Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Lucrezia
Lucrezia
Lucrezia
E-book323 pagine4 ore

Lucrezia

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Il male la segue, ma Lucrezia, abituata a combattere contro i propri fantasmi, troverà la forza di andare oltre ogni limite e sopravvivere.
di Rita Angelelli
La vita privata di Lucrezia Ferri, imprenditrice di successo, subisce un brusco scossone quando il marito, lo chef Giorgio Colli, la abbandona. Quando l’uomo, di cui ha nel frattempo scoperto il tradimento, le fa delle richieste esorbitanti per separasi da lei, Lucrezia si reca da Giacomo Giulioni, un avvocato di Ancona, per definire i passi da fare. Sofferente per la fine del suo grande amore, sopraffatta dalla rabbia e con il proposito di tenersi da quel momento in avanti alla larga dagli uomini, si ritrova, invece, a provare un’istintiva attrazione nei confronti del professionista.
Incuriosita dai miti e le leggende del Conero, che ha scoperto in un libro acquistato su una bancarella – in particolare dalla leggenda della Principessa della Grotta degli schiavi, nella quale si immedesima in un sogno – Lucrezia parte alla scoperta di quei luoghi, cacciandosi in mille guai provocati dalla sua impulsività. Ogni volta Lucrezia si rivolge a Giacomo perché la aiuti a sistemare le sue faccende, e presto si rende conto che l’uomo è a sua volta attratto da lei.
Non si accorge, però, di essere seguita da un individuo che porta avanti nei suoi confronti un progetto maligno e, nel momento in cui capisce di potersi abbandonare a un sentimento capace di ridarle la serenità, si ritrova a combattere contro un male al di là di qualsiasi immaginazione.
LinguaItaliano
Data di uscita12 dic 2019
ISBN9788833283906
Lucrezia

Leggi altro di Rita Angelelli

Correlato a Lucrezia

Ebook correlati

Thriller per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Lucrezia

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Lucrezia - Rita Angelelli

    mani.

    Parte prima:

    Ricordi

    Mezzi pubblici

    «Maledetti mezzi pubblici! Maledetti mezzi pubblici!»

    Era un periodo in cui se la prendeva per qualsiasi cosa le andasse storta, con ogni persona che non avesse le sue stesse idee. Quel giorno i destinatari delle sue ire erano le quattro ruote e i mezzi pubblici.

    In attesa alla fermata dell’autobus, Lucrezia si guardava attorno e passeggiava avanti e indietro, ripetendo a voce alta quella frase come se fosse un mantra, anche se non proprio meditativo e devoto, sperando che un autobus apparisse all’orizzonte.

    Il mezzo era in clamoroso ritardo. Non c’erano panchine sotto quell’ammasso di vetri e lamiera che chiamavano pensilina e il sole picchiava già forte. Lucrezia camminava, sudava, parlava da sola e attendeva. Più che parlare, la sua era una continua litania di parole volgari e imprecazioni. Doveva a qualsiasi costo arrivare in stazione e prendere un treno che la portasse ad Ancona. Aveva un appuntamento che non poteva disdire, a causa delle vicende che le erano capitate in quegli ultimi mesi.

    Di fronte a lei si stagliavano le colline lauretane e le distese di vigne di proprietà della Santa Casa. Il mare si scorgeva appena, l’orizzonte si confondeva con la nebbiolina calda e umida del mattino. Alle sue spalle c’era il paese in cui viveva e, sul colle, la Basilica di Loreto, che sovrastava tutto il resto. Nessuno in vista a cui potesse chiedere un passaggio.

    Chissà se la madonna sta ascoltando le mie litanie… pensò, imprecando di nuovo.

    Faceva un caldo pazzesco, opprimente, umido. La camicetta le si era incollata alla pelle, la gonna era troppo stretta e le scarpe scomode, con quei tacchi alti a cui non era abituata, ma continuava a passeggiare avanti e indietro.

    Il calore che veniva su dalla strada e dai campi era insopportabile, non si ricordava di aver mai patito una calura simile. Quello che più di ogni altra cosa la mandava in bestia era il vedersi costretta a usare i mezzi pubblici per fare poco più di trenta chilometri. Per di più lo studio dell’avvocato era nel bel mezzo del centro di Ancona.

    «Cretino… Cretina…» borbottò a mezza bocca.

