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Dilemmi dell’azione collettiva
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E-book294 pagine3 ore

Dilemmi dell’azione collettiva

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Gilberto Seravalli, già professore ordinario di economia dello sviluppo presso l’Università di Parma, già docente del dottorato in studi urbani GSSI, ha insegnato all’Università della California Berkeley e ha diretto la scuola di alti studi sullo sviluppo della Fondazione Nitti. Ha scritto, tra l’altro, Né facile, né impossibile. Economia e politica dello sviluppo locale, Donzelli 2006; Conflitto e innovazione: le capacità innovative delle imprese tra organizzazione e intenzionalità, Egea 2011; An Introduction to Place-Based Development Economics and Policy, Springer 2015; Lo sviluppo economico – fatti, teorie e politiche (con L. Boggio), Il Mulino prima edizione 2003, seconda edizione 2015; Incióu sü tüt – La parabola di un capitalismo prepotente: Biella 1850 – Maratea 1969, Rosemberg & Sellier 2017; (con A. Schena) Un’utopia «intelligente»: l’economia di Bernard Lonergan S. J., Accademia University Press, 2019.
 
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2022
ISBN9791220135313
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    Dilemmi dell’azione collettiva - Gilberto Seravalli

    Copertina-LQ.jpg

    Gilberto Seravalli

    Dilemmi

    dell’azione collettiva

    © 2022 Europa Edizioni s.r.l. | Roma

    www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it

    ISBN 979-12-201-3056-1

    I edizione novembre 2022

    Finito di stampare nel mese di ottobre 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.

    Dilemmi dell’azione collettiva

    Questo libro è dedicato ad Alba, che per oltre mezzo secolo ha permesso alla nostra azione collettiva di funzionare, e poi mi ha offerto generosamente suggerimenti e idee per scriverne, oltre ad aver letto e riletto il manoscritto correggendo le mie tortuosità.

    Glackens, Louis M., 1866-1933. Elaborazione su The confusion of thongues, Keppler & Schwarzmann, Puck Building, 1912.

    Se Arthur Schopenhauer ci ammonisce sull’ostacolo delle individualità sulla via che conduce al bene comune anche quando siamo solo in due, quando siamo in tanti e ci mobilitiamo per un’importante realizzazione, la Bibbia ci ammonisce sulla difficoltà di concordare un così grande progetto minacciato dalla confusione delle lingue, ossia delle diverse visioni sul da farsi (nell’interpretazione di Fritz Lang in ‘Metropolis’).

    Poi dissero: Venite, costruiamoci una città e una torre la cui cima giunga fino al cielo, e acquistiamoci fama, affinché non siamo dispersi sulla faccia di tutta la terra. L’Eterno discese per vedere la città e la torre che i figli degli uomini costruivano. E l’Eterno disse: Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti il medesimo linguaggio; questo è il principio del loro lavoro; ora nulla impedirà loro di condurre a termine ciò che intendono fare. Venite, scendiamo e confondiamo il loro linguaggio, affinché l’uno non capisca il parlare dell’altro! Così l’Eterno li disperse di là sulla faccia di tutta la terra, ed essi cessarono di costruire la città. (Genesi 11, 1-9)

    1.

    Introduzione

    Serpenti e scale

    Portato in Inghilterra dall’India ai tempi della regina Vittoria, il gioco da tavolo Snakes and Ladders si pratica su una scacchiera dieci per dieci con caselle numerate da uno in basso a cento in alto, attraversate da disegni di scale e serpenti. Ciascun giocatore parte dalla prima casella, lancia un dado e sposta avanti la sua pedina in base al numero uscito; così a turno tutti i giocatori. Quando si arriva a una scala si salta alla casella in cui termina. Un serpente costringe invece a tornare indietro fin dove arriva la coda. Il gioco esprime bene l’imbroglio meritocratico. Nella vita c’è chi sale in fretta scalando carriere, potere, ricchezza, e c’è chi va piano ostacolato dalle difficoltà e dalle sconfitte. Ma molto dipende dalla fortuna: nel gioco da un lancio di dadi, nella vita dall’ambiente in cui si è nati. Le scale sono mezzi di risalita facili e abbastanza sicuri noti ovunque. In India, da dove viene il gioco, l’incontro con un serpente poteva facilmente significare disgrazia. Negli Stati Uniti, inoltre, i serpenti fanno venire in mente le truffe. L’espressione Snake oil salesman – venditore d’olio di serpente – è sinonimo di ciarlatano e imbroglione fin dai tempi della Frontiera, quando sedicenti dottori vendevano balsami miracolosi, olio di serpente appunto, presentati come panacee in grado di guarire molti mali.

