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L'istinto dei calamari
L'istinto dei calamari
L'istinto dei calamari
E-book476 pagine6 ore

L'istinto dei calamari

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Info su questo ebook

Leonida Lucomagno, ex giornalista caduto in disgrazia dopo essere stato condannato per aggressione nei confronti di una collega, trascorre le sue giornate a pescare calamari sulle coste della Croazia, dove si è trasferito per allontanarsi da tutto e da tutti cercando di dimenticare gli avvenimenti degli ultimi anni. Maria, una suora di origini italiane e dal passato misterioso che gestisce un collegio in Uganda, riesce a mettersi in contatto con l’uomo e a ingaggiarlo per rintracciare una sua ex studentessa, Maddalena. La ragazza, dopo essere stata rapita e costretta a diventare una giovane guerrigliera, ha dato alla luce una bambina che le è stata strappata via con la forza e della quale vengono perse le tracce. Un lungo viaggio che parte dall’Africa e arriva fino all’Italia che racconta di amore materno, di odio e sensi di colpa, ma anche di perdono e riscatto.
LinguaItaliano
Data di uscita21 mag 2021
ISBN9788892966383
L'istinto dei calamari

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    Anteprima del libro

    L'istinto dei calamari - Fabio Lombardi

    1

    La prima cosa che vide aprendo gli occhi fu l’immagine offuscata e confusa di una macchia rossastra. Faceva fatica a mettere a fuoco. Sentì i vincoli che gli impedivano di muovere gambe e braccia. Era seduto reclinato in avanti, con la testa protesa, e la faccia rivolta verso il pavimento. Piegato, trattenuto alla sedia da legami stretti e dolorosi. La sua mente cercò di ricostruire l’accaduto, ma prima che la lucidità tornasse per mettere ordine nei suoi pensieri, arrivò il dolore. Forte. Lancinante. Una fitta che gli fece salire un urlo alla gola. Gridò, e il suono straziante della sua voce rimbombò attorno a lui, riempiendo lo spazio che lo circondava.

    Con il dolore tornò anche la vista. Lucida. La macchia sul pavimento si rivelò essere sangue, il suo sangue, spalmato a terra davanti ai suoi stessi piedi. Le striature rosse erano frutto del limitato movimento che poteva compiere nonostante il filo d’acciaio che gli bloccava le gambe alla sedia.

    Le pulsazioni lo portarono a girare la testa quanto basta per vedere la sua mano, anch’essa legata con lo stesso cavo metallico al bracciolo. Era da lì che proveniva il sangue. Dalle sue dita. Le sue dita da medico chirurgo, specializzato. Medico volontario.

    Quante vite aveva salvato usandole? Trasformandole in strumenti di eccellenza, sotto la guida della sua conoscenza? Quante? Meno di quante avrebbe voluto. E certo non ne avrebbe più salvate, ammesso gli fosse stato concesso ancora di poterlo fare. Non utilizzando quelle dita che ora guardava con un misto di fredda professionalità e orrore. Nonostante le lacrime gli offuscassero nuovamente la vista, era chiaro che chi aveva infierito sulla sua mano destra lo aveva fatto con brutalità, senza la minima conoscenza dell’anatomia. O forse solo senza pietà, ben consapevole di ciò che stava facendo.

    Indice e pollice erano coperti di sangue. Le unghie erano state asportate con violenza. I tessuti lacerati. Ma erano certamente recuperabili. Invece, si sarebbe potuto fare molto poco per il dito medio, reciso nettamente all’altezza della falange prossimale. In un altro luogo, con la dovuta cura e conservazione della parte mancante, si sarebbe potuto ricucire, forse. Recuperando magari buona parte della mobilità. Ma non lì. Non a Kampala. O dovunque si trovasse in quel momento.

    Ma era ancora in Uganda? si chiese mentre guardava il dito anulare totalmente rovesciato sul dorso della sua mano, in una posizione talmente innaturale da permettergli di calcolare i possibili i danni a nervi, tendini, tessuti… Tutto in pochi istanti, prima di rendersi conto che anche il mignolo era andato ormai perso. Letteralmente. Scomparso. Lasciando dietro di sé un malconcio vuoto, al termine della mano.

