La guerra dei meme: Fenomenologia di uno scherzo infinito
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Anteprima del libro
La guerra dei meme - Alessandro Lolli
Indice
Saggi pop
La guerra dei meme (nuova edizione)
Nota editoriale
Prefazione alla seconda edizione
Prefazione alla prima edizione
1 Il meme egoista
Natura, storia e miti: il meme superfluo
Musica e lettura culturale: verso il meme del presente
2 Il meme online
Meme e contenuto virale
Cornici per battute
I meme muti
I meme verbali: tra copypasta e shitposting
I meme come forma d’arte
3 I memers
Autistici e normali
Estensione e limiti della normificazione
4 Il meme politico
Ideologia nerd
Il meme è di destra?
Nota alla seconda edizione
La cancel culture e il castello dei vampiri
L’Italia e il Kekistan
L’esperienza del ‘Sinistralibro’ italiano
Bibliografia
La guerra dei meme (nuova edizione)
isbn 9791280263094
Prima edizione digitale: novembre 2020
© 2020 effequ Sas
piazza Savonarola 11, Firenze
www.effequ.it
Facebook: effequ | Twitter: @effequ | Instagram: @effequ_ed
A questo libro hanno lavorato:
Coordinamento, direzione, editing, grafiche interni, comunicazione
Francesco Quatraro, Silvia Costantino
Artwork di copertina
Simone Ferrini
Attenzione: la riproduzione di parti di questo testo con qualsiasi mezzo e in qualsiasi forma senza l’autorizzazione scritta dell’editore è vietata, fatta eccezione per brevi citazioni in articoli o saggi.
Questo è un libro indipendente, perché sgomita tra i colossi e prova a dire che c’è.
Vogliategli bene.
Alessandro Lolli
La guerra
dei meme
Fenomenologia di uno scherzo infinito
Nota editoriale
In questo testo troverete lo schwa, o ‘scevà’, suono vocalico neutro trascritto col simbolo dell’alfabeto fonetico internazionale / ə /.
La nostra casa editrice ha già trattato del simbolo e del suo uso nel titolo Femminili singolari di Vera Gheno, e se ne è servita in alcuni tratti del saggio Il contrario della solitudine, in particolare nei passaggi in cui la traduzione di un termine non binario ci poneva di fronte a una scelta non risolvibile adottando le nostre consuete convenzioni linguistiche. Nel dibattito contemporaneo all’uscita di questo libro che vi accingete a leggere, o che avete già letto saltando la nota, si è vista sottolineata con rinnovata frequenza l’insufficienza del nostro italiano per affrontare forme plurali che coinvolgono più generi o per riferirsi al genere non binario. Come è noto, l’italiano per convenzione utilizza, in entrambi i casi descritti, il maschile sovraesteso. A prescindere dalle opinioni in merito, e dalla consueta polarizzazione del dibattito sull’opportunità o meno dell’avvalersi di simboli alternativi al maschile sovraesteso, troviamo importante porre l’accento sulla possibilità di utilizzare forme diverse da quelle ormai consolidate, nell’ottica di riportare l’attenzione sulle norme linguistiche che quotidianamente mettiamo in pratica. Siamo persuasə che sia un compito squisitamente editoriale quello di studiare e mettere in pratica una norma, in modo da diffonderne non l’uso ma la consapevolezza della possibilità. Restiamo al contempo consapevoli che non è attraverso l’imposizione di una nuova convenzione che la lingua cambierà, e che il nostro approccio è volutamente provvisorio, anche perché manca ancora della fluidità e della precisione che solo il tempo e l’uso possono fornire (riscontriamo inoltre che adoperare il simbolo non è attualmente semplicissimo nella pratica, laddove oltre a non trovarsi immediatamente sulle comuni tastiere può anche comportare problemi nell’ascolto coi dispositivi di lettura sonora – questo per il contesto digitale).
Pertanto, nella collana Saggi pop troverete lo schwa, ma il suo uso non sarà esteso a ogni forma di plurale, bensì verrà di occorrenza in occorrenza valutata, di concerto con l’autorə, l’occasione in cui l’uso si renda opportuno o meno. Sarà dunque un utilizzo in forma di sottolineatura, per ricordare che la lingua può prestare attenzione, all’interno di una moltitudine, ai singoli individui che la compongono. Questo, crediamo, rappresenta uno dei punti di partenza per riflettere e far vivere una lingua, che alla fine dovrà essere sufficientemente ampia ed elastica per descrivere un altrettanto ampio ed elastico stato di cose: prestare attenzione al singolo, per evitare dunque di generalizzare (perché lo sappiamo, così nascono sdruciti stereotipi), e per riuscire a essere inclusivə.
Tutto il resto, come ben si sa, risiede nell’esperire quanto stiamo dicendo. Non resta che verificarlo nella lettura del libro che avete tra le mani.
Prefazione alla seconda edizione
di Elisa Cuter
Quando Lolli si è rivolto a una normie come me (che non solo ha memato forse due volte in vita sua, ma nemmeno dispone di un profilo fake dal quale shitpostare su Facebook) per scrivergli questa prefazione, ho intuito subito perché: aveva bisogno che la scrivesse una donna.
