La vita moltiplicata
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DIECI STORIE DI UOMINI CHE NON SI ARRENDONO ALLA REALTÀ
Nella sua nuova raccolta Ghelli racconta storie e personaggi che si muovono sul labile crinale che divide la realtà dal sogno e dall’inconscio. Fin dal titolo, La vita moltiplicata, l’autore dimostra di voler scommettere sulla scrittura come strumento capace di intercettare altre dimensioni – altre rispetto a quella che siamo soliti definire “realtà” – dove si moltiplicano le immagini, i quadri e le scene mentali. Il risultato finale è quello di un grande cinematografo interiore in cui i protagonisti, e con essi i lettori, si muovono in cerca di una via di fuga dal sogno a occhi aperti che sembra averli intrappolati per sempre.
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Anteprima del libro
La vita moltiplicata - Simone Ghelli
Tavola dei Contenuti (TOC)
Oboe d’amore
Vera
Piano inclinato
La somma dei secondi e dei sogni
L’ultima vetrina
Compito di realtà
La grande divoratrice
La scatola nera
La sentinella di ferro
L’ineluttabile
Note dell’autore
golem / racconti
© 2019 Miraggi Edizioni
via Mazzini 46, 10123 Torino
www.miraggiedizioni.it
Progetto grafico Miraggi
In copertina: Il tuffo. Arcomagno 2016
foto di Alessio Duranti | www.alessioduranti.it
Finito di stampare a Borgoricco (PD)
nel mese di ottobre 2019 da Gruppo Logo srl
per conto di Miraggi Edizioni
su carta Book Cream Avorio 80 gr
Prima edizione digitale: novembre 2019
isbn 978-88-3386-101-2
Prima edizione cartacea: ottobre 2019
isbn 978-88-3386-099-2
A mia moglie
Ergo vivida vis animi percivit, et extra
processit longe flammantia moenia mundi
atque omne immensum peragravit mente animoque
Lucrezio, De rerum natura
Oboe d’amore
Accadeva così: che io la seguissi ovunque.
Lei, stanca di tutti quegli sguardi, si era appartata in campagna: dove faceva delle lunghe passeggiate con indosso i suoi strani cappellini; e gli animali la guardavano, e anch’io: certo.
Accadeva che io fossi un’ombra, e che perciò strisciassi silenzioso tra i tappeti di foglie autunnali; e che ricoperto in testa d’un cappuccio di pelliccia, restassi a fiutarla tra i folti cespugli, a respirarla di lontano.
Che non mi abbia mai visto resta un mistero: forse, troppo presa dal rimirarsi nello stagno, e poi dal ripensare quell’immagine riflessa di se stessa, non si accorgeva davvero che degli esseri più piccoli: che per farsi notare fanno sempre più baccano degli altri, si sa. Ad esempio tutti quei passerotti che lei lasciava becchettare tra i suoi capelli: ma anche i roditori, che scendevano a frotte dai rami; e poi tutto quello squittire e chioccolare lì intorno: una sinfonia da uscirci pazzi.
Dovete infatti sapere che io con la musica non ho mai avuto un buon rapporto: che dall’età di quattro anni mi misero a fare gli esercizi al piano con le noci tra le dita, per tenerle divaricate, e che mi obbligavano a raccoglierle ogni volta che cadevano e a riprendere il brano daccapo: e che io le noci me le mangiavo poi di nascosto, anche questo lo dovete sapere. Chopin lo odiavo, con tutto quello struggimento; un po’ meno Mozart, che in certi passaggi mi faceva sobbalzare dallo sgabello: come i grilli che in futuro mi sarebbero zompati tra i piedi, nascosti in quei ciuffi d’erba secca, e a volte fin dentro la barba. Mentre la guardavo, però, sentivo piuttosto le note d’un Ravel, o d’un Debussy: tutto un rincorrersi di pifferi e percussioni, insomma; perché la sua corsa in mezzo a quei campi era una pennellata feroce di colore, e uno squarcio nel paesaggio che s’animava tutto. Era di più: uno strappo nel cielo, che si rovesciava a terra insieme a tutti gli angeli; e me li sentivo nello stomaco, quelli, che mi pizzicavano le corde e solleticavano il sentimento.
Accadeva, mentre percuotevo i tasti come un ossesso, che mi arrampicassi per le scale adorne di fili dorati disseminati dal suo ricordo: e ogni volta, terminato con successo un esercizio, dovevo tornare a spiarne i movimenti, perché mi suggerissero l’aria che avrebbe dato corpo allo spazio tra le note. Allora mi alzavo dallo sgabello e indossavo le scarpe da ginnastica per uscire all’aperto, dove mi distendevo con l’orecchio a terra, paziente e in attesa dei suoi passi. A volte giungeva gaudiosa, così prosperosa che temevo un terremoto capace di squinternarmi tutte le scale; in altri giorni era invece esile e contratta, in procinto di piangere per un nonnulla, e perciò dispensatrice di trilli a profusione. Per certo m’era d’ispirazione ogni particolare, che annotavo su un piccolo taccuino punteggiato di moscerini schiacciati dalla forza della penna, e ogni sgorbio voleva esprimere un sentimento suddiviso per frazioni, di cui trattenevo a stento il tempo tamburellando con le dita sulle gambe.