    Il dolore restava nella sua mente, sullo sfondo di una fragile lucidità. Tanti pazienti gli avevano raccontato negli anni precedenti come, raggiunta una certa soglia di sofferenza, sembrava che tutto si quietasse. Non è che il dolore scomparisse, solo che la mente o il corpo trovavano un antidoto per salvare la sanità mentale dello sventurato costretto ad affrontare quella sofferenza. L’amore di Dio, aveva sempre pensato lui. La pietas del Signore verso i suoi figli. Lo sguardo benevolo di un padre, che tiene per mano il bambino e lo rincuora, per calmarlo, perché non si concentri solo su quello che gli fa male.

    La sua mente si muoveva velocemente, passando da un’immagine all’altra. Senza continuità. Come se qualcuno avesse assemblato un film utilizzando spezzoni presi da pellicole diverse, fotogrammi che si susseguivano senza una logica apparente. L’anulare quasi divelto, un bambino dal ventre rigonfio alimentato con una siringa, le mani di un ragazzo del carcere minorile di Kampala che assembla un posacenere di legno, il moncone di carne del dito medio, la macchia vermiglia del sangue rappreso sul pavimento, il cortile dell’Università Statale di Milano e il totem che annuncia gli eventi del meeting, il don che lo guarda fisso negli occhi, con dolcezza e gli rivela la sua missione, il suo incarico: «Tu sarai un medico del corpo e dell’anima, Riccardo, ma non qui. L’Africa è la tua meta. Il Signore ti vuole là. Tu e Marta. Insieme. Famiglia e modello. Per tutti gli altri che vi seguiranno, e per tutti coloro che sceglieranno di venire da noi».

    Lui, Marta. E poi Pietro, Lucia e Samuele, la sua famiglia, i suoi figli. E ancora tutti gli altri, i volontari che negli anni si erano susseguiti. I sacerdoti. I missionari. Il grande progetto che si realizzava e lui che diveniva lo strumento di quella realizzazione. Lui, lo strumento del Signore. Un prescelto. Di questo si era convinto nella sua vanità. E forse per questo ora era lì, a pagare il conto dei suoi peccati e delle sue mancanze.

    D’un tratto tornò a essere un medico legato a una sedia, e nulla più. Raddrizzò il suo corpo fino ad appoggiarsi allo schienale della seduta. Attorno a lui lo spazio era tutto in penombra. Caldo, umido, carico di odore di chiuso, in apparente abbandono. Le ombre più scure potevano essere macchinari. Forse un deposito. Il soffitto alto sembrava indicare un magazzino. Ecco sì, forse un deposito. C’era luce, proveniente da dei finestroni sulla destra, coperti malamente con qualcosa. Non riusciva a distinguere. Avrebbe potuto essere carta da giornale. O qualche stampato incollato sui vetri, più per contenere le conseguenze di qualche rottura che per schermare l’interno di quello spazio. O forse per impedire di vederne da fuori il contenuto.

    Per terra, a pochi metri da lui, una catasta di cartoni e coperte, accumulati alla rinfusa. Un paio di grosse casse di legno. Bottiglie di vetro e plastica, quasi tutte vuote. Più avanti i resti di un fuoco, controllato. Un bivacco. E qualche scatoletta metallica aperta a terra. Quel luogo doveva essere stato utilizzato da qualcuno per dormirci e rifocillarsi. Forse da qualcuno dei tanti disperati della capitale.

    «Stai cercando di capire dove ti trovi, dottore?» disse la voce proveniente da una zona in ombra di fronte a lui. «Non sforzarti. Non riuscirai a individuare dove siamo. Kampala è una città con i suoi segreti, come sai bene. Voi avete i vostri, noi i nostri. La differenza è che noi non abbiamo reticolati, mura e guardie armate ben pagate a difendere i nostri. Ma come vedi, a volte non c’è nulla che possa difenderti. Mia sarà la vendetta e il castigo: conosci questa frase, dottore?»

    Aveva parlato lentamente, in italiano. Una buona conoscenza della lingua, ma senza alcun dubbio, a pronunciare quelle parole era un ugandese. Aveva sentito quell’inflessione per tutta la sua vita africana. Aveva lui stesso insegnato l’uso dell’italiano a infermieri e medici neolaureati in Europa, perché interagissero meglio con l’organizzazione, con l’Italia, che restava l’interfaccia dell’associazione Onlus e di tutte le sue diramazioni sul territorio.

    «Ti ho osservato in questi giorni, dottore. Ti ho visto giocare a basket con tuo figlio dentro la tua piccola fortezza, mentre ti credevi al sicuro, protetto dagli uomini in divisa, dai traditori di questo Paese. Pronti a sparare sui loro fratelli nel caso qualcuno dovesse avvicinarsi troppo al vostro centro, al quartier generale della vostra organizzazione umanitaria. La chiamate così, giusto?»