    La segretaria dello studio legale – la cretina di cui sopra – che aveva una voce decisamente stridula, l’aveva avvisata solo il giorno prima che l’appuntamento era stato fissato per mezzogiorno. L’avvocato, vale a dire il cretino, le era stato consigliato dal suo commercialista di fiducia. Si era fidata, anche perché non conosceva altri legali e di conseguenza uno sconosciuto valeva l’altro.

    «L’avvocato può vederla solo alle dodici di domani mattina. Mi raccomando la puntualità…» le aveva comunicato la segretaria con quella sua voce sgradevole, rimarcando le ultime parole.

    Puntualità un cazzo! Imprecò tra sé Lucrezia guardando verso il punto da cui sarebbe dovuto spuntare l’autobus. Il deserto non sarebbe stato di certo peggio: il calore era molto simile e l’assenza di auto in circolazione la stessa. Avrebbe fatto l’autostop, se le fosse capitata l’occasione, ma riuscire a prendere il treno, in quel momento, sembrava un miraggio.

    Nei suoi pensieri fece capolino Giorgio, suo marito. Lo maledisse. Lui si era portato via la loro unica auto e Lucrezia si era trovata ad avere a disposizione solo il furgone della locanda. Quella mattina anche quello aveva deciso di abbandonarla.

    Non che avesse particolarmente bisogno di un’automobile per i suoi spostamenti giornalieri, visto che la distanza da casa sua alla locanda era solo di qualche centinaio di metri e che per andare nelle vigne utilizzava un vecchio motorino. Era il mezzo motorizzato che prediligeva, abbastanza veloce e comodo nelle calde giornate estive, non utilizzabile però per spostarsi sulle strade provinciali e statali, dato che mai nessuno si era occupato di stipulare un’assicurazione ed era senza targa. In più, lei odiava guidare qualsiasi mezzo a quattro ruote, e quando doveva fare acquisti per la locanda si faceva accompagnare dal garzone.

    Una vita, quella di Lucrezia, dedicata al lavoro e, negli ultimi tempi, molto solitaria.

    Quando non era impegnata con la locanda o con l’azienda vinicola, ed erano pochi i giorni in cui non lo era, si rifugiava nel suo casolare e non permetteva a nessuno di disturbarla. Spegneva cellulare e computer e si isolava, piangendosi addosso. Non si sopportava!

    Ora era su tutte le furie. Incazzata nera era l’espressione che usava sempre suo padre quando la vedeva scura in volto: Perché sei sempre così incazzata nera, piccola mia?

    L’aveva sempre chiamata piccola mia, anche se sapeva che non le piaceva, e continuava a chiamarla in quel modo ogni volta in cui si rivolgeva a lei, con quella sua aria da padre amorevole. La amava, senza ombra di dubbio, ed era l’unica persona della famiglia che le era rimasta.

    Prima di optare per i mezzi pubblici, quella mattina lo aveva chiamato al cellulare, senza ottenere alcuna risposta. Probabilmente era impegnato con la sua donna: la baby-zoccola per Lucrezia, la adorabile micetta per il padre.

    A Lucrezia veniva la nausea ogni volta che lo sentiva chiamarla in quel modo. Però lo amava sopra ogni cosa e, considerato quello che aveva già sopportato in passato, poteva tollerare anche quelle insulse smancerie. Tuttavia si sentiva messa alle strette ogni volta che le loro idee non combaciavano.

    Lucrezia aveva telefonato anche a qualche amico, ma a quanto pare quel giorno qualcuno doveva averle scagliato addosso una maledizione, perché nessuno le aveva risposto.

    Fatto sta che, non potendo distogliere nessuno dei suoi dipendenti dal lavoro alla locanda, ora era costretta ad attendere quel maledetto autobus – che avrebbe dovuto portarla alla stazione di Porto Recanati, prima tappa del suo viaggio verso Ancona – e che ancora non spuntava da dietro la collina.

    Mentre aspettava, chiamò lo studio legale e avvisò la segretaria che sarebbe arrivata in ritardo.

    «Avviserò l’avvocato Giulioni», rispose la donna, sempre con quel tono irritante, un misto tra una cornacchia e una zitella acida, «ma non sono certa che l’attenderà…» proseguì, inasprendo il tono di voce.

    Lucrezia sibilò un vaffanculo e chiuse la comunicazione senza salutare.

    «E se mi ha sentito… tanto meglio», borbottò.

    Marco

    Un’auto. Stava arrivando un’automobile.

