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I grandi imperi del Medioevo
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E-book464 pagine8 ore

I grandi imperi del Medioevo

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Info su questo ebook

L’incredibile storia delle corone che hanno creato l’Europa

Da Costantino, primo imperatore cristiano
a Carlo Magno, il padre dell’Europa moderna

L’impero non è semplicemen¬te una forma di governo o di organizzazione politica: ha radici divine, perciò lo si ritiene immortale. Questo libro racconta il modo in cui si è trasformato il concetto di impero nei secoli che vanno dalla caduta dell’impero romano d’Occidente a quella di Costantinopoli (1453).   Con una prosa agile e continui rinvii alle fonti storiche, l’autrice guida il lettore in un lungo e affascinante viaggio attraverso gli imperi che si susseguirono durante il Medioevo: da Costantino, il primo imperatore cristiano, a Carlo Magno, considerato il padre dell’Europa moderna, dai fasti del mondo bizantino alla dinastia degli Ottoni che regnò sullo scorcio dell’Anno Mille, nel drammatico “secolo di ferro”, fino alla riforma gregoriana della Chiesa e allo scontro epocale che vide su fronti avversi i papi e i grandi imperatori tedeschi: Enrico IV, Federico il Barbarossa, il geniale e sregolato Federico II di Svevia, soprannominato “stupor mundi”. Come una Fenice immortale, che arde  ma non muore, l’idea del potere  universale sopravvisse ai grandi sconvolgimenti
che travagliarono la civiltà occidentale dopo la fine dell’impero di Roma,  si eclissò in epoche di crisi per poi risorgere, ogni volta splendida, negli imperi del Medioevo.

Il segreto di un potere universale

Dalla caduta dell’impero Romano d’Occidente 
Alla fine di Costantinopoli 

Hanno scritto dei suoi saggi:
«Una studiosa che ha dedicato anni di lavoro e altre opere a questo argomento… Si legge con gusto.»
Umberto Eco

«È un libro imperdibile.»
Corrado Augias
Barbara Frale
(Viterbo, 1970) è una storica del Medioevo nota in tutto il mondo per le sue ricerche sui Templari. Autrice di varie monografie, ha partecipato a trasmissioni televisive e documentari storici sul processo ai Templari e sulla Sindone di Torino. Insieme a Franco Cardini è consulente storica della serie in onda sulla RAI I Medici. Lorenzo il Magnifico, e autrice del saggio La Congiura. Dopo il successo di I sotterranei di Notre Dame, con la Newton Compton ha pubblicato anche In nome dei Medici. Il romanzo di Lorenzo il Magnifico e I grandi imperi del medioevo.
LinguaItaliano
Data di uscita18 ott 2018
ISBN9788822726544
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    Anteprima del libro

    I grandi imperi del Medioevo - Barbara Frale

    Premessa

    Anni fa tenni un ciclo di seminari presso la Scuola di Specializzazione in Paleografia, Diplomatica e Archivistica dell’Archivio Segreto Vaticano, e per l’occasione scrissi varie dispense.

    A quegli studenti, in realtà già quasi docenti poiché freschi di laurea in Lettere antiche, se non addirittura dottori in ricerca, bisognava fornire una panoramica quanto più ampia possibile sulle istituzioni che segnarono il Medioevo europeo: prima che si addentrassero nel vivo delle varie discipline, che si trovassero insomma a confronto con lo spinoso problema di decifrare un documento del tardo Impero o di qualche secolo del Medioevo, dovevano avere ben chiari i caratteri della civiltà che quel documento aveva prodotto.

    Ricordo che a suo tempo, quando anch’io avevo seguito la stessa Scuola, monsignor Aldo Martini – allora docente di Diplomatica –, portò un giorno a lezione una specie di ibrido mostruoso.

    Vadium, lo chiamò; era il suo nome autentico, una parola forse nata dalla fusione del latino giuridico vadimonium (promessa solenne) e del germanico gage (pegno). Davanti ai nostri occhi c’era una piccola pergamena, un atto legale scritto con tutte le formule giuridiche di rito, ma sul fondo di quel foglietto membranaceo qualcuno aveva curiosamente e incongruamente cucito un piccolo cilindro di legno.