    Si fermò, quasi volesse osservare la reazione dell’uomo legato alla sedia.

    «Chi sei? Cosa vuoi?» chiese Riccardo. Il dottor Riccardo Rossi. Laureato in medicina all’Università Cattolica di Roma, specializzato in chirurgia d’urgenza.

    «Ora ti racconto cosa è questo posto, dottore. Cosa è stato e cosa potrebbe essere per te.»

    L’ombra scura si mosse, ci fu come un rumore di molle, come se si fosse alzata da un vecchio divano, e forse era così perché a Riccardo ora parve più alta e vicina. Senza però che mai entrasse nella zona più luminosa al centro dell’edificio, dove lui rimaneva legato alla sedia, con lo sguardo fisso sull’ombra che parlava italiano.

    «È qui che venivamo, di tanto in tanto, quando era necessario fermarci qualche giorno nella capitale. Quando per sfuggire all’esercito, alle truppe del Presidente, che ci cercavano nella giungla, ci spostavamo proprio a pochi metri da lui, da voi, da tutta l’ipocrita macchina corrotta di questo Paese. Dormivamo qui, accampati. Nella giungla della città invece che in quella vera. A cambiare sono solo il tipo di belve e serpenti che l’abitano. Ma se sai come difenderti, sopravvivi ovunque, dottore. E noi poi eravamo protetti, protetti dal Signore, noi eravamo le sue truppe.»

    Fu in quell’istante che Riccardo comprese. Capì che non sarebbe più tornato a casa. Non ci sarebbero più stati Marta, né i suoi figli, né la sua missione. Tutto stava per finire. L’ombra che parlava con lui era un soldato dell’Esercito di resistenza del Signore. E lui non sarebbe uscito vivo da quella situazione. Aveva peccato di presunzione, tante volte, ma quell’ultima sortita l’avrebbe pagata. Proprio lui, che aveva ideato, programmato e insegnato i protocolli di sicurezza per tutta l’organizzazione, aveva ignorato le sue stesse regole per cedere alla sua passione. Era uscito da solo, in auto, quasi al termine della notte per raggiungere alcuni amici e seguire la partitissima Nba. L’ultima della serie.

    Ma non aveva raggiunto gli amici, ora ricordava. Aveva parcheggiato a pochi metri dal locale. Dentro sentiva già i cori degli americani alticci. L’eccitazione dell’attesa per l’ultimo match. Ecco, si era fatto distrarre, aveva abbassato la guardia. Qualcuno alle sue spalle. Uno straccio sul volto. Pochi istanti e aveva perso i sensi.

    «Riprendiamo la nostra chiacchierata, dottore. Prima non sei stato molto collaborativo. Forse era colpa del cloroformio. Sai dove l’ho preso? In una delle vostre piccole cliniche, quelle vicine ai centri d’ascolto, quelli dove indottrinate la mia gente in cambio di assistenza medica. Do ut des, giusto? Me lo diceva sempre il mio sacerdote, il missionario che avevate inviato per istruire, per portare la parola di Dio. Ma lui non aveva portato solo quella, perché nella Bibbia non c’è scritto do ut des, giusto? Non c’è scritto che per poter dormire al sicuro dentro i recinti di un ospedale, per evitare di essere portato via di notte dai soldati, devi coricarti con il portavoce di Dio. Vero, dottore?»

    Sentì la rabbia salire nella voce dell’ombra. Il tono, la durezza delle parole. La cadenza. Tutto indicava che non sarebbe finita bene. Ma di cosa stava parlando? Quale sacerdote? Quale ospedale?

    «Ascolta, non so a cosa tu ti riferisca. Ma posso assicurarti che se qualche sacerdote ha abusato del suo ruolo e ha tradito i suoi voti, sarò il primo a espormi per denunciarlo.»

    Nel momento stesso in cui pronunciò queste parole, Riccardo si rese conto di come risultassero quasi rituali, vuote. Non perché lui non ci credesse o stesse mentendo, ma perché era consapevole che era la formula con cui decine e decine di volontari, fedeli, sacerdoti avevano risposto ad altrettante denunce. E di come poche volte, le vittime avessero realmente ottenuto giustizia. Quel flagello era la prova più dura, la prova della fragilità umana, della debolezza di chi invece aveva scelto la strada dell’incondizionato amore di Dio.