    Forse è qualcuno che conosco, pensò Lucrezia, potrebbe darmi uno strappo in stazione…

    Il paese dove abitava era molto piccolo, si conoscevano quasi tutti. Lucrezia poi era un personaggio pubblico: proprietaria de La Buca di Zaira, taverna, ristorante con sala banchetti e hotel, e di una bella porzione di terreni confinanti con quelli della Santa Casa di Loreto. Terreni che la stessa Santa Casa, nella persona di un non meglio specificato consulente, aveva provato a portar via a suo padre.

    Maledetti anche loro, pensò Lucrezia, i preti e i frati sono così affamati di soldi e di ricchezze che mi fanno schifo.

    Alla donna apparivano avidi e, chissà per quale inspiegabile motivo, sembrava continuassero ad accumulare proprietà e ricchezza. Non sembravano contenti nemmeno delle continue donazioni dei fedeli, che gridavano al miracolo.

    No. Avevano bisogno di appropriarsi anche dei terreni, dei negozi, delle attività, che compravano sostenendo di farlo per aiutare le comunità e le aziende sull’orlo del tracollo finanziario. Nelle campagne, casolari e aziende agricole venivano ristrutturati come per magia. Anche quelle ristrutturazioni erano opera della Santa Casa di Loreto, e agli occhi di tutti apparivano come opere di misericordia a sostegno degli agricoltori in difficoltà. Sotto c’era ben altro e Lucrezia ne era al corrente. Anche a suo padre erano stati offerti dei soldi – ben pochi per la verità – per risanare la sua azienda agricola sull’orlo del fallimento, ma in cambio la Santa Casa di Loreto si sarebbe appropriata di tutti i terreni, relegandolo, in pratica, al ruolo di mezzadro. Suo padre aveva stretto i denti e si era rifiutato.

    Dopo la morte della nonna e poi della moglie, suo padre non aveva più voluto saperne dell’azienda di famiglia, né dei terreni, né della locanda. Non aveva intenzione di occuparsene più come un tempo. Diceva che, ora che aveva raggiunto una certa età, preferiva tornare a divertirsi. Gli bastava prendere un mensile come fosse un qualsiasi dipendente, e aveva il suo gruzzolo personale a cui attingere per le necessità più urgenti, così le aveva intestato anche la sua parte di proprietà, facendo di Lucrezia l’unica proprietaria.

    Aveva fiducia nella figlia anche se, quando era tempo di vendemmia o di raccolta delle olive, era sempre con lei, attento al lavoro dei dipendenti: Luca non aveva perso l’amore nei confronti dell’azienda, solo non se ne voleva più occupare a livello di conduzione e amministrativo.

    «Il Rosso Conero è una passione unica, è un colore che mi accende l’animo…» diceva l’uomo parlando dei loro vitigni. «Non potrei fare a meno del suo sapore, e sono le nostre vigne, il nostro cuore…» era quasi un proclama, recitato a voce alta.

    Lucrezia adorava sentirlo parlare dei loro vini e i dipendenti sembravano pendere dalle sue labbra. L’uomo faceva quello stesso discorso ogni anno, alla cena che dava inizio alla vendemmia, sotto l’ampio loggiato della locanda, e ogni volta veniva ascoltato in religioso silenzio.

    Lucrezia sceglieva il menù e preparava una cena che tutti avrebbero dovuto ricordare. Ogni anno diversa. E poi musica, ballo e divertimento. Era diventato un rituale, da seguire ogni anno per propiziare il buon andamento della campagna vinicola.

    Il giorno dopo tutti faticavano per ore, senza fiatare. Ogni tanto una battuta scherzosa di Luca li faceva ridere. Si respirava la naturalezza dei gesti sempre uguali e la familiarità e semplicità del lavoro di raccolta dell’uva. Quando era il momento di fare la pausa, l’uomo distribuiva i panini e ai lavoranti nuovi, soprattutto ai giovanotti, chiedeva: «Lo vuoi con il prosciutto o la mortadella?» Se rispondevano prosciutto lui si metteva a ridere e gli allungava il panino con la mortadella: erano tutti con la mortadella.