    Noi studenti subito ci imbarcammo nella coraggiosa fatica di leggere il testo, di capirne le complesse formule, sicuri che in quelle righe di scrittura contorta, distorta, lontanissima dai caratteri grafici cui eravamo abituati, si celasse chissà quale importante trattato; il professore ci disse invece che la parte essenziale del documento, quella che conferiva validità al tutto, non era affatto la pergamena con il suo testo, bensì il minuto, rozzo e anonimo bastoncino. Perché vadium significa fede: colui che aveva donato il piccolo cilindro, con quel gesto aveva anche giurato formalmente dinanzi a tutta la comunità, a prezzo del proprio onore, di rispettare i termini dell’accordo messo per iscritto.

    Negli anni a venire, durante le mie ricerche e le varie occasioni d’insegnamento, ho riproposto a chi mi ascoltava l’esempio di quel curioso oggetto; molto meglio di tante parole, infatti, quel rotolino di pergamena al quale fu cucito un umile legnetto sa parlare dell’incontro tra due culture: da una parte quella romana basata sul diritto, sul concetto di autenticità e i documenti scritti a norma di legge, sulle pratiche dell’amministrazione, su un livello di alfabetizzazione che raggiungeva anche le più infime classi sociali; dall’altra quella germanica, che invece si fondava sulle tradizioni degli antichi trasmesse oralmente come la propria storia, i miti e la religione, e che attribuiva valore solo alla viva parola dell’uomo libero pronunciata davanti al consesso dei

    suoi pari.

    L’intero Medioevo può in qualche modo essere simboleggiato da quel vadium, poiché nacque essenzialmente dalla fusione di culture molto diverse tra loro che riuscirono a mischiarsi senza che nessuna perdesse i propri caratteri peculiari. A legare tali culture c’era l’Impero, inteso come istituzione politica ma anche come orizzonte ideologico: insieme al papato, era uno dei pilastri sui quali si reggeva il mondo medievale; ma anche i papi, da una certa epoca in poi, si sentirono a pieno titolo altrettanti Cesari, e fecero incetta di antichi reperti romani per fregiarsene quali trofei capaci di dare autorità anche temporale al loro carisma spirituale di vicari di san Pietro.

    Questo saggio vuol essere accessibile a tutti i lettori, e in particolare agli studenti, che spesso vedono la storia solo dalle pagine concettose e un po’ aride dei manuali scolastici: entrare invece nel vivo delle fonti, e soprattutto scoprire l’umanità concreta dei personaggi curiosando tra le indiscrezioni dei cronisti, maestri del gossip all’antica, credo sia un modo per aiutarli a capire che la Storia, persino quella con la S maiuscola, è un palcoscenico dove si muovono individui come noi, mossi da passioni comuni, desiderio di sopravvivere, idealismo, e più spesso, meschinità.

    Anche il criterio scelto per la bibliografia strizza l’occhio alle scuole: poche note, per non appesantire la lettura, quelle essenziali che mettono i lettori a contatto diretto con i documenti antichi, e una selezione di letture alla fine del testo che privilegia le opere più abbordabili per contenuti, reperibilità e prezzo.

    Il titolo (I grandi imperi del Medioevo) è stato scelto dall’editore per distinguere questo saggio da un altro quasi omonimo di Ludovico Gatto (Gli imperi del Medioevo), che include però anche gli imperi bulgari: il mio discorso, invece, focalizza l’attenzione sull’Europa occidentale per indagare come il concetto di Impero sopravvisse alla fine del mondo antico per trasmettersi ai secoli successivi attraverso varie incarnazioni storiche.

    I grandi imperi occidentali del Medioevo, in breve, sono rami di un solo albero: l’Impero per antonomasia, quello di Roma, dal quale idealmente tutti gli altri che si susseguirono nel bacino del Mediterraneo dal v al xv secolo facevano orgogliosamente risalire le proprie origini.

    Vorrei chiudere questa premessa con un’immagine assolutamente contemporanea, e tuttavia ancestrale, che amo particolarmente: quella di Daenerys Targaryen, la piccola erede al Trono di Spade nella popolarissima saga Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco di George Martin.

    Venduta, abusata, spogliata di tutto, rapita, insidiata da continue minacce, contestata da mille nemici, i quali comunque non possono sopraffarla: la sua forza risiede nel sangue, che proviene dagli antenati e non può essere cambiato. Come la Fenice, se bruciata non si estingue, anzi ne riceve nuova potenza; in lei abita un carisma speciale che è un dono degli dèi.

    Se dovessi illustrare il concetto di Impero in una semplice parola, capace però di trasmettere quel qualcosa di ineffabile che si percepisce subito, e sembra avere natura indubbiamente sovrumana, allora farei il suo nome.