    «Dottore, non darti pena» continuò la voce. «Non sono qui per denunciare nessuno. Non mi aspetto giustizia dalla vostra Chiesa. La mia giustizia me la sono presa da solo. Sono andato personalmente a discutere con lui della sua interpretazione del precetto dare per avere, a chiarire che i peccati prevedono una punizione. E posso assicurarti che don Francesco ha capito bene la lezione.»

    Esplose in una fragorosa risata.

    Riccardo ricordava bene don Francesco. Era stato ritrovato nella sua Missione, o ciò che ne restava, dopo una scorribanda dell’Esercito di resistenza del Signore. Il suo corpo totalmente carbonizzato, dopo esser stato sottoposto a terribili torture. Ora aveva di fronte il suo carnefice. Improvvisamente si ricordò della sua mano. E riprese coscienza del dolore. Di quello presente, e al contempo di quello che sarebbe arrivato. Ne era certo ormai.

    «Non so cosa sia accaduto con don Francesco» disse piangendo. «Ma posso assicurarti che non sapevo nulla. Se fossi stato al corrente delle sue debolezze, io…»

    «Stai tranquillo, dottore» disse la voce. «Non sei qui per rispondere di ciò che mi ha fatto. Tra tutte le tue colpe, non metto anche le sue.»

    Riccardo lo vide uscire dalla zona d’ombra e venirgli incontro, entrando nell’area più illuminata dalla luce che filtrava dai finestroni mal oscurati. Guardò prima il suo volto, e poi la sua mano destra che impugnava un paio di cesoie da giardiniere, sporche di sangue. Del suo sangue.

    «Forse non ricordi la domanda che ti ho posto poco fa, dottore. È ancora una semplice questione di do ut des: tu mi dai una risposta, e io lascio che tu possa tornare al tuo quartier generale. Da tua moglie e i tuoi figli. Ti lascio vivere. Non ho nulla contro di te. Anzi no, avrei tante cose contro di te, contro chi ha guidato la vostra colonizzazione del mio Paese, la vostra campagna di ipocrita diffusione del Verbo. Ma non sono qui per una vendetta politica o religiosa, per le ragioni del popolo Acholi o per una vendetta personale… Tu dottore non mi hai mai fatto nulla. Da te voglio solo un’informazione.»

    «Un’informazione? Ma che cosa vuoi? Il tuo esercito è stato spazzato via, il vostro leader Joseph Kony ucciso, i vostri miliziani sono quasi tutti morti o dispersi. Cosa pensi di poter fare da solo?»

    «Dottore, non sforzarti di sapere e capire. Non sono qui per ragioni politiche o militari. Sono qui per ragioni che riguardano solo me. Mia sarà la vendetta e il castigo, ricordi? Te l’ho già detto prima. Quindi ora ti porrò di nuovo la domanda. Ma tu cerca di rispondere, perché tra poco finiranno le tue dita, e ti assicuro che con due monconi al posto delle mani avrai poco da fare nella vita.»

    Riccardo cercò di ritrovare nella sua mente l’informazione di cui parlava quel ragazzo, quanti anni poteva avere? Forse trenta, forse qualcuno di più. Ma non ricordava nulla della prima parte di quell’assurdo interrogatorio. Forse troppo cloroformio. Forse troppo dolore. Forse la paura. Nulla…

    «Allora, dottore, te lo chiedo di nuovo: dove è andata Maddalena?»

    «Maddalena?» chiese sorpreso Riccardo. «Non so di chi tu stia parlando. Non conosco nessuna Maddalena.»

    «Davvero, dottore? Maddalena, il collegio di suor Maria ad Aboke. Davvero non ti dicono nulla?»

    D’improvviso Riccardo Rossi capì a chi si riferisse; nello stesso istante ebbe l’ultima conferma che non sarebbe mai tornato a casa, ogni promessa di libertà del suo carceriere era vana. Non perché stesse mentendo, cosa comunque probabile, ma perché quella domanda aveva una sola risposta, e il ragazzo avrebbe dovuto conoscerla: Maddalena era morta, morta durante la sua prigionia con l’Esercito di resistenza del Signore.

    Riccardo guardò il ragazzo negli occhi, poi nuovamente vide le cesoie nella sua mano, e infine chiuse gli occhi e iniziò a pregare.