In effetti, se ne capisce il motivo. La prefazione alla prima edizione, un po’ houellecbequiana, di Raffaele Alberto Ventura, evidenziava uno dei meriti principali del libro: la capacità di Lolli di spostare il discorso dalla semiotica a quelle che sono a tutti gli effetti dinamiche indagate dagli studi di genere. Più che di parlare delle convinzioni esplicite o delle raffinate strategie politiche degli anonimi attori coinvolti in questa pratica, si trattava di indagare il loro inconscio, il marasma di ambizioni, identificazioni e frustrazioni che vi si agitano dietro. Quello che però emerge dalla sua analisi è il fatto che l’umanità varia da cui la pratica prende vita riflette le dinamiche di una società nella quale, stringi stringi, sono ancora i maschi (alfa o beta che siano) a gareggiare tra loro per chi segna più punti¹. Non solo per pigliarsi la donzella, ma anche e soprattutto perché andare a segno è precisamente un segnale rivolto in ultima istanza ad altri maschi: una pisciatina sull’albero, un simbolo di potere, un flex. Il fine e il mezzo si invertono: non si tratta di essere alfa per poter scopare, ma di scopare per essere (percepiti) alfa, e l’economia libidica di fondo rimane in sostanza uno scambio tra maschi. Uno scambio tutto legato al potere, insomma, e molto poco al sesso. Ne emerge un ritratto davvero poco erotico, parecchio triste, che si stia sul fronte dei ‘perdenti’ o su quello dei ‘vincenti’, che ci si crogioli nel proprio ruolo subalterno o che lo si sovverta all’interno della propria microscopica community. Tutti i casi riconducono a un ruolo completamente trincerato in questa identità maschile e (sedicente) eterosessuale. Sembra insomma mancare una voce, al punto che l’annosa questione can the left meme?
potrebbe quasi tradursi in can women meme?
Non avrebbe senso elencare o lanciarsi in lodi sperticate di quelle pagine (xeno/queer/trans/etc-) femministe che sembrano attestare che sì, esistono meme progressisti, perché viceversa i numeri parlano chiaro: esistono, ma sono una minoranza risicata. E anche loro, più che dall’ottimistica rivendicazione con cui Lolli chiudeva la sua prima edizione (vogliamo ridere pure noi
), sembrano nascere piuttosto da una reazione comprensibilmente rancorosa verso i memers destrorsi e il clima sempre più oppressivo che questi ultimi promuovono. Da un punto di vista sociologico, insomma, sembra quasi di dover proprio confermare che l’umanità che mema, sia essa composta da maschi o da femmine, da progressisti o da filo-nazisti, è fatta principalmente di frustrati. Il medium stesso, Internet, è un rifugio, il surrogato di una Vita Vera sempre più inospitale e inabitabile, e in un panorama antropologico così prostrato sembra difficile sperare che gli afflati utopici possano diventare maggioritari. È più interessante ragionare allora in termini estetici e storici (come ci aiutano a fare i due nuovi capitoli aggiunti in questa edizione), cioè sistemici: la sensibilità ironica del meme è chiaramente postmoderna. La postmodernità, però, come sappiamo, più che sancire una generica ‘fine delle grandi narrazioni’, ha sancito la vittoria di un’unica ideologia, il trionfo del realismo capitalista.
Ora, la domanda che ci si può ancora porre credo che sia: i due schieramenti che si fronteggiano sul web attraverso questo particolare oggetto che è il meme, come si pongono nei confronti di questa ideologia? La criticano o la confermano? Ne sono sintomo o piuttosto reazione? Superano il postmoderno? Lo reiterano? Lo accelerano? A me, scettica, viene già da pensare a un meme comparativo: la guerra ideologica nel Novecento, tra fascisti e comunisti, rappresentata dal cane giallo versione chad (swole doge), e quella di oggi, tra femministe e incel, incarnata dal cane giallo vergine (cheems). La speranza che i memers di tutto il mondo si uniscano sembra decisamente vana: qualche mese fa un articolo che pur con molte ingenuità provava a creare un ponte tra teoria femminista e sensibilità incel è stato accolto da strali livorosi e ludibrio di tutte e due le fazioni. La guerra dei meme però a me continua a sembrare una guerra tra poveri, mentre là fuori c’è chi continua imperturbabile a fare profitto indipendentemente dai contenuti specifici che la sua piattaforma veicola.
Ma io sono solo una normie, o forse una marxista vecchio stampo. Lolli invece da questa guerra contemporanea e da questo oggetto che è il meme è attratto come da un buco nero, e riesce sia ad analizzarlo chirurgicamente, sia a trasmetterne la fascinazione. Non solo, Lolli è anche la dimostrazione che non necessariamente aggirarsi nei pressi di questi buchi centripeti, per quanto neri, implichi esserne risucchiati – e magari radicalizzarsi a destra... sempre ammesso che destra e sinistra vogliano dire ancora quello che dicevano prima dell’avvento di questo specifico campo gravitazionale.
1 Eve Kosofsky-Sedgwick, Between Men: English Literature and Male Homosocial Desire, Columbia University Press, New York 1985.
