
Finito di stampare nel mese di giugno 2023
presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)
Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.
Uno e mezzo
Folle nell’alba tu vuoi conoscere
Ciò che nel bosco non c’è
Hai scoperto il tuo destino
(Pooh)
Prologo
Siamo in macchina, io al volante, lui seduto accanto a me, muto. Non si facevano gite di piacere, con lui: ci si spostava per lavoro da un posto all’altro, questo si faceva. E senza troppe chiacchiere. Senza troppo bla bla bla, come direbbe qualcuno. Quasi mi sento in soggezione, in difficoltà; in quello spazio ristretto, avvolti nel silenzio, i nostri caratteri contrastanti uno accanto all’altro sembrano stridere ancora di più. Lo vedo con la coda dell’occhio: burbero e rigido, invece di appoggiarsi comodo allo schienale come farebbe chiunque rimane lì a metà, contratto e teso e un po’ ingobbito, con la schiena scostata dal sedile, lo sguardo dritto davanti a sé. A ogni frenata, il suo busto si sbilancia in avanti per qualche secondo prima di ritornare in quella posizione sospesa a mezza via. Avanti e indietro, ogni volta, senza rilassarsi mai.
Quando ripenso a lui, moltissimi ricordi fanno a gara e si accavallano nella mia mente per ricomporre in me l’immagine del padre che è stato: una figura fatta di tanti piccoli tasselli diversi, dialoghi, aneddoti e gesti diluiti nel tempo e nello spazio, alcuni vividi e altri immaginati, come sempre succede con le persone che abbiamo amato e che non ci sono più. Tutti questi ricordi, adesso, mi fanno sorridere. Ma c’è qualcosa, nel ricordo di quella figura rigida seduta al mio fianco in macchina, che mi tocca in modo particolare perché mi sembra dica tanto, forse tutto, del nostro rapporto; del mio rapporto con lui e, soprattutto, del suo rapporto con me. Della vicinanza e dell’estraneità, della fiducia e della perentorietà, dell’affetto e del rigore. Dei diritti e dei doveri. Vivere in questa costante tensione tra due poli opposti, riuscire a stare nel mezzo, è stata una delle sfide più difficili della mia vita da che ho memoria; ma se oggi posso sorridere nel ripensarci è perché all’affetto si accompagna, senza ombra di dubbio, una profonda gratitudine.
Capitolo 1 – Il figlio di suo padre
Questa storia inizia a Penne, il paese a circa trenta chilometri da Pescara in cui sono nato, fa un giro largo e lì ritorna, insieme a me, ogni domenica per pranzo. Da Penne me ne andai che avevo quindici anni per frequentare le superiori a Pescara, città che da allora non ho più lasciato. A Pescara mio padre era il proprietario di un’impresa edile, motivo per cui, quando per me arrivò il momento di scegliere la scuola, non ci fu molto di cui discutere; e non dovetti aspettare di avere in mano il diploma da geometra per cominciare a lavorare in cantiere. A lui, va da sé, un geometra al lavoro serviva come il pane, e chi ero io per togliere il pane a mio padre. Così fin da piccolo la mia vita cominciò ad assumere una forma che all’epoca accolsi senza troppi pensieri, e anzi volentieri, ma che poi, negli anni successivi, mi ritrovai a tentare di rimodellare con fatica e caparbietà, sbattendoci la testa, cercando di rimpastare un materiale che ormai si era fatto rigido, o che forse malleabile non lo era stato mai per davvero.
Così, durante la settimana andavo a scuola e il sabato e la domenica lavoravo in cantiere, dove mi dovevo presentare puntuale alle sette e mezza del mattino. Guido, mio padre, era un bell’uomo dagli occhi azzurri; per tre anni, fino alla metà degli anni Cinquanta, era emigrato a lavorare in Venezuela e una volta tornato in Italia, in pieno boom edilizio, aveva avviato l’attività a Pescara, per cui il lavoro era sempre tanto. Avevo solo sedici anni e la legge era abbastanza chiara in tema di lavoro minorile; ma erano altri tempi, chi è che veniva a controllare. Tanto più che in cantiere non facevo soltanto il geometra, ma anche il gruista: maneggiavo la pulsantiera seduto con le gambe a penzoloni sul cornicione e spostavo con la gru il cemento che la betoniera impastava; gettavo i solai insomma, e intanto vedevo crescere quei palazzoni al grezzo di dieci piani che mio padre si era accaparrato a qualche ribasso d’asta per le opere pubbliche. Anche in seguito, di convincerlo a lavorare per conto proprio invece che per conto terzi non ci fu mai verso: fu una delle tante spaccature che investirono poi la mia famiglia e che nel tempo rese tesi i rapporti tra noi. Dei bandi statali c’era da fidarsi, diceva, erano soldi sicuri; non