    A fine giornata si potevano ammirare i frutti del loro lavoro: trattori che trainavano rimorchi carichi di cassette colme di uva, che partivano, uno dopo l’altro, verso la cantina dove il raccolto sarebbe stato lavorato. Negli ultimi anni la cooperativa era rifiorita e nemmeno lì, fortunatamente, la Santa Casa era riuscita a mettere le mani. Alla cooperativa consegnavano gran parte del loro raccolto, perché venisse vinificato insieme a quello degli altri viticoltori della zona, quei pochi che, come loro, si erano rifiutati di vendere. La parte che invece lavoravano direttamente era il fiore all’occhiello della produzione. Il loro vino, quello più pregiato, quello che portava il nome Ferri stampato sulle etichette delle bottiglie, maturava nelle antiche botti di rovere che si trovavano nelle vecchie cantine dei nonni. Ne scaturiva un prodotto morbido, che esaltava tutti i profumi del frutto mediante la leggera nota di vaniglia trasmessa dal legno, e che assumeva una personalità del tutto particolare per i vini che continuavano a maturare nelle antiche botti.

    C’erano poi delle colline coltivate a olivi, distanti una quarantina di chilometri dalla zona lauretana. Lì Luca, qualche anno prima, aveva fatto costruire un casolare per sé e la sua micetta. In quel luogo si celebrava la fine delle due campagne annuali, le più importanti, che si susseguivano una dietro l’altra, e Luca ogni volta faceva il suo discorso. Alla fine di ottobre, quando i raccolti erano belli che sistemati, si divertivano ballando e cantando. Gli «anziani» giocavano a trucco¹ e ogni tanto volavano le imprecazioni e le bestemmie dei perdenti, coperte dalle risa canzonatorie di chi vinceva.

    L’unico difetto di Luca, secondo Lucrezia, era lei, l’adorabile micetta. Suo padre pendeva dalle labbra di quella zoccola bambina, che aveva ventisette anni meno di lui. Lucrezia non la sopportava e non sopportava vederlo sperperare i frutti delle sue fatiche con quella bagascia. E ingoiava rospi. E faticava. E sudava.

    «E cazzo!» sbottò, scacciando i pensieri. Sudava, anche in quel momento stava sudando, in quel caldo pazzesco e coi pensieri che non la aiutavano di certo a tenere bassa la temperatura corporea. Sembrava che tutto contribuisse a creare calore, nemmeno le imprecazioni la aiutavano a calmarsi un po’.

    «Fermati, Cristo Santo!» urlò.

    Alzò una mano facendo cenno di fermarsi all’auto che stava passando, il conducente rallentò un attimo, ma subito dopo accelerò e proseguì.

    «Vaffanculo!» urlò lei, alzando il dito medio.

    L’auto si fermò, evidentemente il conducente aveva visto il suo gesto. Dal finestrino spuntò un braccio che le fece segno di avvicinarsi.

    «Cazzo! Come mi metto nei guai io…» sussurrò Lucrezia.

    Raccolse tutto il suo coraggio e, a passo piuttosto veloce, si avvicinò all’auto ferma sul ciglio della strada. Appena fu di fianco alla vettura, si chinò per vedere chi fosse alla guida, curiosa di sapere cosa avesse da dirle. Di sicuro non le avrebbe fatto un complimento per il suo comportamento elegante...

    «Una gran signora, Lu… non avevo dubbi!» disse ridendo Marco. Poi serio: «Lucrezia, scusami, non ti avevo riconosciuta, avevo il sole negli occhi».

    Quasi tutti quelli che la conoscevano la chiamavano Lu, come se il suo intero nome, scelto da sua madre in onore di sua nonna, Donna Lucrezia, rispettabilissima primogenita di un proprietario terriero lauretano, fosse troppo pomposo per lei.

    «Marco! Marco… tu sei la mia salvezza… Portami in stazione, ti prego… ti prego… ti prego», supplicò lei.

    «Dai, salta su… scema…»

    Fece il giro dell’auto, quasi di corsa e salì.

    «Stai partendo per un viaggio? Non vedo bagagli…» chiese Marco.

    «Ma no! Devo andare ad Ancona, ho un appuntamento con l’avvocato…» spiegò, pentendosene subito dopo.

    Infatti Marco la guardò preoccupato da sopra gli occhiali da sole.

    «Giorgio?».

    Marco conosceva tutto di lei. Avevano la stessa età, erano andati a scuola assieme dall’asilo fino al liceo. Avevano avuto una storiella, una di quelle infatuazioni passeggere, l’ultimo anno di liceo, poi Lucrezia aveva rinunciato all’amore – e all’università – per aiutare suo padre, che a quel tempo si barcamenava per portare avanti l’azienda; lui invece si era iscritto a Economia e Commercio ad Ancona.

