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La vita moltiplicata
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La vita moltiplicata
E-book118 pagine1 ora

La vita moltiplicata

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Info su questo ebook

Dopo il realismo di “ Non risponde mai nessuno”, Ghelli in questa nuova raccolta ci racconta la vita interiore di chi non si arrende al proprio destino!
DIECI STORIE DI UOMINI CHE NON SI ARRENDONO ALLA REALTÀ

Nella sua nuova raccolta Ghelli racconta storie e personaggi che si muovono sul labile crinale che divide la realtà dal sogno e dall’inconscio. Fin dal titolo, La vita moltiplicata, l’autore dimostra di voler scommettere sulla scrittura come strumento capace di intercettare altre dimensioni – altre rispetto a quella che siamo soliti definire “realtà” – dove si moltiplicano le immagini, i quadri e le scene mentali. Il risultato finale è quello di un grande cinematografo interiore in cui i protagonisti, e con essi i lettori, si muovono in cerca di una via di fuga dal sogno a occhi aperti che sembra averli intrappolati per sempre.
LinguaItaliano
Data di uscita19 mar 2020
ISBN9788833861012
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    Anteprima del libro

    La vita moltiplicata - Simone Ghelli

    Tavola dei Contenuti (TOC)

    Oboe d’amore

    Vera

    Piano inclinato

    La somma dei secondi e dei sogni

    L’ultima vetrina

    Compito di realtà

    La grande divoratrice

    La scatola nera

    La sentinella di ferro

    L’ineluttabile

    Note dell’autore

    golem / racconti

    © 2019 Miraggi Edizioni

    via Mazzini 46, 10123 Torino

    www.miraggiedizioni.it

    Progetto grafico Miraggi

    In copertina: Il tuffo. Arcomagno 2016

    foto di Alessio Duranti | www.alessioduranti.it

    Finito di stampare a Borgoricco (PD)

    nel mese di ottobre 2019 da Gruppo Logo srl

    per conto di Miraggi Edizioni

    su carta Book Cream Avorio 80 gr

    Prima edizione digitale: novembre 2019

    isbn 978-88-3386-101-2

    Prima edizione cartacea: ottobre 2019

    isbn 978-88-3386-099-2

    A mia moglie

    Ergo vivida vis animi percivit, et extra

    processit longe flammantia moenia mundi

    atque omne immensum peragravit mente animoque

    Lucrezio, De rerum natura

    Oboe d’amore

    Accadeva così: che io la seguissi ovunque.

    Lei, stanca di tutti quegli sguardi, si era appartata in campagna: dove faceva delle lunghe passeggiate con indosso i suoi strani cappellini; e gli animali la guardavano, e anch’io: certo.

    Accadeva che io fossi un’ombra, e che perciò strisciassi silenzioso tra i tappeti di foglie autunnali; e che ricoperto in testa d’un cappuccio di pelliccia, restassi a fiutarla tra i folti cespugli, a respirarla di lontano.

    Che non mi abbia mai visto resta un mistero: forse, troppo presa dal rimirarsi nello stagno, e poi dal ripensare quell’immagine riflessa di se stessa, non si accorgeva davvero che degli esseri più piccoli: che per farsi notare fanno sempre più baccano degli altri, si sa. Ad esempio tutti quei passerotti che lei lasciava becchettare tra i suoi capelli: ma anche i roditori, che scendevano a frotte dai rami; e poi tutto quello squittire e chioccolare lì intorno: una sinfonia da uscirci pazzi.

    Dovete infatti sapere che io con la musica non ho mai avuto un buon rapporto: che dall’età di quattro anni mi misero a fare gli esercizi al piano con le noci tra le dita, per tenerle divaricate, e che mi obbligavano a raccoglierle ogni volta che cadevano e a riprendere il brano daccapo: e che io le noci me le mangiavo poi di nascosto, anche questo lo dovete sapere. Chopin lo odiavo, con tutto quello struggimento; un po’ meno Mozart, che in certi passaggi mi faceva sobbalzare dallo sgabello: come i grilli che in futuro mi sarebbero zompati tra i piedi, nascosti in quei ciuffi d’erba secca, e a volte fin dentro la barba. Mentre la guardavo, però, sentivo piuttosto le note d’un Ravel, o d’un Debussy: tutto un rincorrersi di pifferi e percussioni, insomma; perché la sua corsa in mezzo a quei campi era una pennellata feroce di colore, e uno squarcio nel paesaggio che s’animava tutto. Era di più: uno strappo nel cielo, che si rovesciava a terra insieme a tutti gli angeli; e me li sentivo nello stomaco, quelli, che mi pizzicavano le corde e solleticavano il sentimento.

    Accadeva, mentre percuotevo i tasti come un ossesso, che mi arrampicassi per le scale adorne di fili dorati disseminati dal suo ricordo: e ogni volta, terminato con successo un esercizio, dovevo tornare a spiarne i movimenti, perché mi suggerissero l’aria che avrebbe dato corpo allo spazio tra le note. Allora mi alzavo dallo sgabello e indossavo le scarpe da ginnastica per uscire all’aperto, dove mi distendevo con l’orecchio a terra, paziente e in attesa dei suoi passi. A volte giungeva gaudiosa, così prosperosa che temevo un terremoto capace di squinternarmi tutte le scale; in altri giorni era invece esile e contratta, in procinto di piangere per un nonnulla, e perciò dispensatrice di trilli a profusione. Per certo m’era d’ispirazione ogni particolare, che annotavo su un piccolo taccuino punteggiato di moscerini schiacciati dalla forza della penna, e ogni sgorbio voleva esprimere un sentimento suddiviso per frazioni, di cui trattenevo a stento il tempo tamburellando con le dita sulle gambe.