    2

    Leonida alzò lo sguardo in direzione dell’isola. L’onda aveva appena sollevato la barca e ora proseguiva verso Susak. Dall’imbarcazione, visivamente, l’effetto gli parve quello di uno tsunami. La schiena dell’onda cancellò la spiaggia, il molo, il club e tutto il paese basso. Per un istante le uniche cose che restarono furono il paese alto, inerpicato sulla piccola altura di sabbia, le canne di bambù, importate qualche secolo prima per impedire che con il passare del tempo la sabbia dell’isola venisse inghiottita dal mare. E più in alto, bene in vista, l’immancabile bandiera croata, perennemente alzata sul pennone posto sul piccolo altopiano, in prossimità del faro, a dominare l’imbocco del porto.

    Pochi secondi e poi l’onda chiuse il suo breve gioco di prestigio, tornando a mostrare l’isola per intero. A Leonida quel piccolo inganno visivo piaceva: gli aveva sempre fatto pensare al devastante effetto di un’onda anomala. Per quanto fosse consapevole che un fenomeno del genere nel mare Adriatico fosse un evento fortunatamente improbabile, quando si trovava a Susak di tanto in tanto quel pensiero faceva capolino nella sua testa. L’isola era talmente piccola che persino uno tsunami di modeste dimensioni sarebbe riuscito a sommergerla completamente, senza lasciare scampo a nessuno. L’acqua avrebbe invaso il paese basso che si era sviluppato a livello del mare e da quasi un secolo era il cuore dell’isola, ma anche il paese alto, la parte storicamente più vecchia, non avrebbe potuto rappresentare un rifugio. La piccola altura su cui sorgeva, si raggiungeva in pochi minuti, percorrendo meno di duecento gradini. Dalla cima si poteva arrivare a un altopiano non molto esteso, coltivato in parte a vite, oggi meno che una volta. I due estremi del pianoro erano ben visibili dal mare, tanto che Leonida poteva racchiuderli in un unico sguardo, da una parte la vecchia cappella, dall’altra il faro: due punti distanti tra loro non più di una quarantina di minuti a piedi.

    Susak, insomma, era poco più di un sasso coperto di rena. In tutto le abitazioni potevano arrivare a duecento, più numerose della popolazione che ormai era in calo progressivo. D’inverno, sull’isola restavano circa cinquanta persone, la maggior parte delle quali erano anziane. I bambini ormai erano una rarità: l’unica classe della scuola era composta da cinque alunni, tra i sei e i dieci anni, e presto anche le elementari sarebbero state chiuse.

    Non nascevano più bimbi perché non c’erano più giovani che si fermavano a vivere lì. Non c’era lavoro, se non quello stagionale del turismo o quelli duri ed economicamente instabili delle vigne e della pesca. I due impieghi all’ufficio postale erano appannaggio delle donne del paese, così come la biglietteria del traghetto apparteneva ormai da qualche generazione a una delle famiglie storiche, mentre il negozio – l’unico negozio aperto anche d’inverno dell’isola – era gestito da quarant’anni dalla stessa persona.

    L’isola era dunque destinata a morire lentamente, svuotandosi di anno in anno. Morte per apatia, la definiva sempre nei suoi pensieri Leonida. Perché, questo era l’assurdo, quell’isola aveva tutto per poter permettere ai suoi abitanti di vivere, e di farlo bene.

    Susak era l’unica isola di sabbia di tutta la Croazia. Una specie di eccezione geologica. Non solo un’isola con due belle spiagge, una delle quali, Boc, all’apparenza uscita da un catalogo turistico caraibico, ma era proprio il nucleo dell’isola a essere in buona parte composto da sabbia. Come se qualcuno avesse prima creato una cornice rocciosa di scogli per riversarvi dentro tonnellate di rena, arrivata chissà quando e chissà da dove. Persino i sentieri che salivano dal paese basso a quello alto erano letteralmente scavati nella sabbia. Si camminava in gole tra pareti di sabbia dure e compatte. Tanto da poter essere incise e scolpite.

    Le acque attorno poi, protette come parco marino nazionale, erano uno spettacolo. Lì tra la fine di settembre e dicembre, si pescavano calamari tra i più rinomati di tutta la Nazione.

    Sull’altopiano da anni si coltivavano vigneti che permettevano una buona produzione di vino, anche se di qualità non eccelsa, mentre crescevano selvaggi, asparagi dal sapore forte e amaro, ricercati persino all’estero.

    Susak era nota anche per i suoi prodigi: era l’isola della fertilità. Ancora oggi, da lontano venivano coppie alla ricerca di un piccolo aiuto, trovandolo più spesso di quanto la logica o la scienza potessero spiegare. Forse il fenomeno, più che alla magia, era riconducibile alle proprietà terapeutiche dell’isola, sfruttate in passato anche con la creazione di un centro di cure e riposo – sorto attorno al 1800 – andato poi distrutto e mai recuperato. Ma ancora oggi molti croati arrivavano sull’isola per fare sabbiature, scavando alla ricerca di quella rena nera e sulfurea che anche i bambini trovavano facilmente realizzando le immancabili buche per i giochi sulla spiaggia.

