Il tempo non esiste: L'uomo nell'eterno presente
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Anteprima del libro
Il tempo non esiste - Rossano Baronciani
Indice dei contenuti
Cover
Collana
Colophon
Frontespizio
Libro primo. Il tempo non esiste
Ricordare
Di corsa
La luce in alto, la polvere sospesa
Il corpo nel bagagliaio
Il bambino e la televisione
Dimenticare
Nostalgia del futuro
Dentro un eterno presente
Toccare l’ombra
A Tiziana, con amore
Una necessaria utopia
Ritorno ad Auschwitz-Birkenau
Libro secondo. La società pornografica
Sguardo
Nei sogni a occhi aperti
Nella terra di nessuno
Illusione
Le immagini non sono mai ingenue
Specchio specchio
Ti vedo, ovvero dell’amore
Pornografia
Black mirrors
Il punto di vista di Dio
Pornografie
Promesse di felicità
Ombre e luce
Nutrire l’osceno
Bibliografia
Il tempo non esiste
isbn
978 88 988 37 953
Prima edizione: giugno 2020
© effequ 2020
Sede legale: piazza Savonarola 11
Sede operativa: viuzzo dei Bruni 34
www.effequ.it
Facebook: effequ | Twitter: @effequ | Instagram: effequ_ed
A questo libro hanno lavorato:
Coordinamento, direzione, editing, grafica interni, comunicazione
Francesco Quatraro, Silvia Costantino
Artwork di copertina
Simone Ferrini
Aiuto comunicazione
Margherita Dugini
Promozione
NW consulenza e marketing editoriale
La riproduzione di parti di questo testo con qualsiasi mezzo e in qualsiasi forma senza l’autorizzazione scritta dell’editore è vietata, fatta eccezione per brevi citazioni in articoli o saggi.
Rossano Baronciani
Il tempo
non esiste
L’uomo nell’eterno presente
Libro primo
Il tempo non esiste
Ricordare
Quando Baal-shem doveva assolvere un qualche compito difficile, qualcosa di segreto per il bene delle creature, andava allora in un posto nei boschi, accendeva un fuoco, e diceva preghiere, assorto nella meditazione: e tutto si realizzava secondo il suo proposito.
Quando, una generazione dopo, il Magghid di Meseritz, si ritrovava di fronte allo stesso compito, riandava in quel posto nel bosco e diceva: «Non possiamo più fare il fuoco, ma possiamo dire le preghiere» e tutto andava secondo il suo desiderio.
Ancora una generazione dopo, rabbi Moshè Leib di Sassow doveva assolvere lo stesso compito. Anch’egli andava nel bosco e diceva: «Non possiamo più accendere il fuoco, e non conosciamo più le segrete meditazioni che vivificano la preghiera; ma conosciamo il posto nel bosco dove tutto ciò accadeva, e questo deve bastare».
E infatti ciò era sufficiente.
Ma quando di nuovo, un’altra generazione dopo, rabbi Yisrael di Rischin doveva anch’egli affrontare lo stesso compito, se stava seduto in una sedia d’oro, nel suo castello, e diceva: «Non possiamo fare il fuoco, non possiamo dire le preghiere, e non conosciamo più il luogo nel bosco: ma di tutto questo possiamo raccontare la storia».
E – così prosegue il narratore – il suo racconto da solo aveva la stessa efficacia delle azioni degli altri tre.
Gerson Scholem
Di corsa
Mio padre è un artista; per tutta la vita ha lavorato come elettrauto nell’azienda dei trasporti della mia città, ma lo ha fatto per vivere e per farci vivere. In realtà è stato sempre un artista e ha insegnato a me e a mio fratello che l’arte è un punto di vista privilegiato per vedere e per capire il mondo. La sua espressione artistica si è realizzata principalmente con la tromba, lo strumento per cui ha nutrito una passione incondizionata, forse solo leggermente al di sotto dell’amore per mia madre; per questo le sue giornate, dopo aver svolto l’orario lavorativo, le consumava a casa suonando la tromba nella stanza accanto alla camera dove mia madre lavorava a maglia.