    Rientrato a casa, accaldato per la corsa, scoprivo spesso l’impossibilità di tradurre i segni da me stesso elaborati – a sfuggirmi erano soprattutto le sfumature, il colore: che nella musica son tutto, si sa. Allora m’indispettivo, e a voce alta cercavo di riprodurre il ritmo emettendo strani versi con la bocca, che certe volte distoglievano mia madre dalle sue faccende e l’attiravano allarmata nei miei pressi, dove mi guardava con sbigottimento: «Ma ti sembra il modo?».

    Diceva proprio così: modo – che in musica ha un significato preciso.

    Solitamente, di fronte a questo suo stupore io reagivo con l’esecuzione di una scala esatonale, che sapevo irritarla oltremodo: «Ancora con questo Debussy?!» m’incalzava.

    Allora, per ripicca, chiudevo la tastiera con una forza tale che il rumore restava sospeso nello spazio del salone – e anche da quei tremendi istanti sapevo prendere ispirazione, perché pensavo a lei e a come si sarebbe spaventata di tanta rabbia, di questa furia domestica che io scaricavo sull’incolpevole strumento (vedevo le sue pupille, di un verde smeraldo, allargarsi a dismisura, e la sua pelle chiara arrossarsi subitamente: immagine che sfogavo, ritornando sui miei passi in tutta fretta, in un accordo di quarta).

    Avevo nove anni la prima volta che la vidi, e da allora ingaggiai una guerra aperta con mia madre: che non sopportava di vedermi così illanguidito, e portatore di uno sguardo liquido che sembrava scivolare sulle cose per mettersi a fuoco sull’invisibile. Gridava e mi sgridava in continuazione: «Fai attenzione! Ma dormi o cosa?!».

    Girava come un’invasata per casa, ma era lei che non ci vedeva e che sbatteva negli angoli, apposta per farmi imbestialire – perché lo sapeva che odiavo le scenate, e per dispetto io correvo in cortile e mi buttavo con le ginocchia a terra, per sporcare e stropicciare quei pantaloni a coste di velluto che mi costringeva a portare.

    Mio padre c’era solo la sera, e di tutto questo frastuono non sentiva niente; era anzi l’armonia a regnare sovrana col calar del sole, al suo ritorno – e io facevo benissimo la mia parte, perché nella pace e nel silenzio potevo finalmente sciogliere la mia immaginazione senza note a margine. Dopo cena, mia madre pretendeva che li allietassi con qualche melodia: che io eseguivo senza sentimento, e rigido come un baccalà. La digestione aveva il potere di scioglierne la severità dei tratti e del carattere – niente musica classica, però, bensì arrangiamenti di canzoni leggere che lei stessa rielaborava per intrattenere mio padre: che era un ignorante in materia, e godeva di strofe orecchiabili che alleggerissero il fardello del suo lavoro. Di uscire non se ne parlava, men che mai di distrarsi con la televisione: la cui accensione mi fu tassativamente vietata fino all’età di quattordici anni – restava semplicemente là, ferma su un mobiletto, investita della trita metafora dell’occhio vuoto; come se dovesse espiare la colpa di tutte le sue compagne, e quindi costretta a rendersi partecipe di quel sacro silenzio casalingo che il suo avvento mirava a corrompere.

    Fu in questo contesto – di uno spazio familiare militarizzato, impermeabile alle sollecitazioni del fuori (mia madre rese casa nostra un luogo inospitale per chiunque, a cominciare dai miei compagni di scuola, che costringeva a indossare delle ciabattine di feltro per non insozzare il pavimento) e sospeso in un tempo passato – che prese forma la sua immagine: che era libera da ogni supporto, e fluttuava nell’aria su ogni cosa, sovrapponendosi alla materia di cui ero circondato – spesso me la figuravo infatti con le braccia abbandonate sul mio pianoforte, e i capelli sciolti che ne invadevano i tasti per impedirmi di rimettermi all’opera.

    Ebbene sì, che posso dirvelo: la mia musa si distinse subito per volermi ostacolare nella mia arte, per mettersi di traverso al volere della mia famiglia e alle assurde pretese di plasmarmi – ma fu talmente dura la tenacia di mia madre, che alla fine si ritrovò costretta a emigrare fuori dalle mura domestiche: nella campagna circostante, dove la incontrai diversi anni dopo.

    Durante il tempo di mezzo, che fu di tutta la mia adolescenza, mi ritrovai perciò da solo, e mi riscoprii irascibile e rancoroso senza la presenza di quella dolce compagna. Uscire di casa mi era insopportabile, e anche andare a scuola mi costava una fatica immensa – mi abituai così bene all’invenzione di emicranie e nausee mattutine che finii per cadere davvero tra le braccia della malattia: che

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