    Paul Collier¹ ha evocato scale e serpenti in un articolo di commento a tre libri usciti negli Stati Uniti che, assieme al suo, contribuiscono all’ondata intellettuale (che si muove contro «la truffa meritocratica») guidata da «pensatori comunitari, i quali vedono una buona società come reticolo di rispetto e cura reciproci piuttosto che come un insieme casuale di individui portatori di diritti». Questa ondata «sta già iniziando a sgretolare idee a lungo dominanti». Nel suo libro La tirannia del merito – Che ne è stato del bene comune?, il filosofo americano Michael Sandel (2021), comunitarista di lungo corso, «caratterizza la meritocrazia come enfatizzazione di sforzo e capacità individuali, così i ricchi sono arrivati a vedersi come straordinariamente intelligenti e laboriosi», mentre hanno avuto spesso solo la fortuna di nascere e crescere tra i ricchi, in un ambiente pieno di scale da poter salire. I poveri, intesi stupidi e pigri dai ricchi e dal senso comune prigioniero dell’ideologia meritocratica, hanno spesso solo avuto la sfortuna di nascere e crescere tra i poveri, in un ambiente pieno di disgrazie e di sconfitti. Ma la rivolta populista di chi si sente escluso e denigrato, e sono ormai tanti, «esprime personaggi come Donald Trump che offre l’olio di serpente di soluzioni politiche rapide». Sandel propone così di reagire sia contro esclusione e denigrazione e sia contro le truffe dei ciarlatani populisti mediante una profonda critica dell’individualismo, auspicando il passaggio dal sé alla comunità, dal mio desiderio al bene comune:

    al quale non si arriva né con il calcolo utilitaristico della più grande somma di utilità individuali né con l’espediente Rawlsiano […] del velo di ignoranza², ma piuttosto attraverso la soddisfazione ottenuta dall’adempimento degli obblighi sociali. Questo nucleo centrale del libro di Sandel si congiunge con il libro di Goodhart (2020), che lamenta l’incapacità dell’umanesimo di offrire qualsiasi conforto […]; invece, a differenza degli individui, le comunità sostengono e sopportano. E l’autore umanista si ritrova spinto a suggerire il conforto della virtù e della saggezza. […]. [… Infine] Raghuram Rajan (2019), l’economista finanziario più rispettato al mondo, ha presentato una forte critica alla nostra esagerata dipendenza da Stati e mercati, auspicando la crescita del terzo pilastro mancante, cioè della comunità (Collier 2021).

    Anche Robert Putnam e Shaylyn Romney Garrett auspicano una ripresa del perduto senso di condivisione nel loro libro The Upswing: How America Came Together a Century Ago and How We Can Do It Again dell’ottobre 2020. La società americana, alla fine dell’Ottocento individualista come ora, seppe reagire avviando una lunga stagione di coesione e condivisione che arrivò al culmine negli anni Sessanta del Novecento. Putnam e Garrett pensano che forse sono già all’opera le forze capaci di innescare e poi sostenere, come allora, una vera rinascita.

    «Nessuna regola fissa può essere stabilita», scrisse Theodore Roosevelt nel 1901, «circa il modo in cui tale lavoro [riforme] deve essere fatto; invece ogni uomo, qualunque sia la sua posizione, dovrebbe sforzarsi di farlo in qualche modo e in una certa misura». I progressisti di allora non possono offrirci un modello per ciò che si deve fare per dare luogo a un’altra rinascita. […] Ma [i] successi della rinascita del ventesimo secolo possono offrirci lezioni importanti su come realizzare un cambiamento epocale e grandioso: partendo dalle nostre comunità e riconoscendo il potere latente dell’azione collettiva (Putnam, Garrett 2020, p. 424, sottolineature nel testo)³.