Mio padre si esercitava tutti i giorni ed era evidente quanto si stesse divertendo con quello strumento, anche se sono sicuro che gran parte di quella musica fosse in realtà un concerto esclusivo destinato a mia madre, intenta a lavorare e a controllare mio fratello piccolo che giocava rumorosamente. Nella terza camera c’ero io che cercavo in qualche modo la concentrazione per studiare in mezzo a tutto quel frastuono, ma questa è un’altra storia.
La musica prima e le arti figurative poi erano la sua cartina di tornasole, per cui con spirito indomito e impavido mio padre si diplomò in tromba al Conservatorio di Musica Gioacchino Rossini di Pesaro. Da quel momento la vita della famiglia fu scandita dalla sua partecipazione alle attività delle bande musicali del territorio in occasione di messe, processioni, matrimoni e funerali, verso i quali s’era perfezionato nell’esecuzione del Silenzio fuori ordinanza.
Tutta questa preziosa eredità paterna la ricevette in dote mio fratello che attualmente vive d’arte e suona la chitarra in alcuni gruppi rock o giù di lì; a me invece è toccato solamente l’amore per quel mondo che, come spesso accade con le passioni, si consuma inutilmente nel tentativo di capire l’oggetto del proprio desiderio. Insieme alla musica e al dipingere, mio padre provò anche una forte infatuazione per la fotografia; possedeva una macchina fotografica bellissima, tutta meccanica, che era pronta per scattare una foto solamente dopo operazioni lunghe e complesse relative ai tempi di esposizione, diaframma, apertura e chiusura dell’obiettivo, messa a fuoco e altro che non ricordo. Diciamo che tra la scelta dell’inquadratura e lo scatto finale poteva passare anche un quarto d’ora, e io lo sapevo bene perché facevo invariabilmente parte dei suoi progetti artistici. Mia madre aveva meno resistenza, si stancava presto di fronte alla cura con cui erano preparate le fotografie; io, che possedevo invece meno potere contrattuale, venivo utilizzato senza parsimonia come modello per i suoi scatti fotografici. In particolare un progetto artistico affascinava tantissimo mio padre, un esperimento che consisteva nel farmi delle foto mentre stavo correndo. La metodologia era abbastanza semplice: io mi collocavo in cima al sentiero che dalla casa dei miei nonni conduceva verso la casa vecchia, al suo via dovevo correre verso di lui che stava in fondo alla strada, pronto con la macchina fotografica. Lungo tutto il percorso mi scattava tutta una serie di foto, ma non essendo sicuro della realizzazione finale, visto che al tempo bisognava aspettare che le fotografie venissero stampate o perlomeno che fossero pronti i negativi, mio padre faceva numerosissimi scatti in maniera direttamente proporzionale alle corse che naturalmente avrei dovuto sudare io. Nella corsa dovevo anche sorridere, perché diceva che così la posa veniva più fotogenica, ma vi assicuro che c’era poco da ridere. Così accanto alle pose tradizionali che mi vedevano in mezzo al campo di grano, sotto un albero, vicino al cane, davanti al filare della vite oppure alle foto a tema, come ad esempio quelle in costume di carnevale che seguivano negli anni il preciso algoritmo zorro/cowboy/indiano/pirata/zorro
, c’erano quelle che potrei chiamare Di corsa. Tutte quelle foto erano legate da un amore per l’immagine che trasudava genuinamente da ogni scatto, appariva una fiducia incondizionata per la magia che la fotografia portava con sé, ovvero l’idea che fosse davvero possibile fermare l’attimo, congelare un pensiero o un sentimento in uno scatto fotografico per poi ritrovarlo e riprovarlo ancora tutte le volte che si fosse guardata quella determinata immagine. Per questa ragione sulle fotografie non si badava a spese e, anche se al tempo costava tantissimo svilupparle, a casa dei miei genitori gli album fotografici si collezionavano senza risparmio. Fotografare era qualcosa che andava al di là di un semplice hobby o passatempo: quelle immagini rappresentavano la cristallizzazione del tempo e del sentimento, erano prova e garanzia che la felicità esisteva e che si manifestava prima di ogni altra cosa nella famiglia.