    1. In principio fu Roma

    […] possis nihil urbe Roma

    visere maius.

    […] che tu non possa mai vedere nulla

    più grande della città di Roma!

    Orazio, Carmen saeculare, vv. 11-2

    Tutte le strade portano a Roma

    Settecento anni dopo l’inizio dell’era cristiana – post Christum natum, come si diceva allora –, un ignoto monaco compilò una raccolta di profezie attribuite in seguito a Beda il Venerabile, forse il più grande erudito del Medioevo inglese.

    Una di tali predizioni poté giungere fino ai giorni nostri perché i secoli a venire le riconobbero un indiscutibile fondo di verità; alla stregua di un proverbio, è divenuta familiare per un pubblico che travalica di gran lunga la cerchia dei medievisti:

    Quamdiu stabit Colyseus,

    stabit et Roma.

    Quando cadet Colyseus

    cadet et Roma;

    quando cadet Roma,

    cadet et mundus.

    (Fin quando il Colosseo starà in piedi, durerà Roma. Quando il Colosseo cadrà, anche Roma cadrà. E se cadrà Roma, cadrà anche il mondo).¹

    Già alla fine del Settecento Edward Gibbon, nel suo memorabile saggio sulla fine dell’Impero romano, attribuiva in realtà quei versi ai pellegrini anglosassoni che si erano recati nell’Urbe prima dell’anno 735, quando Beda morì; non pareva infatti verosimile che il venerabile abate avesse mai davvero attraversato il Canale della Manica. Oggi sappiamo pure che si riferivano al colosso di Nerone che un tempo sorgeva nei pressi dell’Anfiteatro Flavio, dal quale nacque il termine popolare Coliseum. Nei secoli della decadenza di Roma, l’enorme statua di bronzo venne fusa per ricavarne monete, mentre l’anfiteatro rimase a testimoniare la grandezza passata; così nel Medioevo divenne il monumento più impressivo e anche più simbolico della civiltà romana.

    Meritava tale fama. Lo aveva infatti edificato Vespasiano, grande generale e poi imperatore, affinché il popolo dell’Urbe, depresso dalla tirannide di Nerone, potesse ritrovare la propria dignità: sulla sabbia dell’anfiteatro, durante i giochi dei gladiatori, si manifestava l’antico principio della sovranità popolare che aveva sospinto Roma repubblicana, e le plebi potevano esprimere il proprio potere decretando il voto di vita o di morte per i combattenti, al quale lo stesso Cesare era vincolato. La storia del Colosseo era nota ovunque, anche se gli uomini del Medioevo, che conoscevano l’antichità attraverso il filtro fornito dagli scritti dei Padri della Chiesa, lo vedevano come il luogo dove s’era consumata la morte eroica dei martiri, non tanto come arena dei giochi circensi.

    La profezia di Beda sul carattere imperituro di Roma e del suo principale monumento circolava ampiamente nell’Inghilterra non ancora invasa dai Normanni. La gente dell’isola era del resto legatissima a Roma per ragioni soprattutto religiose: da tempo infatti, dopo che papa Gregorio Magno (590-614) aveva promosso un’intensa campagna di predicazione nelle remote isole inglesi, il popolo di quelle terre sentiva forte la devozione a san Pietro e scendeva volentieri a Roma per pregare sulla sua tomba in Vaticano, sfidando le strade impervie e i mille pericoli del lungo viaggio.

    La suggestione della Roma imperiale ancora parzialmente in piedi nonostante secoli di abbandono, guerre, saccheggi e devastazioni, era nonostante tutto potentissima. Così forte, a ben vedere, che persino un uomo nato nella contea di Durham come il nostro monaco senza nome, ovvero più di duemila miglia distante dall’Urbe, quando immaginava la fine del mondo, immaginava innanzitutto la caduta di Roma: il Giorno del giudizio sarebbe stato annunciato dal suo crollo, perché l’Urbe immortale era il fulcro della terra.

    Del resto il luogo nativo di Beda, Jarrow, era stato un castrum romano del i secolo, di cui restavano tracce di pietra; l’Inghilterra di quei tempi era ancora memore delle sue antiche radici latine al punto che – tanto per fare un esempio –, il popolo usava amuleti con scritte in greco secondo le prescrizioni magiche di papiri diffusi in tutto l’Impero tra il i e il iii secolo, dunque fra l’epoca di Ottaviano Augusto e quella di Settimio Severo.