Prefazione alla prima edizione
di Raffaele Alberto Ventura
Sono anni che Alessandro Lolli mi infama su Facebook, sostenendo che sarei un pericoloso reazionario. Certo io avrei preferito vivere in quell’epoca radiosa in cui al prestigio e all’età corrispondevano un’eguale dose di rispetto – magari di deferenza, e perché no qualche pastarella offerta per le feste comandate – ma a noi è toccato essere degli intellettuali dell’epoca del web 2.0, privi in fondo di qualsivoglia potere da far valere gli uni sugli altri, e dunque senza troppi peli sulla lingua. Molto meglio, direte voi: sì, ma che fatica. E così mentre passavamo il tempo a confutarci a vicenda per la gioia di Mark Zuckerberg, abbiamo pure partecipato a mettere su qualcosa d’importante, a modo suo, a modo nostro: diciamo pure una scena. Una galassia eterogenea di firme venti-trentenni un po’ nerd che hanno portato una ventata di aria fresca nel giornalismo culturale dei tardi anni Duemiladieci: una combriccola di scappati di casa overskilled e sottopagati rifugiata su magazine come «Prismo», «Pixarthinking», «L’Indiscreto»; capaci di mescolare la teologia scolastica e i fumetti Marvel (vabbe’, questo sono io) oppure Furio Jesi e i meme: e qui sto parlando di Alessandro Lolli e del suo primo libro, che in effetti è la ragione per cui (non) mi pagano.
La curiosa ossessione di Lolli per i reazionari e presunti tali, in effetti, non si limita a me. E direi anche per fortuna, altrimenti non terreste tra le mani questo libro ma un altro ben più noioso e pure passibile di querela. La guerra dei meme, spiace annunciarlo così a bruciapelo, è un libro politico. Nel tracciare la rigorosa genealogia della cultura dei meme che potrete leggere in queste pagine, in effetti, l’autore finisce per toccare una questione quantomeno imbarazzante: e se i meme fossero una forma di espressione essenzialmente di destra? Peggio: e se l’intera cultura nerd, oggi ampiamente sdoganata, celasse nel suo cuore un’inconfessabile matrice sessista e xenofoba? Nelle mani di chiunque altro, una simile tesi avrebbe forse prodotto una lettura moraleggiante da infilare al più presto nello scaffale ‘libtard’ della vostra biblioteca assieme agli spiegoni di Internazionale sul gender. Ma Lolli prende molto sul serio il suo oggetto di studio e produce un’analisi convincente del nesso tra queste immaginette buffe e il risentimento dei maschi-bianchi-eterosessuali, che in America ha prodotto il fenomeno noto come Alt-Right. La guerra dei meme raccontata da Lolli è la rivincita dei nerd: credevamo che sarebbe stato tutto rose e fiori e invece eccoci qua, alle porte di un nuovo fascismo. Tutto a causa di Pepe the Frog?
Il problema è che noi maschi-bianchi-eterosessuali (lo avrete notato) non ce la passiamo tanto bene. Non che ce la passiamo oggettivamente peggio delle donne, dei neri o dei gay, ma nel momento in cui la nostra dominazione è entrata progressivamente in crisi lo scarto tra quello che pensavamo di meritare e quello che effettivamente otteniamo si è scavato in maniera sempre più profonda. In quel momento abbiamo iniziato a perdere la lucidità, divorati dal disagio profondissimo che affligge le classi alla deriva. La parte di popolazione che è riuscita a rifugiarsi tra le file dell’élite ha pensato bene di chiudersi a chiave nella cittadella fortificata, istituendo elaborate trappole e giochi linguistici per impedire l’accesso a chiunque altro; mentre fuori un esercito di zombie, brutti sporchi e cattivi come i redneck dei film di Rob Zombie, urla e sbatte i pugni con rabbia. Dentro ci si laurea in cultural studies e s’impara a conoscere le mille sfumature dell’identità di genere, fuori inizia a venire il sospetto che l’intero edificio del sapere legittimo sia una sofisticata menzogna utile soprattutto come criterio di selezione all’ingresso. Dentro si promuove la cosiddetta ‘identity politics’ che dovrebbe servire a distribuire un equo riconoscimento a tutte le minoranze, fuori si inizia a rivendicare lo stesso identico riconoscimento per i bianchi, che non ci stanno a rinunciare alle delizie del ruolo di vittima. Dentro vige la regola del politicamente corretto, fuori si risponde coi meme. Ma soprattutto dentro si scopa un sacco (a quanto pare) e fuori regna la piú nera miseria sessuale. Ed è questo, alla fine, che ci fa più incazzare.
Dietro le immaginette buffe, Alessandro Lolli riesce a mostrarci un grido di disperazione. Il mondo è cambiato troppo in fretta, le lingue si sono rimescolate come a Babele. Ma in fondo che importa? Questi non sono altro, come si dice, che First World Problems. E un meme ci seppellirà.
1 Il meme egoista
quando racconti come è nata la memetica, perché è naufragata, cosa ci è rimasto
e sei convinto di aver introdotto i meme
Si può