    La riscossa del pilastro comunitario sarebbe dunque in atto, almeno negli Stati Uniti; una riscossa perché anche là il comunitarismo, rianimato negli anni Ottanta⁴ dopo un lungo sonno, non ha avuto finora molta fortuna.

    La comunitarista è una delle più piccole scuole filosofiche, come si ricava dal ridotto numero di studiosi che si considerano comunitaristi e dalla quantità relativamente esigua di articoli accademici e di libri pubblicati negli anni sull’argomento. […]. Il termine comunitarismo fu impiegato per la prima volta nel 1841 da John Goodwyn Barmby fondatore della Universal Communitarian Association […]. Dopo di allora fu usato raramente fino agli anni Ottanta del secolo scorso quando venne ripreso da Michael Sandel, Charles Taylor e Michael Walzer (Etzioni 2014, pp. 241-242).

    Un esperto italiano, critico ma non ostile, scriveva nel 2016: «Erano troppe le incongruenze del comunitarismo per poter prevedere un suo successo, se non altro in ambito americano. La sua spinta ideale si è arrestata prima del previsto, insieme al dibattito con il liberalismo, che in America si è chiuso subito a vantaggio di quest’ultimo, e oggi nessuno ne parla e ne scrive più, se non in termini storiografici, mentre in Europa e nel resto del mondo non è mai neanche nato» (Pupo 2016, p. 15). La ripresa, quindi, è di questi ultimi cinque-sei anni.

    Da noi in Europa il comunitarismo non ha mai avuto seguito suonando inesorabilmente datato: già all’inizio del Novecento la critica antiliberale aveva avuto la sua stagione, i suoi fasti e nefasti, e si era esaurita⁵. Ma colpisce, per esempio, lo strano entusiasmo bipartisan suscitato dalla visita in Italia di Raghuram Rajan, mentre Il Secolo d’Italia – quotidiano on line della destra italiana – invita a «riscoprire Adriano Olivetti e il principio comunitarista»⁶ senza alcuna esitazione, che dovrebbe invece essere doverosa di fronte a un pensiero elaborato contro i disastri prodotti in Italia e in Europa dalla destra, oltre che dalla degenerazione dei partiti che avevano aperto la strada al fascismo⁷.

    Nonostante queste manifestazioni di interesse, in Europa non esiste un movimento comunitarista come quello americano, che nel vecchio continente apparirebbe inevitabilmente ambiguo. La chiamata alla partecipazione e all’azione collettiva dal basso non è però da noi meno ampia e incisiva, come si nota sia considerando quanto accade nella società civile e sia ascoltando, per esempio, esperti e accademici delle discipline coinvolte in questioni di sviluppo territoriale sostenibile.