    Il grande vallum di pietra costruito da Adriano permaneva a tagliare in due il suolo dell’isola, monito silenzioso quanto efficace di quello che un tempo era stato il confine tra la Britannia, provincia romana, e la Caledonia, terra barbara e selvaggia abitata dal popolo dei pitti. Ma l’Inghilterra non ospitava che una delle tante province di Roma, scelta per cominciare questo saggio proprio perché dai romani considerata quasi alla fine del mondo: a sei giorni di navigazione dalla Gran Bretagna, infatti, l’esploratore greco Pitea (iv secolo a.C.) aveva posto l’ultima Thule, una terra leggendaria di ghiacci e di fuoco, dove il sole non tramonta mai. Altre zone d’Europa meno lontane dall’Italia, o dove la romanizzazione era stata più intensa, mantenevano nella loro cultura radici latine ancora più forti.

    Scendendo verso sud in pellegrinaggio lungo la celebre via Francigena, attraversando l’Europa per commercio, o durante gli interminabili spostamenti che i monaci compivano per cercare nelle tante abbazie del mondo cristiano rari manoscritti antichi da ricopiare, i viaggiatori potevano ammirare impressionanti relitti di romanità: acquedotti monumentali ormai inservibili, anfiteatri in pietra, palazzi semidiruti ma ancora abbelliti da colonne di marmo, terme adorne di statue e preziosi pavimenti musivi. Tutto ciò appariva incredibilmente bello e di proporzioni titaniche all’uomo dell’Alto Medioevo: nelle regioni dell’Europa centrosettentrionale non solo la povera gente, ma anche molte famiglie nobili abitavano dentro anguste torri fatte di rozzi conci appena sbozzati, o in modesti castelli edificati con il sistema detto a motta e bastione, i quali erano fragili edifici in legno poggianti sopra un cumulo di terra.

    Le orme dei Cesari erano orme di giganti; tutto ciò che era grandioso, eccellente e duraturo, nell’immaginario collettivo del Medioevo rinviava a Roma. A partire dalle strade stesse lungo le quali si spostavano quei viaggiatori infaticabili dei secoli bui, ancora in gran parte praticabili dopo quasi un millennio.

    Nessun impero del Medioevo, di conseguenza, poteva concepire se stesso se non come l’erede naturale – il solo vero e legittimo – di quello romano: quando Costantino scelse la città greca di Bisanzio sulle rive del Bosforo quale sua capitale d’Oriente, la trasformò in una seconda Roma, e monarca dei Romani (basilèus tòn Romàion) è il vero titolo portato da coloro che noi, impropriamente, chiamiamo imperatori bizantini. Nessun saggio sugli imperi del Medioevo, di conseguenza, potrebbe iniziare se non partendo dalle radici, ovvero Roma.

    Per convenzione si fa iniziare il Medioevo dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente, ovvero il momento in cui l’ultimo imperatore romano, Romolo Augustolo, fu spodestato dal generale sciro Odoacre, che prese il potere presentandosi in qualità di re. Ma Odoacre era solo il soprannome di quell’usurpatore, comandante delle truppe imperiali formate da soldati di etnia barbarica: egli in realtà portava il prenomen latino di Flavius e quando, nonostante il colpo di stato, scelse di emettere moneta aurea, presentò sì la propria effigie, ma con il nome dell’imperatore Zenone, perché formalmente da lui aveva ricevuto l’autorità di reggere l’Occidente con il titolo di magister militum (capo delle milizie).

    Nel 1935 uscì un celebre saggio del grande storico belga Henri Pirenne intitolato Maometto e Carlo Magno, nel quale si avanzava la tesi che in realtà il grande mutamento storico dell’Occidente non fosse causato dai barbari, bensì dalla diffusione dell’Islam durante il secolo vii: interrompendo la libera circolazione dei traffici commerciali nel Mediterraneo, che i romani chiamavano mare nostrum, sarebbero mutate le abitudini, e dunque anche la civiltà.

    Questa geniale tesi che fece epoca, e richiese decenni agli studiosi per essere corretta nei suoi difetti, è oggi superata anche se di essa resta valido l’assunto centrale: la fisionomia dell’Europa nell’anno 400 non era tanto diversa da quella di due secoli dopo, e solo progressivamente, durante il secolo vii, si trovano nei siti archeologici segni di decadenza, impoverimento e mutamento radicale delle condizioni di vita delle persone, così vistosi da dimostrare che le città erano entrate in una fase di drammatico declino, lo smembramento politico le aveva rese insicure e gli scambi commerciali si erano di molto rarefatti. Se osserviamo un centro indagato dagli archeologi come Anguillara nella campagna romana, o la non lontana Farfa, notiamo che in tempi sicuramente posteriori all’anno 550 si usavano ancora pregiati servizi da tavola in ceramica di manifattura africana, tanto apprezzata nell’Antichità.