    All’epoca Luca non aveva ancora acquisito le proprietà dei nonni materni di Lucrezia, e le sue terre da sole fruttavano poco. Nonna Zaira, madre di Luca, mandava avanti la locanda, perché la madre della ragazza era malata e passava la maggior parte delle sue giornate in casa, a letto o in poltrona.

    Le avevano detto che sarebbe guarita, che il tumore al seno era stato preso in tempo, ma la chemioterapia la faceva diventare uno straccio. Nei pochi momenti liberi Lucrezia cercava di starle accanto, ma dividere il suo tempo tra lo studio – seguiva dei corsi serali di agraria – la casa e i terreni era una fatica disumana.

    Finalmente la madre di Lucrezia sembrò riprendersi; il cancro sembrava debellato. Purtroppo la vita riserva amare sorprese: erano passati solo pochi giorni da quando la nuora aveva ripreso a lavorare un po’ alla locanda quando Zaira si accasciò nella cucina, e tutti i tentativi di rianimarla furono inutili.

    Luca entrò in una delle sue prime fasi depressive. Amava molto sua madre, che lo aveva cresciuto da sola perché suo padre era morto durante la seconda guerra mondiale.

    L’uomo cominciò a bere e a frequentare puttane. Tornava a casa ubriaco e si addormentava senza parlare, né con la figlia né con la moglie. Fortunatamente non era violento, come tanti altri uomini di cui Lucrezia aveva sentito parlare in paese.

    Un giorno, rientrando a casa dalla locanda, stravolta di stanchezza perché aveva aiutato sua madre, Lucrezia lo vide seduto a cavalcioni su una sedia della cucina, le braccia penzoloni, la testa piegata da un lato, e quell’espressione ebete che aveva sempre quando era sbronzo. Lo guardò torva. Era da un po’ che si teneva tutto dentro e doveva in qualche modo dare sfogo a quel fuoco che le faceva bruciare le viscere. Doveva far tornare a ragionare suo padre, scrollandolo da quell’apatia che lo faceva sembrare un’idiota. Lucrezia prese a insultarlo. All’inizio le sembrò che neppure capisse quello che gli stava dicendo, invece, con sua sorpresa, Luca ebbe una reazione. Sollevò a fatica la testa, guardò Lucrezia e si mise a piangere. Erano le prime lacrime che la ragazza vedeva scendere sul viso di suo padre.

    Singhiozzando, la voce scossa da un insolito tremito, la supplicò di perdonarlo, l’abbracciò e, continuando a piangere, le disse: «Io voglio molto bene a tua madre, piccola mia… ma… ma non la amo più. Non vedo più in lei una donna… la mia donna. Per questo vado a puttane. So che è sbagliato, so che non se l’è cercato, il cancro… e il male che si porta addosso fa più male a lei che a me. Ma non ce la faccio, piccola mia… E la nonna… Mi manca tua nonna, mia madre. Mi manca il suo sorriso, mi manca il suo modo burbero di trattare tutti… mi faceva ridere. Lo sai, vero? E poi c’è tuo nonno… Sa che abbiamo difficoltà economiche, ma non ci vuole aiutare. Basterebbe che cedesse a tua madre una parte dei suoi terreni… in fondo è la sua unica figlia e lui ha ottant’anni… mica vivrà per sempre! Vecchio egoista!»

    A questo punto l’uomo tacque e guardò la figlia con una sorta di timidezza, poi abbozzò un sorriso asciugandosi le lacrime. Le suscitò una tale tenerezza che quasi si pentì di avergli urlato contro.

    Gli disse solo: «Papà, ci sono io. Io ti aiuterò».

    Da quel giorno Luca abbandonò la bottiglia, anche se ogni tanto andava in crisi e spariva per ore. Quando tornava era sobrio: forse andava a risollevarsi lo spirito da una delle sue puttanelle. Lucrezia non ne ebbe mai conferma e non glie lo avrebbe mai chiesto.

    Col tempo tornò a lavorare nei vigneti; la sera non usciva più e cercava di aiutare la moglie in locanda, servendo ai tavoli e occupandosi della cantina. I rapporti tra i coniugi non tornarono più come prima del cancro, ma la vita in generale si rimise su binari più tranquilli.

    «Lu… ci sei?»

