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La lancia del destino
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E-book350 pagine5 ore

La lancia del destino

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Info su questo ebook

Maggio 1942. Nelle sabbie del Nord Africa, un plotone di soldati britannici scopre una tomba contenente una corona di spine e la leggendaria lancia del destino. È l’ultimo luogo di riposo di Cristo. Sessanta anni dopo uno di quei soldati, Gerald Usherwood, paga il prezzo per il segreto che ha scoperto. Con la gola tagliata, è inchiodato alla parete in una cruda rappresentazione della crocifissione. Sarà suo nipote Ethan, in una sfrenata corsa dall’Europa al Nord Africa – solo un passo avanti a un killer spietato e implacabile – a ricostruire il mistero e scoprire il tesoro nascosto per così tanti anni.
LinguaItaliano
Data di uscita28 set 2017
ISBN9788863937503
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    Anteprima del libro

    La lancia del destino - Daniel Easterman

    MISTÉRIA

    frontespizio

    Daniel Easterman

    La Lancia del destino

    ISBN 978-88-6393-750-3

    © 2014 Leone Editore, Milano

    Titolo originale:

    Spear of destiny

    © 2009 by Daniel Easterman

    Published in Great Britain by Allison & Busby Ltd

    Traduzione: Lisa Franchini

    www.leoneeditore.it

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in modo fittizio. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

    Alla donna del mio destino, mia moglie Beth,

    con amore, la sua antica reliquia

    PROLOGO

    Woodmancote Hall

    Nei pressi di Bishop’s Cleeve

    Gloucestershire

    Inghilterra

    Dicembre 2008

    Quell’anno il Natale era arrivato a Woodmancote su ali di ghiaccio, in un turbinio di neve che si accumulava alta contro le pareti di pietra e le porte del fienile della fattoria di Hamberley. Era stato un inverno tardivo, ma una volta iniziato si era abbattuto sul paese con violenza eccezionale, trasformando il cielo autunnale in una sterminata distesa irregolare di nuvole artiche. Su Radio 4 sostenevano che fosse colpa del riscaldamento globale e al pub Cap in Hand vecchie teste canute annuivano in segno di assenso, affermando che non c’erano più le stagioni di una volta. Erano gli anziani del luogo, che avevano molti inverni alle spalle e avevano festeggiato fin troppi Natali.

    La neve ricopriva i campi, i tetti e le siepi di uno spesso strato di velluto bianco e giorno dopo giorno non accennava a diminuire. Quando fu caduto anche l’ultimo fiocco, ci furono notti limpide illuminate dalla luce della luna, delle stelle e dei lampioni accesi; notti in cui il candore della campagna assumeva riflessi argentei; notti così fredde che gli uccellini cadevano dagli alberi e le bacche congelavano e si frantumavano sui rami. Molti animali morirono quell’inverno, le pecore nei campi aperti, gli scoiattoli nelle tane ricolme di ghiande, i gufi tra la solitaria oscurità degli alberi.

    Durante la settimana che precedeva il Natale, Woodmancote Hall risplendeva di luce abbagliante. Era la luce di lampade e candele, di una ventina di focolari accesi, una dozzina di candelieri e un migliaio di lucette bianche che brillavano sugli alberi e intorno ai camini. Dall’interno della villa proveniva la musica attutita delle tradizionali cantiche natalizie inglesi, interpretate dal coro del King’s College: Once in royal David’s city, Silent night, Remember, o thou man

    Vista da fuori, oltre il prato orientale, o dalla vasta distesa di campi di Parget’s Meadow, la dimora sembrava quasi una grossa nave da crociera che solcava mari innevati, un luogo allegro e confortevole, un rifugio dalle tetre nottate invernali.