    La fine dell’Impero di Roma all’altezza dell’anno 476 è una convenzione, un confine libresco comodo per gli studiosi, mentre la realtà concreta nella quale le persone vivevano era infinitamente più ricca e sfumata. Il diritto romano continuò ad avere valore, così come anche la moneta, il modo di vestire e di comportarsi, di concepire l’arte, la ricchezza e le cose belle. Progressivamente, con l’affluire di popoli barbarici sempre più presenti nell’Europa centro-meridionale, alle usanze romane si mischiarono le consuetudini di ascendenza germanica creando delle forme ibride di diritto (ma anche di arte) nelle quali ancor oggi siamo in grado di discernere entrambe le componenti culturali. Il secolo vi, il primo dell’era medievale, è del resto il secolo in cui l’imperatore Giustiniano fece stilare la grande raccolta del Codice dove l’intera tradizione giuridica romana veniva ordinata e trasmessa ai posteri, ma è anche il secolo in cui Cassiodoro, uno dei più grandi intellettuali del medioevo, fondava a Vivarium in Calabria una sontuosa abbazia per custodire le opere più preziose della civiltà greca e latina.

    I cambiamenti senza dubbio vi furono e avrebbero nel corso del tempo dato luogo a una civiltà differente da quella dell’antica Roma, che tuttavia non fu mai dimenticata, e meno che mai sentita come estranea: l’Impero restò come un orizzonte mitico al quale guardava chiunque, nel Medioevo, volesse rivendicare per sé grandezza, carisma e autorità.

    Così Federico ii Hohenstaufen, il grande imperatore svevo, fece costruire nel 1234 la monumentale Porta di Capua, ultimo avamposto del suo regno presso i confini dello stato pontificio, e prese a modello gli archi trionfali dell’antichità; la sormontava una statua imperiale che ritraeva lo svevo abbigliato come un antico Cesare, con toga e pallio, mentre alla sua destra due statue effettivamente di epoca romana, una ritraente Diana e l’altra Apollo, rappresentavano i numi tutelari delle due principali attività della corte, la caccia e le attività intellettuali.

    Anche i papi, da una certa epoca in poi, cominciarono a rivendicare per sé simboli e insegne imperiali, a farsi acclamare dalle proprie truppe con grida ed epiteti mutuati da quelli in uso nelle legioni di Roma, a farsi seppellire in sarcofaghi di riuso dei secoli i e ii ornati con scene di sacrifici agli dei pagani: ben lungi dal sembrare cosa sacrilega, come forse potrebbe apparire a noi, tale scelta dipendeva dal fatto che quegli oggetti erano visti come segni di indiscusso potere e supremazia sul mondo.

    Imitatio imperii, la chiamavano: e non ci ravvedevano niente di peccaminoso. Per esempio Bonifacio viii, il papa più teocratico del Medioevo, ricevendo nel 1298 i delegati imperiali inviati da Alberto d’Asburgo, parlò della sua tiara come il diadema di Costantino, affermando a voce alta: «Sono io Cesare, sono io l’imperatore!»².

    Mesi prima, secondo i cronisti, si era mostrato in pubblico vestito di rosso, con la spada cinta al fianco, e in alcuni dei suoi spostamenti aveva portato con sé un leopardo incatenato: atteggiamenti che evocano chiara l’immagine di un imperatore dell’antichità.

    Nemmeno la Chiesa intendeva dunque rinunciare alle sue preziose radici storiche affondate direttamente nel cuore della Roma imperiale. Respublica christianorum è infatti il modo con cui definiva se stessa nei documenti.

    Respublica. Più che una parola, un proclama.

    1 Beda, Collectanea, 1, iii, ed. Migne, 1862, p. 543; Ch. Du Cange, Glossarium mediae et infimae latinitatis, ii, p. 407; E. Gibbon, The History of the Decline and Fall of the Roman Empire, Gerard Fleischer, Leipsick 1829, v. xii, p. 354.