Le foto scattate alla mia corsa, più tardi anche a quella di mio fratello, cercavano di cogliere proprio quell’attimo in cui il corpo non toccava terra, mostrando la contraddizione tra il movimento dinamico del correre e la rappresentazione statica dell’immagine. Quella sospensione dal suolo cancellava la mortificazione che la fotografia porta sempre con sé, perché racconta sempre qualcosa che non esiste più e descrive una porzione di tempo che non potrà più ripetersi. Quegli scatti con il corpo sospeso, in pose buffe se non addirittura ridicole, sembravano alludere piuttosto a una leggerezza che solo l’immagine fotografica poteva realizzare, perché proprio in quella capacità di togliere peso e sostanza al corpo, in quella sospensione di spazio e tempo, la fotografia dimostrava di essere l’unico medium capace di descrivere, piuttosto che rappresentare, il ricordo. E lo faceva non tanto perché del ricordare le fotografie fornivano il supporto e il contenuto, ma proprio perché affermavano l’illusorietà della memoria; quell’attimo congelato di un ragazzino sospeso in volo era l’unico documento di una sequenza di momenti di cui non si poteva più avere ricordo, come a dire che ricordiamo solo quello che fermiamo nella memoria, come una singola immagine, dimenticandoci però di tutto il resto, del prima e del dopo, lasciando in oblio tutto ciò che sta intorno all’immagine fotografica. Il ricordo è un fotogramma in una sequenza che montiamo e smontiamo a nostro piacere, nell’illusione di poter trattenere ogni dettaglio quando, in realtà, congeliamo una singola inquadratura da cui far ripartire una catena di ricordi nella quale ogni volta perdiamo qualcosa. Ricordare è un movimento a sottrarre e a ricomporre. Non a caso anche nei singoli fotogrammi delle vecchie pellicole cinematografiche è possibile constatare come quella singola immagine sia in grado di attrarre su di sé non solo il ricordo della storia raccontata nel film, ma anche tutto quello che il ricordo della visione porta con sé: la sala cinematografica, la stagione vissuta, la persona con cui si condivise quel lungometraggio, quel particolare periodo della nostra vita o quelle mani segrete che cercavano le tue nel buio di un cinema.
Nell’illusione di cristallizzare il ricordo, le fotografie di mio padre che tentavano di cogliere la sospensione da terra finirono col descrivere l’azione della memoria anziché farsene icona. La memoria assomiglia più a un vortice che ruota intorno a un punto fisso, un movimento circolare che ha il centro in quelle immagini fotografiche che non possono più restituire gli stessi ricordi proprio perché, esattamente come un vortice, quel che muovono intorno a loro cambia continuamente. Quel che è stato muta e si crea costantemente, perché noi stessi cambiamo ogni volta, e le fotografie finiscono col diventare un tratto di matita in un foglio bianco che ogni volta ricominciamo a disegnare, ogni volta in modo diverso.