    Sull’appello degli esperti volto a sostenere e ampliare la partecipazione, posso riferire una singolare esperienza personale. Per tre mesi, ho diretto e seguito giorno per giorno una lunga e intensa serie di seminari e laboratori condotti da 29 accademici e competenti, dei quali 9 stranieri (uno dall’Olanda, tre dal Regno Unito, due dalla Francia, tre dagli Stati Uniti), attivi negli ambiti di: geografia economica e culturale, economia dello sviluppo, scienza delle finanze, sviluppo territoriale, statistica, politiche sociali, economia delle istituzioni, innovazione industriale, istituzioni e organizzazioni, direzione dei progetti, economia applicata, urbanistica, analisi e valutazione delle politiche pubbliche, sociologia, criminologia, architettura, comunicazione pubblica. (Fondazione Francesco Saverio Nitti, Scuola di Alti Studi sullo Sviluppo; Maratea, dal primo di marzo al 29 maggio 2012). Quasi tutte le relazioni degli studiosi di queste discipline tanto diverse (sul tema dello sviluppo territoriale) si sono dipanate da un comune punto d’orientamento che hanno adottato senza che fosse espressamente richiesto dal programma: la sempre più pervasiva incertezza in qualsiasi campo si debba operare. L’incertezza mette in dubbio secondo tutti i relatori l’utilità dei tradizionali approcci tecnico-deterministici secondo cui date le risorse, i vincoli e gli obiettivi, esistono le risposte ottimali a tutti i problemi. Dopo aver minuziosamente presentato e analizzato i tradizionali approcci nel loro campo specifico, ne hanno spiegato i limiti dimostrando, tuttavia, che essi non ci costringono ad accettare prospettive ideologiche (che implicano atti di fede) e neppure, dal lato opposto, ciniche (secondo le quali poco si può capire e nulla si può fare), prospettive comunque tutt’altro che ipotetiche. Nel proprio ambito di specializzazione, ciascuno ha riconosciuto spazi significativi nei quali l’incertezza non pone solo problemi ma offre opportunità per capacità generative. Quindi hanno fatto vedere che in questi spazi non scompare l’utilità del sapere tecnico e scientifico, che anzi accresce la sua importanza se è un sapere nuovo che sfida tale difficile condizione, un sapere in ogni modo già ricco di analisi e indicazioni. Ma quello che più mi ha colpito, impressione condivisa dagli stessi relatori dopo essersi confrontati, è il fatto che quasi tutti i modelli, per quanto assai specifici e tra loro distanti, potevano chiudere il loro percorso logico e applicativo solo mediante una leva, che si è rivelata simile in ogni campo, il che a prima vista potrebbe sembrare strano. Questa variabile strumentale comune è emersa come «maggiori sostanziali assunzioni di responsabilità a tutti i livelli», con il richiamo alla azione collettiva partecipata «sorretta da un sapere tecnico-scientifico che la circoscriva e perciò le renda credibile» (citazioni dalla relazione conclusiva). È decisivo notare che tale chiusura dei pur diversi paradigmi solo con l’azione collettiva dal basso, in realtà, non è strana ma si spiega con la riconosciuta pervasiva sindrome controintuitiva per cui la sopravvenuta inefficacia dei metodi d’azione deterministici non conduce affatto al loro spontaneo declino. Conduce al contrario a un parossismo di regole su regole, di tecniche su tecniche, di ricette su ricette che, destinate all’inesorabile fallimento, alimentano però, con l’illusione dell’attivismo, le rendite di posizione di funzionari, burocrati, tecnici, consulenti, professori, che hanno ogni interesse ad esaltarne la necessità per non riconoscere obsoleto il loro sapere. Mentre, d’altra parte, molti utenti e cittadini sono indotti a credere che sia inevitabile fare così e quindi offrono più consenso all’attivismo delle ricette che alle nuove azioni arrischiate che vanno contro corrente. Su questa base, poi, i politici seguono con entusiasmo dato che anche il loro saper fare, altrettanto obsoleto, sembra restare utile, anzi utile quanto mai.

    Come sempre gli esperti (quelli che ragionano) un po’ anticipano e molto seguono i movimenti in atto, in effetti del tutto palesi nella società civile. In Italia, la Rete dei Numeri Pari, coordinamento di 423 strutture di azione collettiva dal basso (erano 336 due anni fa), ha realizzato un’indagine approfondita per «analizzare le pratiche di mutualismo sociale sviluppate sul territorio, identificarne i fattori propulsivi e le condizioni abilitanti, analizzarne i risultati, anche al fine di comprendere le possibilità, e sotto quali condizioni, di ulteriori sviluppi» (GSSI – Gran Sasso Science Institute – e Rete dei Numeri Pari). Nell’introduzione del progetto di ricerca si legge: «È in questo contesto (aumento senza precedenti […] di povertà e disuguaglianze economiche e sociali) che si sono moltiplicate le iniziative di natura civica e spontanea che hanno dato vita a pratiche di mutualismo solidale ed ecologico. […]. Pur nella diversità delle […] esperienze, esse sono accomunate da alcune caratteristiche fondamentali […]: reciprocità, solidarietà, azione collettiva». I dati in effetti parlano chiaro. Quello più impressionante dei tanti raccolti dall’Istituto Nazionale di Statistica con il censimento permanente del Non Profit vede raddoppiato il numero di dipendenti nel settore, dato assai significativo perché quando ai volontari vengono affiancati lavoratori con un regolare contratto, questo significa che le strutture sono robuste. Nel 2001 i dipendenti del settore non profit erano 490 mila, oggi sono 900 mila. Il numero delle strutture è nello stesso tempo aumentato da 235 a 370 mila, aumento notevole (+57%) ma minore di quello dei dipendenti (+84%) a testimonianza della diffusione delle iniziative ma anche del loro rafforzamento con la crescita delle dimensioni medie delle singole strutture. L’Italia resta, comunque, agli ultimi posti in Europa per quota della popolazione che svolge strutturate attività di volontariato, la quale è sì cresciuta fino a sfiorare oggi il 10% (5 milioni e mezzo di persone), ma resta lontana dalla quota dell’Olanda e paesi scandinavi (oltre il 30%), Germania (27%), Regno Unito (24%), Francia (22%) e dalla quota media UE a 27 membri (18%).