    Insomma, Susak aveva in sé gli anticorpi alla propria senile malattia. Non occorreva essere visionari imprenditori per capire che quell’isola aveva enormi potenzialità per attirare turisti alla ricerca di natura selvaggia e biodiversità. Eppure, l’isola stava morendo, incapace di reagire a un destino che appariva chiaro ai suoi stessi abitanti. Del resto, era proprio loro la colpa. Erano loro il virus che aveva attaccato quel luogo, privandolo a mano a mano delle sue forze, impedendo agli anticorpi di agire.

    In fondo, Susak era lo specchio dell’intero problema balcanico. Un territorio capace – anche alle soglie del XXI secolo – di insanguinare l’Europa con uno dei più cruenti e inconcepibili conflitti contemporanei. Fratello contro fratello, vicino contro vicino. In una guerra tribale, politica e pretestuosamente religiosa. Susak si era salvata rimanendo ai margini di quel conflitto, per quanto alcuni tra i suoi abitanti vi avessero preso parte, ma l’isola e la sua popolazione ben rappresentavano – almeno agli occhi di Leonida – le logiche di quella autodistruttiva brutalità.

    Guardando il paese, con le sue case una accostata all’altra come baluardi contro il freddo, la furia del mare e i venti che soffiavano forti e impietosi, costruzioni separate da strette vie dove a malapena si poteva spingere una carriola, si poteva avere l’impressione di una comunità compatta, come quelle secolari abitazioni in pietra. E invece, si sarebbe trattato di un inganno. Per quanto le viuzze del paese fossero strette, erano linee di confine che separavano profondamente gli uni dagli altri. Una cinquantina di abitanti divisi in piccoli clan familiari, ammesso che i legami di sangue stessi non fossero stati rotti da faide interne. Pronti a cooperare di fronte alla grande necessità forse, ma altrettanto pronti ad accoltellarsi alle spalle in nome di atavici odi, le cui ragioni spesso si perdevano nel passato senza poter più essere spiegate. Se non perché il trisavolo di qualcuno aveva ingravidato la capra di qualcun altro, come diceva spesso scherzando Leonida.

    Erano queste le piccolezze umane che stavano uccidendo l’isola. Un paradiso dalle enormi potenzialità, dove poche decine di adulti non riuscivano a collaborare, nemmeno per garantire un futuro ai loro figli. Rancore, invidia, odio, gelosia crescevano sull’isola forti e rigogliosi quanto gli asparagi selvatici, carichi dello stesso amaro sapore.

    La guerra di Susak, o Sansego se si usava il nome italiano, si consumava nell’egoismo, senza apparenti spargimenti di sangue, ma con centinaia di vittime.

    Leonida Lucomagno però amava quell’isola, era finito là casualmente dieci anni prima. Se ne era innamorato dal primo istante, sbarcando dal piccolo e poco rassicurante traghetto che la collegava a Lussino. Mentre la nave si accostava al porticciolo con il suo carico di varia umanità e vettovaglie, un affresco gli era entrato nel cuore fin dal primo sguardo: l’immagine delle decine di persone in attesa sul molo, delle carriole pronte ad accogliere acquisti e valigie, insieme ai quattro trattori con i loro piccoli rimorchi, gli unici mezzi a motore di tutta Susak, fatta eccezione per una moto e un piccolo automezzo elettrico.

    Quel giorno, camminando lungo il percorso in pietra che costeggiava il piccolo molo e portava al paese, Leonida aveva avuto l’impressione di intraprendere un viaggio a ritroso nel tempo. E non si era trattato di un inganno. La vita sull’isola era ancora lontana dagli agi e dalla consuetudine della modernità. Anche adesso che la connessione internet era arrivata via wi-fi fino alle case degli abitanti, la linea era talmente ballerina e alterna da consentire a Leonida di preservare sull’isola il bene per lui più prezioso: la possibilità di staccare totalmente dal convulso mondo che assediava quello scoglio al di là del mare.

    Una pace fittizia e illusoria, dato che erano sufficienti cinquanta minuti di traghetto per lasciarsi alle spalle la poesia di Susak, e immergersi nel consumismo turistico di Lussino, con i suoi locali e i suoi yacht.