La luce in alto, la polvere sospesa
Ho cominciato ad andare al cinema molto presto, avevo circa tre anni, mi ci portava mio padre a cui è sempre piaciuto vedere film. Andavamo al primo spettacolo della sera, durante un giorno feriale, probabilmente di mercoledì o giovedì, non ricordo bene, dovrei chiederglielo. Il cinema era di proprietà della parrocchia, era più elegante rispetto alle sale degli oratori e i film di solito erano di animazione, o spaghetti western o ancora quelli con Bud Spencer e Terence Hill – più avanti negli anni ci rimasi molto male quando scoprii che dietro a quei due nomi esotici si celavano in realtà due italiani diventati attori quasi per sbaglio. A dire il vero non ho ricordi precisi di quei film, ma ricordo benissimo, come fosse ieri, il rito dell’andare al cinema di sera. Ricordo il mettersi il cappotto, il tragitto in automobile con la Fiat 126 verde di mio padre, il parcheggiare sempre nella stessa via e poi la sala: immensa, o così a me sembrava, con un odore unico di aria ferma ma allo stesso tempo calda e accogliente. Era il profumo dell’attesa, della vigilia del piacere ed era come se si fossero mescolati tutti insieme i profumi e i pensieri della gente, le risate e le lacrime. Ricordo soprattutto l’attimo in cui si spegnavano le luci e una luce azzurrognola in alto illuminava la polvere sospesa, disegnando forme sinuose simili a nuvole imprigionate dentro una sala. Quell’odore di gioia e di pianti silenziosi si poteva respirare solamente lì, al cinema. Probabilmente il tempo m’inganna, forse era solo aria consumata che si mescolava rapidamente al cappotto e ai vestiti, eppure quell’atmosfera sarebbe diventata presto famigliare come il profumo di una persona cara, l’odore di casa.
Un’altra cosa che ricordo perfettamente erano le locandine con il film che avrebbero proiettato la settimana successiva. Erano affisse su una bacheca che campeggiava dall’altra parte della strada rispetto al cinema. Era una bacheca di metallo che divenne per me una vera e propria edicola votiva (e non a caso era collocata davanti alla chiesa); per arrivare al cinema dovevamo immancabilmente passarci davanti, così che la prima sosta la facevamo per sapere quale film ci sarebbe stato ‘prossimamente’: se poi era un film della Disney allora l’attesa diventava qualcosa da gustarsi giorno per giorno. In verità da piccoli si è impazienti, solo con gli anni si comprende che l’attesa non ha a che fare solamente col tempo, assomiglia più a un luogo, a uno spazio intimo ed esclusivo, in cui costruiamo tutte le possibilità e le varianti di quello che potrebbe accadere: l’attesa è una camera segreta in cui siamo anche chi non saremo mai, il luogo in cui si incontrano e si negoziano tutte le nostre identità. Il cinema non è una semplice narrazione per immagini, è anche uno spazio fisico che condividi con altre persone e che determina e influenza lo sguardo; il buio senza preavviso, la luce del proiettore sulle teste, il cappotto piegato sulle ginocchia, i respiri della gente che dopo qualche minuto si sincronizzavano e, strano a dirsi per un bambino seduto accanto al padre, la sensazione che ogni volta fosse l’inizio di una grande avventura.
La seconda sala cinematografica di una certa importanza per la mia vita fu la sala del cinema dell’oratorio. Il prete l’aveva sistemata nella soffitta della casa parrocchiale, le proiezioni erano domenicali, così potevo andarci da solo. Mia madre mi dava i soldi necessari per il biglietto e per un gelato, se compravo il ghiacciolo potevo tenermi il resto. Il proiettore era sempre fuori sincrono con le immagini, per cui se un cowboy sparava un colpo di pistola e l’indiano cadeva subito morto, il BANG arrivava diversi secondi dopo. I samurai affettavano gambe e braccia ai loro nemici, ma il suono delle lame non corrispondeva quasi mai con la macelleria delle carni e i dialoghi a volte erano un po’ surreali. Capitava spesso che una donna indifesa parlasse con la voce di un rude mandriano o che Godzilla urlasse come una liceale. Durante quei film la confusione in sala era decisamente superiore alla colonna sonora e spesso si iniziava a vedere il lungometraggio diverso tempo dopo l’inizio per poi rimandare e completare la visione alla proiezione successiva; in questo modo si potevano vedere due storie tratte dallo stesso film, perché i personaggi, presi in parti diverse del film, assumevano comportamenti differenti, a volte non del tutto coerenti con la trama e il racconto. Il parroco aveva un’idea molto personale di orario d’inizio che seguiva piuttosto il suo pranzo domenicale con seguente pennichella, inoltre sui titoli di coda poteva