    «Sì, sì. Scusami, stavo pensando alla locanda», rispose lei, inventandosi una scusa. Non voleva che lui capisse che era preda di ricordi che la rendevano debole e insicura.

    «Giorgio?» ripeté Marco.

    «Giorgio è un cretino! Chiederò il divorzio…»

    «Te l’avevo detto io… ma tu no... Tu hai pensato bene di tenere le gambine chiuse, belle strette, quando stavi con me… e darla via al primo idiota che ti ha imbambolato con parole d’amore», infierì sarcastico, allungando una mano per darle una pacca amichevole su una coscia, ma fingendo di volere salire più su. In realtà non l’avrebbe mai fatto. La loro storiella giovanile si era trasformata in una solida amicizia, priva di sottintesi e angoli oscuri.

    «Non fare il cretino pure tu…» replicò, dandogli una manata, « ti conosco bene, caro gallo del mio pollaio.»

    L’ironia era la caratteristica saliente di Lucrezia, quella che per Marco la rendeva più preziosa come amica che come possibile preda. E infatti, nonostante il suo cattivo umore, le sue ire e l’atteggiamento da dura, Lucrezia si fece una sana risata.

    Oltre a essere l’amico di una vita, Marco era un gran puttaniere. Era assiduo della locanda, più delle camere che del ristorante, che però lasciava sempre prima che facesse notte, quando tornava dalla moglie. Lucrezia conosceva i suoi intrallazzi, sapeva tutto di lui, come lui sapeva tutto di lei. Si fidavano l’una dell’altro, senza contare che Lucrezia si godeva i suoi tradimenti. Quell’oca giuliva della moglie non meritava di meglio.

    Quando Marco l’aveva messa incinta e, sotto la minaccia del fucile del padre, sposata, Gilda era una contadinotta che badava alle oche e pascolava le pecore, poi però il marito aveva avuto successo con la sua impresa e lei era passata dall’essere una nullità a essere la moglie dell’industriale. Il re delle scaffalature industriali, come lo chiamavano scherzosamente gli amici in paese.

    Lucrezia era felice per Marco, ma Gilda si pavoneggiava un po’ troppo per i suoi gusti. Peccato non poterle dire la verità. Sarebbe sbiancata e poi arrossita fino alla radice dei capelli


    1 È un popolare gioco di carte. Si gioca con un mazzo spagnolo o mazzi a semi Italiani (Spade, Coppe, Denari, Bastoni), in due, quattro, sei o otto giocatori. Quando si gioca in quattro, sei o otto giocatori, ci si divide in due squadre. Nei luoghi italiani dove è diffuso, è stato importato da naviganti o emigranti di ritorno dal Sud America nei secoli scorsi; si può presentare quindi in Italia con differenti varianti regionali. (Fonte Wikipedia)

    Rabbia

    Dopo una decina di minuti di curve e controcurve arrivarono in stazione. In fretta Lucrezia salutò Marco e si diresse di corsa verso la biglietteria.

    Fila. C’era la fila.

    Si guardò attorno cercando la macchinetta automatica per fare i biglietti. Per fortuna era libera e funzionante. Pochi minuti dopo era al binario, ad attendere il treno che l’avrebbe portata ad Ancona. Il treno che l’avrebbe fatta arrivare in tempo all’appuntamento le era sfuggito quasi sotto il naso, ma il successivo non avrebbe tardato molto.

    Aspettando fremeva. Più per la rabbia che le provocava l’idea di essere in ritardo a un appuntamento che per il motivo per cui aveva fissato l’appuntamento stesso. Le piaceva essere puntuale, considerava maleducato chi arrivava in ritardo e soprattutto chi non si scusava quando lo era. Sperava nella comprensione dell’avvocato.

    Accese una sigaretta, aspirò una boccata di fumo e pensò a quello che le diceva sempre Giorgio: tu non ti vuoi bene! E ancora una volta si chiese come mai qualsiasi cosa facesse le ricordasse lui. Perché?

    In quegli ultimi tre mesi si era trovata spesso a pronunciare quel perché, che usciva dalle sue labbra con la forza di un esorcismo e con una voce stramba. Sembrava venire dal nulla e per questo aveva un suono raccapricciante. La scuoteva nel bel mezzo di un tranquillo momento di relax – ne aveva ben pochi – e poi rotolava nella sua testa per giorni; in più, sempre più di frequente, parlava a voce alta. Si chiedeva con chi stesse parlando, visto che con lei non

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1