    2 A. Paravicini Bagliani, Bonifacio viii, Torino 2003, p. 189.

    Natura divina

    Nel Canto vi del Paradiso (versi 1-12), che i critici giustamente chiamano il canto politico, Dante descrive la fondazione di Costantinopoli per bocca di Giustiniano i, il grande legislatore:

    «Poscia che Costantin l’aquila

    volse contr’ al corso del ciel, ch’ella seguio

    dietro a l’antico che Lavina tolse,

    cento e cent’ anni e più l’uccel di Dio

    ne lo stremo d’Europa si ritenne,

    vicino a’ monti de’ quai prima uscìo;

    e sotto l’ombra de le sacre penne

    governò ’l mondo lì di mano in mano,

    e, sì cangiando, in su la mia pervenne.

    Cesare fui e son Iustinïano,

    che, per voler del primo amor ch’i’ sento,

    d’entro le leggi trassi il troppo e ‘l vano […]».

    L’Impero, incarnato da un’aquila, vola poeticamente da Occidente a Oriente per poi tornare in Europa; qui il Sacro Romano Impero, nelle persone di Enrico vii e Ludovico il Bavaro, avrebbe dovuto compire il proprio destino guidando i popoli verso la felicità terrena: questa, almeno, era la visione politica di Dante, che tuttavia dava voce a milioni di altre persone convinte, come lui, che quella fosse la forma più alta di governo possibile sulla terra.

    Dio stesso, nelle miniature dell’Alto Medioevo, è raffigurato come l’imperatore, mentre siede in trono reggendo nella destra un globo sormontato da una croce che simboleggia il mondo; e l’imperatore viene rappresentato come Dio, con la malizia di inserire la sua figura dentro una grande aureola ellittica che rappresenta uno spazio sacro, perché la sua persona è diversa dai comuni mortali. Ciò gli era lecito, in quanto suo vicario terreno e sua incarnazione fra gli uomini: Costantino, il primo imperatore cristiano, portava il titolo di isapòstolos, ovvero uguale agli apostoli, e come loro si riteneva che fosse idealmente seduto con Cristo nel Cenacolo.

    L’aquila, questo rapace che già nell’antichità ellenica rappresentava Zeus e dunque il sommo potere divino perché spiegando le ali raggiunge vette inarrivabili per ogni altro volatile, non casualmente è chiamato da Dante l’uccel di Dio. Forse era un raffinato gioco di parole indirizzato agli eruditi del suo tempo, se il poeta aveva qualche minima nozione di lingua greca, poiché diòs in greco è il genitivo di Zeus e l’aquila era appunto il suo animale; ma per assonanza, rinviava al deus della lingua latina, generico in origine ma passato in epoca cristiana a definire l’unico Signore dell’universo, il Padre del dogma trinitario.

    Così facendo, l’Alighieri voleva esprimere un concetto fondamentale: a differenza delle altre possibili forme di governo – democratico, oligarchico, monarchico –, l’Impero possiede una dignità speciale perché di ordine metafisico. L’uomo del Medioevo è del resto violento, iracondo, a volte anche spietato; non rifugge da nessuno dei sette peccati capitali, ma ciò non gli impedisce di sentirsi profondamente credente: vede se stesso come parte integrante di un immenso sistema, un microcosmo nei singoli elementi del quale si riflettono l’intero universo, le galassie e i pianeti. Il Creatore è imperatore del cosmo; in quanto immagine e figurazione del dominio di Dio nella totalità di ciò che esiste, l’imperium ha sostanza sacra.

    A noi contemporanei può dunque sembrare che il Medioevo sia formato da una scansione di epoche ben diverse, divise da crisi profonde, a volte persino di portata catastrofica: il sacco di Roma, le invasioni barbariche, la lotta per le investiture, lo sviluppo dei Comuni, il sorgere degli stati nazionali. Gli uomini del passato, al contrario, avrebbero spiegato questa lunga carrellata storica in due parole: translatio imperii, ovvero il trasferimento della somma autorità. La quale, proprio come l’aquila del Paradiso dantesco, vola da un punto all’altro portando con sé il santo dominio

    che incarna.

    Così a metà Trecento, in una Roma priva del papa che risiedeva allora in Avignone, il tribuno Cola di Rienzo voleva fare dell’Urbe un libero comune, ma giudicava indispensabile riportare in vita le sue antiche radici imperiali:

    Molto usava Tito Livio, Seneca e Tulio e Valerio Massimo. Molto li delettava le magnificenzie de Iulio Cesari raccontare. Tutta dìe se speculava nelli intagli de marmo li quali iaccio intorno a Roma. Non era aitri che esso, che sapessi leiere li antiqui pataffii. Tutte scritture antiche vulgarizzava. Queste figure de marmo iustamente interpretava. Deh, como spesso diceva: «Dove soco questi buoni Romani? Dove ène loro summa iustizia? Pòterame trovare in tiempo che questi fussino!».