essere anche più cattivo perché di solito venivano troncati in modalità coitus interruptus, impedendoci di fatto qualsiasi forma di catarsi finale. Infatti appena la musica finale iniziava il suo crescendo e il protagonista, accanto alla sua bella a cui aveva salvato la vita, guardava in un punto non meglio precisato dell’orizzonte, in quel preciso momento il prete interrompeva la proiezione, premendo senza pietà il pulsante stop. Del resto il vero film, quello più seguito e divertente, era quello che scaturiva dai commenti in sala. Alcuni ragazzi si erano specializzati proprio nelle chiose e nei commenti con cui sottolineare le principali scene dei film, raggiungendo vertici sublimi di comicità e nonsense, per cui la mancanza di sincrono tra suono e immagine, l’enorme frastuono fatto di chiacchiere e scherzi, uniti alle battute dei soliti allegroni contribuivano a costruire un altro film che era sempre quello ma sempre diverso. Per questa ragione pochi minuti dopo l’inizio delle proiezioni l’attenzione cominciava a spostarsi sui dettagli delle scene piuttosto che sulla storia, mentre i personaggi sembravano alla disperata ricerca di attrarre l’attenzione su di sé. Mostri come King Ghidorah non erano più al centro dell’inquadratura perché invariabilmente si cominciava a ridere per le città giapponesi che assomigliavano maledettamente alle costruzioni della Lego, mentre a John Wayne rubava la scena perfino la faccia davvero poco indiana di un sedicente capo Sioux, probabilmente pescato al confine tra Los Angeles e il Messico. Ma in tutto quel marasma l’effetto più esilarante era senza dubbio il fuori sincrono. Non ho mai capito perché il prete non avesse mai voluto provvedere a quell’evidente difetto, probabilmente comprare un altro proiettore non era alla portata delle casse della parrocchia, oppure più semplicemente non gliene importava più di tanto. Fatto sta che dopo qualche metro di bobina l’audio cominciava a procedere in maniera autonoma rispetto alle immagini; col tempo ho più volte pensato che se Ejzenštejn e Buñuel fossero capitati lì per caso avrebbero sintetizzato immediatamente le loro teorie sul sonoro o sulla stravaganza nell’immaginare scene e dialoghi dei loro film. Così mi fu persino facile capire poi, da grande, cosa intendesse Pier Paolo Pasolini sostenendo che "l’unità minima della lingua cinematografica sono i vari oggetti reali che compongono una inquadratura¹", perché se passi attraverso il cinema dell’oratorio è facile comprendere che un film non è solo quello che vedi durante la narrazione, ma sono soprattutto i dettagli che concorrono a costruire la stessa immagine. Ed è vero quindi che, se tutto è dentro l’inquadratura, allora è possibile pensare quel quadrato luminoso come una tela su cui disegnare, dipingere, colorare. Se pensiamo a film come 8 e ½ (1963) o Giulietta degli spiriti (1965) di Fellini, a come gli elementi onirici siano sapientemente mescolati, rendendo realtà e sogno come due piani simmetrici e speculari, allora potremmo davvero renderci conto di quanto il cinema riesca perfettamente nella magia di raccontare anche ciò che è difficile descrivere, riuscendo nel miracolo di rendere visibile l’invisibile. Non a caso Luchino Visconti, che era solito allestire la scena con i mobili, le suppellettili e i costumi del tempo con un’attenzione scrupolosa e maniacale, giungeva perfino a riempire il contenuto degli stessi armadi o l’interno dei cassetti con i vestiti e gli accessori del tempo storico di riferimento; costumi magari appesi o piegati in un comò, difficilmente distinguibili da semplici stoffe colorate; eppure Visconti esigeva che fossero gli originali o perlomeno realizzati in perfetta copia. La scena del ballo ne Il Gattopardo (1963), girata alla luce di migliaia di candele che dovevano essere spente e riaccese a ogni pausa, mentre il caldo siciliano lentamente le squagliava, avrebbe potuto essere realizzata con luci elettriche assai più economiche e candele finte; ma così non fu proprio ed è innegabile considerare ora quanto quelle immagini riuscirono a restituire perfettamente la metafora del disfacimento della nobiltà meridionale, vinta dall’avvento della nuova borghesia e degli invasori stranieri, i Savoia. Il senso dell’immagine, ancor prima dell’immaginario, si fonda sull’analisi dei dettagli di ogni singola inquadratura e di come essi mutano e ritornano nel tempo; del resto cos’è il cinema se non un motore dello sguardo e del pensiero, una sorta di trauma attivo che opera nella nostra immaginazione? Non si può immaginare e quindi desiderare qualcosa che non si è visto almeno una volta attraverso i nostri occhi.