    Dal giorno del suo arrivo Leonida aveva eletto l’isola a suo personale rifugio. Con gli anni era riuscito a trovarsi una piccola casa, restaurata con il tempo. Sufficientemente grande da poter ospitare un amico o un ospite pagante, abbastanza piccola da mantenere le caratteristiche dell’eremo, del nido. All’inizio per Leonida era soprattutto il luogo dove fuggire d’estate, e qualche rara volta, durante l’inverno o la primavera.

    Ora, da due anni, era anche diventata un’importante fonte di reddito: durante l’estate per l’affitto ai turisti della sua casetta, e durante l’autunno per la pesca e vendita dei calamari.

    La perdita del posto di lavoro – qualcuno avrebbe detto dell’onore – lo aveva costretto a cercare fonti di reddito alternative. L’affitto garantiva almeno tre o quattromila euro a stagione, la pesca dei calamari invece variava di anno in anno, legata anche al movimento dei branchi stessi. Ma nei tre o quattro mesi della stagione di pesca, poteva riuscire ad accumulare più di trecento chili di calamari, rivendendoli poi ad almeno seimila euro. Non era molto, ma era un buon aiuto alla sua personale economia annuale, decisamente crollata nell’ultimo biennio. Meno male che a Milano aveva trasformato il suo vecchio appartamento in un modesto bed & breakfast. Aveva comprato l’immobile quando ancora Leonida poteva essere considerato un giornalista in ascesa per viverci, poi dopo la sua rovinosa caduta, ne aveva cambiato la destinazione d’uso, sfruttandolo grazie ai miracoli di internet e degli affitti brevi a stranieri che per ragioni di studio o lavoro venivano nel capoluogo lombardo. La sua ex abitazione ora gli garantiva un reddito abbastanza solido, che gli fruttava più di millecinquecento euro mensili. Leonida stava a galla insomma, cercando di ritrovare una continuità nella sua nuova vita.

    Da questo punto di vista, per Leonida, Susak era al contempo rifugio spirituale e lavoro.

    Sentì il richiamo secco del filo di nylon che gli scorreva sul dito, quello del bolentino, che ormai muoveva automaticamente dal basso verso l’alto in attesa di agganciare una delle sue prede. Tirò su il calamaro e lo gettò insieme agli altri nella grande scatola di plastica disposta sul fondo della piccola imbarcazione a motore, poi si rivolse al suo compagno di pesca: «Che ne dici, Drago, rientriamo? Il mare si sta alzando e la bora è sempre più forte».

    «Da Leonida, idemo doma» si limitò a dire il vecchio, iniziando a riavvolgere anche i suoi bolentini. Ne usava due in contemporanea con una naturalezza e una tale capacità, da lasciarlo sempre stupito, figlie degli anni passati a ripetere quei movimenti quotidianamente. Era considerato da molti uno dei migliori pescatori della regione, forse dell’intera Croazia, come dimostravano i risultati delle gare di pesca nazionali alle quali aveva partecipato, sebbene lo avesse fatto poche volte. La sua conoscenza del mare e delle sue prede non nasceva però dalla volontà di primeggiare nello sport, erano semplicemente figlie della sopravvivenza.

    Pescare era il suo lavoro e la sua vita.

    Leonida aveva avuto la fortuna di diventare suo amico, e con il tempo allievo. Forse era dipeso dal fatto che quella loro relazione era nata in tempi non sospetti, quando per lui alzarsi all’alba e seguire Drago era solo un modo per passare il tempo, per rimanere ore in silenzio in mezzo al mare, condividendo quei pochi metri galleggianti, ma rimanendo in realtà solo con se stesso, a perdersi nei suoi rimuginii.

    Drago non lo aveva mai vissuto come un potenziale concorrente, ne aveva solo apprezzato la compagnia nonostante gli scambi di parole tra loro si limitassero, sulla barca, al minimo indispensabile. Parlavano di più, ma sempre poco, perché Drago non poteva di certo essere definito un uomo di tante parole, dopo la pesca, la pesa del pescato e lo stoccaggio nei freezer del bottino quotidiano. Solo allora, davanti a un caffè, o più spesso a una pivo c’era spazio per poter chiacchierare tranquillamente. Qualche volta si parlava delle ore appena trascorse, di ciò che avevano visto, degli errori, delle sfide vinte o perse contro le prede di turno. Altre, più raramente, del passato. E quasi sempre di quello di Leonida.