    (Assiduamente leggeva Tito Livio, Seneca, (Marco) Tullio (Cicerone) e Valerio Massimo. Amava tantissimo raccontare la grandezza dei Cesari. Per tutto il giorno contemplava i rilievi di marmo che giacciono nei campi intorno a Roma; non c’era nessun altro, a parte lui, che sapesse decifrare gli antichi epitaffi. Riusciva a tradurre nel volgare del suo tempo qualunque tipo di scrittura antica, e quelle immagini scolpite nel marmo interpretava correttamente. Spesso lo si udiva esclamare: «Dove sono quei buoni Romani? Dov’è la loro suprema giustizia? Avessi potuto vivere al loro tempo!»)³.

    Pochi decenni prima il re di Francia Filippo iv il Bello (1268-1314), che pure lottò strenuamente per l’autonomia del potere monarchico e per fare della Francia uno stato nazionale indipendente da qualunque altra autorità, sentiva anch’egli il bisogno di provare che la sua dinastia aveva radici imperiali: cercò di dimostrare con scarso successo che discendeva da Carlo Magno per parte di padre, ma si consolava in quanto, grazie alla madre del suo antenato Filippo i, scorreva nelle sue vene il sangue prestigioso degli imperatori bizantini.

    Tu non avresti alcun potere sopra di me, se non ti fosse dato dall’alto. Quando Gesù nei Vangeli (Gv, 19, 11) rivolge questa frase a Ponzio Pilato, naturalmente intende riferirsi al Padre che è nei Cieli, secondo il monoteismo giudaico; Pilato, uomo romano, aveva un concetto completamente diverso del divino, ma su questo punto era in grado di capire benissimo il Nazareno: il governatore romano dipendeva infatti da Tiberio, l’imperatore, il quale doveva la propria autorità al volere degli dei.

    L’Impero, in breve, ha sempre radici divine; ed è per questo, probabilmente, che lo si crede immortale.

    «Di mano in mano, e sì cangiando», questo carisma celeste migrò dunque nei secoli arrivando fino alla prima guerra mondiale, quando fu dissolto l’Impero austro-ungarico, o forse ben oltre, per chi vuole interpretare in tal senso l’aquila di mare testabianca (Haliaeetus leucocephalus), che dal 1782 è il simbolo degli Stati Uniti d’America.

    Senza avventurarci lungo rotte che ci condurrebbero troppo lontano dal tema del libro, certa che il lettore abbia compreso il senso di queste pagine introduttive, vorrei ora scendere in dettaglio per vedere a grandi linee com’era fatto quell’Impero del quale tutti gli altri, nei secoli a venire, vollero dirsi eredi ed emuli.

    Questa immensa entità politica, religiosa, etnica e culturale che scivolò tutt’altro che in modo indolore, ma comunque lentamente, e progressivamente, negli imperi del Medioevo.

    3 Anonimo Romano, Cronica, a cura di G. Porta, Milano 1981, xviii.

    L’officina del mondo

    Roma era vicina all’acqua e attraversata dal fiume, ma appariva immensa e terrestre, e le sue forme debordanti, che da tempo immemorabile le mura non riuscivano a circoscrivere, si espandevano nell’entroterra con una proiezione che poteva dare le vertigini.

    Roma è come la neve, disse il retore greco Elio Aristide nel ii secolo d.C., come la neve che tutto copre a vista d’occhio».

    Poco prima dell’anno 180 un affermato conferenziere di origini orientali, Publio Elio Aristide, arrivò a Roma dalla sua nativa provincia della Misia (odierna Turchia nordoccidentale) per visitare la capitale dell’Impero. Era un viaggio imprescindibile per qualunque uomo di successo, non importa di quale attività si occupasse: l’immensa megalopoli d’Occidente attraeva nobili, affaristi, artisti e intellettuali da ogni più remoto angolo della terra, abbagliandoli con le sue inusitate prospettive di fortuna, come attraeva del resto i disperati che si avventuravano tra i pericoli del viaggio sospinti dalla speranza di trovarvi un’opportunità.

    Chi non aveva mai visto Roma con i propri occhi, in fondo non era nessuno.