Gli occhi sono da sempre lo strumento umano che genera l’amore e il desiderio, come teorizzò Iacopo da Lentini alla corte di Federico II a Palermo nel 1240, quando scrisse: "Amore è uno desi[o] che ven da’ core/ per abondanza di gran piacimento;/ e li occhi in prima genera[n] l’amore/ e lo core li dà nutricamento²". Gli occhi generano l’amore che viene poi successivamente nutrito dal cuore³, pertanto l’innamoramento è un atto creato dalla possibilità dello sguardo, perché il desiderio deve poter vedere, mentre il regista è colui che muove gli occhi dello spettatore. Il cinema produce una sottile illusione, ci lascia pensare che stiamo guardando mentre in realtà restituisce il punto di osservazione di chi ha visto prima di noi, di chi ha montato le immagini affinché venisse riproposto il medesimo sguardo del regista. Non a caso esistono due categorie di registi: chi fa in modo che gli occhi possano vagare liberamente dentro l’inquadratura e chi invece te lo impedisce, costringendo il punto di vista rispetto alla focalizzazione del regista. Walt Disney appartiene alla prima categoria, Stanley Kubrick decisamente alla seconda. Pensiamo ad esempio a quanti animali ci sono nei film di Disney, solamente nel primo lungometraggio Biancaneve e i sette nani (David Hand, 1937) non si riescono nemmeno a contare: colombe, scoiattoli, uccelli, procioni, daini, gufi, topolini. Una moltitudine indeterminata che svolge in realtà una sola funzione, ben precisa, visto che si muovono tutti all’unisono con una modalità sincronica. Tutti aiutano Biancaneve, la consolano, la aiutano nelle faccende domestiche fino a collaborare attivamente, nella parte finale, alla caccia e all’eliminazione della strega cattiva. Solitamente nelle fiabe compare sempre un solo animale fortemente legato a una dimensione simbolica, a una sfera magica: ci possono essere cavalli (la velocità, la rapidità dell’azione), l’aquila (il volo come passaggio verso altri luoghi e dimensioni della realtà), l’orso (la paura, l’incognita d’orrore), il drago (la prova terribile e mostruosa, apparentemente insuperabile), il cane (il compagno fedele, l’aiutante). Invece Disney non cerca la dimensione simbolica, ma crea una moltitudine di animali che si muovono sempre contemporaneamente impedendo allo spettatore di cogliere i dettagli dell’azione: così gli animali del bosco in Biancaneve e i sette nani (1937) e ne La bella addormentata nel bosco (1959), o i topolini e gli uccellini in Cenerentola (1950) si muovono creando una disseminazione dello sguardo ed è singolare come la parola chiave che lega le tre vicende sia proprio dream, il sogno. Infatti le tre protagoniste vivono un periodo di latenza (Biancaneve e Aurora nella morte apparente causata dal sortilegio stregato, Cenerentola nel passaggio da serva a principessa⁴), sottolineato anche dai tre motivi musicali prevalenti (Some day my prince will come per Biancaneve che si conclude in Some day when my dreams come true
, oppure A dream is a wish your heart makes per Cenerentola e Once upon a dream ne La