    Il fatto è che l’ondata comunitarista reagisce, come del resto quella populista, a una malattia diffusa in tutti i paesi di vecchia industrializzazione: il crollo della classe media che aveva sempre assicurato consenso e sostegno all’assetto sociale ed economico individualista.

    Il fatto è gravissimo dal punto di vista storico-epocale, come si comprende considerando la categoria gramsciana di egemonia, oggi la più universalmente nota e dibattuta, che Fabio Frosini (2020) ha - mi sembra - definitivamente sistemato, come «riconoscimento del modo in cui si realizza la combinazione non contradditoria tra l’eguaglianza di diritto, formale, giuridica, garantita dallo Stato, e la diseguaglianza di fatto che infuria nella società civile» (Frosini 2020, p. 289). Questo modo consiste nel «continuo spostamento» della classe borghese, la sua «reale espansione» (Ivi, p 293), sicché «le barriere alla mobilità sociale vengono rimosse e si crea uno spazio nazionale comune, caratterizzato da una situazione di equilibri instabili [dinamici] tra gli interessi della borghesia e quelli di tutte le energie nazionali, cioè dei gruppi subordinati» (Ibidem). La «crisi di egemonia […] ha perciò la sua radice nel fatto che la classe borghese non riesce più a colmare il vuoto che si apre tra la pressione popolare per l’emancipazione e le forme […] in cui questa può effettivamente aver luogo» (Ivi, p. 298). La quale crisi di egemonia non è semplicemente malessere sociale, bensì radicale crisi di sistema.

    È ormai ben documentata la condizione di tanti nonni che vedono i figli stare peggio di loro e ancor peggio i nipoti, quei nonni che avevano vissuto notevoli miglioramenti rispetto ai loro genitori. Secondo un Rapporto Oecd del 2019, una quota che va dal 65% all’80%⁸ della popolazione pensa ancora di appartenere alla classe media in paesi di vecchia industrializzazione. Dagli anni Ottanta tuttavia le condizioni reali sono molto cambiate e questa auto-identificazione per molti non corrisponde più alla realtà. Oggi solo il 60% dei giovani di 20-30 anni appartiene alla fascia media per reddito effettivo, mentre a 20-30 anni era nella fascia media il 65% dei nati tra il 1965 e il 1982, ed era il 70% dei nati dal 1943-1964. Prima del 1943 la percentuale dei giovani appartenenti alla classe media era il 60%; siamo quindi tornati all’anteguerra!

    La crisi della classe media nei paesi fino a qualche decennio fa indicati come sviluppati è messa in particolare evidenza se si guarda il nesso, alla scala mondiale, tra crescita e livelli del reddito personale. Tale relazione appare dominata proprio da quella crisi oltre che dai successi delle classi medie dei paesi emergenti che hanno aumentato in maniera impressionante il reddito pro capite con cifre comprese tra il 50% e il 100% di differenza tra il 1988 e il 2008. Invece le classi medie dei paesi di vecchia industrializzazione, i paesi detti tradizionalmente sviluppati, hanno dovuto accontentarsi di aumenti inferiori al 20%, mentre i super-ricchi di tutti i paesi diventavano due volte più ricchi. In questo modo la curva che rappresenta quella relazione alla scala mondiale tra crescita e livelli del reddito personale ha assunto una forma che suggerisce il profilo della testa di un elefante: il grafico a testa di elefante. Dalla estrema sinistra dove la linea parte in basso (redditi minimi dei paesi più poveri), la curva sale a raggiungere il punto

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