    Drago quasi mai parlava del suo passato, rimasto indissolubilmente macchiato dalla guerra, il conflitto in cui il vecchio pescatore aveva perso il figlio Ivan. Leonida non conosceva le circostanze precise, ma sapeva che quella era la ferita profonda dell’animo di quell’uomo. Il pescatore avrà avuto dieci anni in più di lui, di certo non ne aveva più di sessantacinque. Leonida non aveva mai voluto forzare le loro chiacchierate, si era sempre limitato ad ascoltare le poche frammentarie informazioni che talvolta l’uomo lasciava fuoriuscire dal suo passato, dal suo cuore. Il dolore che Drago chiudeva dentro di sé emergeva con maggior chiarezza, invece, le sere in cui decideva di suonare. Aveva un dono straordinario, quell’uomo il cui volto era segnato da decine di rughe che il mare e il vento avevano scolpito sulla sua pelle, resa ruvida e dura dal sale. Drago non aveva mai studiato musica, ma era in grado di suonare qualsiasi strumento si trovasse in mano. O almeno così pareva a Leonida. Nel corso degli anni l’anziano pescatore aveva raccolto tra le onde del mare diversi strumenti: chitarre, violini, flauti… Strumenti perduti. Forse caduti da qualche barca di turisti, o da qualche traghetto chissà dove. Drago li aveva raccolti come doni del mare e li aveva restaurati con passione. Poi, lentamente, aveva iniziato a capire come funzionavano. E alla fine, aveva imparato a suonarli.

    Quello era l’incredibile dono di quell’uomo dal nome leggendario. E forse, proprio perché si trattava di un dono legato alla sua essenza più intima, capitava che le sere in cui decideva di mettersi a suonare – quasi sempre per sua moglie Irina, e qualche volta per gli amici – la sua musica riuscisse ad aprire anche il suo cuore… Quelle sere erano l’unico momento in cui Drago era apparso a Leonida nudo, privo della sua corazza, che era al contempo la sua protezione e il suo fardello. In quelle occasioni Leonida aveva sentito nella musica tutto il suo dolore, che un paio di volte si era anche concretizzato in silenziose lacrime sul volto di quello che lui considerava il suo maestro di pesca e il suo amico.

    Per rientrare sull’isola occorsero circa venti minuti. Il mare aveva iniziato a ingrossarsi e Drago guidò la barca tagliando le onde sicuro, per ritrovarsi poi a imboccare l’entrata al porto con la giusta inclinazione, senza correre il rischio di finire contro il vecchio molo, semisommerso, o contro quello nuovo, costruito di dimensioni più grandi per permettere l’ormeggio dei nuovi e lunghi catamarani provenienti da Rijeka.

    Passando sotto la nuova struttura in cemento armato salutarono Jadranko che stava imprecando contro il suo trattore, ancora fermo lì sul molo, nonostante la Premuda, il traghetto per Lussino, avesse ormai abbandonato l’isola da almeno mezz’ora, portando via a bordo quanti avevano bisogno di raggiungere la città per sbrigare commissioni, e lasciando invece il suo primo carico di generi alimentari, soprattutto il pane fresco che Jadranko caricava tutte le mattine per portarlo in negozio. O almeno quando le condizioni del mare permettevano alla Premuda la navigazione e l’attracco.

    Quella mattina le casse con il pane erano ancora ferme sul rimorchio, mentre lui imprecava in almeno quattro lingue contro il motore che non voleva riavviarsi. La voce profonda e tonante di quell’uomo dal fisico massiccio e sovrappeso risuonava per tutto il piccolo porto. Drago e Leonida andarono oltre, legarono la barca all’ormeggio, portarono il pesce al deposito, e si salutarono con un cenno, dandosi appuntamento per un caffè al Club, l’unico locale dell’isola aperto tutto l’anno.

    Leonida vi si recò direttamente, ma all’altezza dell’ufficio postale Neda, l’impiegata, gli venne incontro.

    «È passata la suora» disse nel suo italiano incerto «chiede se puoi andare da lei.»

    Leonida rimase stupito di quella comunicazione. Conosceva suor Ivana, naturalmente, come tutti sull’isola, ma era una conoscenza superficiale. La religiosa svolgeva il compito di prima assistenza sanitaria a Susak, per i residenti e per i turisti. Una specie di infermiera da pronto soccorso. Poiché il dottore si recava sull’isola solo raramente, suor Ivana aveva a disposizione l’armadietto dei medicinali del suo studio, situato al primo piano dell’edificio che ospitava il Club, il servizio postale e un ufficio turistico. Il dottore andava a Susak con cadenze ben definite: una

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