Rientrato a casa, accaldato per la corsa, scoprivo spesso l’impossibilità di tradurre i segni da me stesso elaborati – a sfuggirmi erano soprattutto le sfumature, il colore: che nella musica son tutto, si sa. Allora m’indispettivo, e a voce alta cercavo di riprodurre il ritmo emettendo strani versi con la bocca, che certe volte distoglievano mia madre dalle sue faccende e l’attiravano allarmata nei miei pressi, dove mi guardava con sbigottimento: «Ma ti sembra il modo?».
Diceva proprio così: modo – che in musica ha un significato preciso.
Solitamente, di fronte a questo suo stupore io reagivo con l’esecuzione di una scala esatonale, che sapevo irritarla oltremodo: «Ancora con questo Debussy?!» m’incalzava.
Allora, per ripicca, chiudevo la tastiera con una forza tale che il rumore restava sospeso nello spazio del salone – e anche da quei tremendi istanti sapevo prendere ispirazione, perché pensavo a lei e a come si sarebbe spaventata di tanta rabbia, di questa furia domestica che io scaricavo sull’incolpevole strumento (vedevo le sue pupille, di un verde smeraldo, allargarsi a dismisura, e la sua pelle chiara arrossarsi subitamente: immagine che sfogavo, ritornando sui miei passi in tutta fretta, in un accordo di quarta).
Avevo nove anni la prima volta che la vidi, e da allora ingaggiai una guerra aperta con mia madre: che non sopportava di vedermi così illanguidito, e portatore di uno sguardo liquido che sembrava scivolare sulle cose per mettersi a fuoco sull’invisibile. Gridava e mi sgridava in continuazione: «Fai attenzione! Ma dormi o cosa?!».
Girava come un’invasata per casa, ma era lei che non ci vedeva e che sbatteva negli angoli, apposta per farmi imbestialire – perché lo sapeva che odiavo le scenate, e per dispetto io correvo in cortile e mi buttavo con le ginocchia a terra, per sporcare e stropicciare quei pantaloni a coste di velluto che mi costringeva a portare.
Mio padre c’era solo la sera, e di tutto questo frastuono non sentiva niente; era anzi l’armonia a regnare sovrana col calar del sole, al suo ritorno – e io facevo benissimo la mia parte, perché nella pace e nel silenzio potevo finalmente sciogliere la mia immaginazione senza note a margine. Dopo cena, mia madre pretendeva che li allietassi con qualche melodia: che io eseguivo senza sentimento, e rigido come un baccalà. La digestione aveva il potere di scioglierne la severità dei tratti e del carattere – niente musica classica, però, bensì arrangiamenti di canzoni leggere che lei stessa rielaborava per intrattenere mio padre: che era un ignorante in materia, e godeva di strofe orecchiabili che alleggerissero il fardello del suo lavoro. Di uscire non se ne parlava, men che mai di distrarsi con la televisione: la cui accensione mi fu tassativamente vietata fino all’età di quattordici anni – restava semplicemente là, ferma su un mobiletto, investita della trita metafora dell’occhio vuoto; come se dovesse espiare la colpa di tutte le sue compagne, e quindi costretta a rendersi partecipe di quel sacro silenzio casalingo che il suo avvento mirava a corrompere.
Fu in questo contesto – di uno spazio familiare militarizzato, impermeabile alle sollecitazioni del fuori (mia madre rese casa nostra un luogo inospitale per chiunque, a cominciare dai miei compagni di scuola, che costringeva a indossare delle ciabattine di feltro per non insozzare il pavimento) e sospeso in un tempo passato – che prese forma la sua immagine: che era libera da ogni supporto, e fluttuava nell’aria su ogni cosa, sovrapponendosi alla materia di cui ero circondato – spesso me la figuravo infatti con le braccia abbandonate sul mio pianoforte, e i capelli sciolti che ne invadevano i tasti per impedirmi di rimettermi all’opera.
Ebbene sì, che posso dirvelo: la mia musa si distinse subito per volermi ostacolare nella mia arte, per mettersi di traverso al volere della mia famiglia e alle assurde pretese di plasmarmi – ma fu talmente dura la tenacia di mia madre, che alla fine si ritrovò costretta a emigrare fuori dalle mura domestiche: nella campagna circostante, dove la incontrai diversi anni dopo.
Durante il tempo di mezzo, che fu di tutta la mia adolescenza, mi ritrovai perciò da solo, e mi riscoprii irascibile e rancoroso senza la presenza di quella dolce compagna. Uscire di casa mi era insopportabile, e anche andare a scuola mi costava una fatica immensa – mi abituai così bene all’invenzione di emicranie e nausee mattutine che finii per cadere davvero tra le braccia della malattia: che