    Molte leggende si formarono per celebrare il carattere eccezionale della città, la grandezza del suo genius, il nume tutelare a essa preposto. Ne citeremo una per tutte, a titolo di esempio. In antico, lungo la via Tiburtina, esisteva una porta chiamata Porta Taurina poiché su ambo i lati della chiave di volta si vedevano scolpite due teste di toro; quella esterna, rivolta verso la campagna, era un lugubre teschio, mentre l’altra, prospiciente la città, raffigurava un animale vivo. Le due teste simboleggiavano i viandanti che giungevano nella Città Eterna: affamati e deperiti al loro entrare, rifocillati e vigorosi nel lasciarla. Era insomma un luogo di buone speranze, una riserva inesauribile di grandi occasioni capace di dare agli stranieri l’entusiastica impressione che nulla mai al mondo era esistito di così grandioso, né vi sarebbe stato in futuro.

    Il nostro Elio Aristide, come altri, dedicò alla città un discorso intitolato semplicemente A Roma (Eij" ÔRwvmhn), ma che i traduttori moderni saggiamente rendono come Elogio di Roma per il suo carattere fortemente encomiastico: «Non è facile decidere se sia più l’Urbe a superare le città a lei contemporanee, o il suo impero a superare tutti gli imperi del passato»⁵.

    Al tempo del suo massimo splendore, che si colloca durante il regno di Traiano e Adriano (fine i-inizi del ii secolo d.C.), Roma contava una popolazione di circa un milione di abitanti, ma forse la stima è approssimata per difetto: è stata infatti calcolata in base al circuito delle Mura Aureliane, esteso su ben 1350 ettari, oltre il quale però si estendevano vaste zone del suburbio densamente popolate.

    Ogni anno le distribuzioni gratuite erogavano al popolo circa 400.000 tonnellate di frumento, 22.500 tonnellate di olio, e vino per un ammontare che arriva a 1.800.000 ettolitri; del resto il Testaccio, detto monte dei cocci, si era formato con l’accumularsi delle anfore rotte presso lo sbarco delle merci. Cinque enormi complessi termali assicuravano ai romani l’igiene pubblica riversando in città ogni giorno circa 600.000 metri cubi d’acqua corrente, gran parte della quale riscaldata bruciando legname, con costi che ognuno può facilmente immaginare.

    Il denaro, a quell’epoca, non era un problema; da ogni parte del mondo conosciuto affluiva a Roma sotto forma di tributi una quantità impressionante di derrate costose: enormi quantità di grano dall’Italia meridionale, dalla Spagna e dalla Sardegna per tenere lontano dall’Urbe e dalla penisola italiana lo spettro della carestia; spezie, seta, perle e legni esotici dall’India, da Zanzibar o da Ceylon; oro, avorio e gemme dal continente africano; pellicce dalla Russia, grasso di balena e ambra grigia dai mercati del Baltico. E schiavi, naturalmente; milioni di braccia da lavoro, di ogni razza e di ogni cultura, manodopera a basso costo per mandare avanti la smisurata macchina politica, militare e amministrativa di cui Roma era il cuore pulsante.

    Ma la città dava anche tanto lavoro agli uomini liberi di ogni condizione, grazie ai suoi monumentali mercati all’aperto, come il celebre Foro Boario dove si teneva il commercio degli animali, o al coperto (ne resta ancor oggi visibile una parte nel centro, presso l’area archeologica dei Fori, cioè i Mercati di Traiano), o con la costruzione praticamente ininterrotta delle grandi opere pubbliche.

    I Fori, gli acquedotti, le vie consolari, i circhi, le basiliche dove si amministrava la giustizia, i monumentali complessi delle terme che assicuravano il controllo dell’igiene pubblica, le biblioteche, le sontuose residenze imperiali e gli innumerevoli templi sparsi nel tessuto urbano e oltre: questi mastodontici cantieri dovevano munire la capitale di servizi necessari alla collettività, e degni del nome di Roma; servivano a conferire prestigio a chi ne aveva ordinato l’esecuzione, ma avevano anche l’importantissimo compito di far circolare il denaro. Tantissimo denaro, che in tal modo si redistribuiva nelle varie fasce sociali allontanando la calamità del malcontento popolare, dei disordini e delle sommosse.

    Cicerone, per esempio, giudicava biasimevole un magistrato che avesse allestito giochi troppo costosi o che avesse fatto al popolo elargizioni smodate; quanto al denaro investito nelle opere di pubblica utilità, era invece un capitolo di spesa non criticabile. Celebre è la frase di Ottaviano Augusto, il quale si vantava di aver trovato una Roma di mattoni

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