    Il vecchio Gerald Usherwood, signore e padrone della tenuta di Woodmancote che apparteneva alla sua famiglia da settecento anni, da giovane era stato al servizio del re. Quello era il suo ottantatreesimo Natale e, il giorno seguente, sarebbe stato il suo ottantaquattresimo compleanno. La musica e le luci erano in suo onore: era stata organizzata una grande festa, che si sarebbe prolungata per tutte le vacanze natalizie e avrebbe celebrato sia il giorno della sua nascita, sia il premio Nobel per l’economia che aveva ricevuto durante la cerimonia a Stoccolma due settimane prima.

    Tutta la famiglia si era riunita per il grande evento. Nonostante fosse molto imponente, Woodmancote Hall non era una villa poi tanto grande, e con le sue dieci camere da letto e le stanze nell’attico sistemate in tutta fretta per l’occasione non era certo sufficiente ad accogliere una simile tribù di nonni, genitori, figli, zie, zii e cugini. I ritardatari che non trovavano posto in casa o nel casottino d’ingresso in cortile dovevano accontentarsi di affittare una stanza in paese o a Bishop’s Cleeve. L’assegnazione delle stanze aveva causato non pochi grattacapi al figlio maggiore di Gerald, George, il quale, assieme alla moglie Alice, si era occupato dell’organizzazione di quella grande festa di famiglia.

    Si erano riuniti per l’occasione quattro diversi rami di Usherwood, alcuni Drayton, una mezza dozzina di Cornwallis, i Greville di Canterbury, uno o due Ellis, i gemelli Naseby e un paio di lontani cugini di Madeira che non mettevano piede in Inghilterra da più di quarant’anni. Alcuni erano arrivati anche da più lontano, dagli Stati Uniti o dal Canada. C’era l’unico fratello ancora in vita di Gerald, Ernest, tormentato dal cancro, ma determinato a vivere almeno un altro anno. C’era, in forma smagliante, Chips Chippendale, il suo vecchio commilitone, reduce come lui dalla campagna del Nordafrica, durante la quale avevano servito nel Long Range Desert Group, l’unità sahariana dell’esercito britannico. C’erano quattro dei suoi cinque figli, che si erano presentati insieme a mogli e bambini con grande orgoglio. Sarebbe stata una festa grandiosa, per organizzare la quale era stata spesa una grossa fetta del premio in denaro assegnato con il Nobel.

    Con il passare dei giorni, tra i preparativi per il pranzo di Natale e del compleanno, gli ospiti continuarono ad arrivare e a sparire come fantasmi, un momento erano lì e quello dopo erano scomparsi, intravisti a malapena dietro una porta che si richiudeva. Portavano con sé molti regali e reclamavano una foto ricordo assieme al padrone di casa. I bambini, infervorati dallo spirito natalizio e da una festa apparentemente senza fine, scorrazzavano allegramente più o meno timidi tra gli antichi corridoi e le strette scale della dimora, come i protagonisti del romanzo di Alain-Fournier nel castello dimenticato.

    Uno degli ultimi ad arrivare fu Ethan Usherwood, immediatamente dopo suo padre Guy, il figlio minore di Gerald. Ethan si era presentato la sera della vigilia di Natale, dopo un viaggio in macchina direttamente da Quedgeley, appena fuori Gloucester. Tra tutti gli Usherwood, Ethan era quello che viveva più vicino a Woodmancote, dove spesso era ospite benvoluto. Era ispettore capo presso la polizia del Gloucestershire ed era riuscito a presentarsi in tempo per l’inizio della festa solo grazie a numerosi favori concessi, a qualche regalo di Natale azzeccato e alla promessa di fare lunghi straordinari a gennaio. Il caso di omicidio su cui stava lavorando era a un punto morto e non gli era dispiaciuto affatto metterlo da parte durante le feste.

    «Scusa, nonno» disse presentandosi da Gerald nella sala Bentham, il lussuoso salone principale di Woodmancote dai rivestimenti in legno di epoca elisabettiana e con un autentico caminetto Grinling Gibbons. Quel giorno la stanza era arredata a festa con ogni tipo di decorazione immaginabile. Dalle pareti pendevano lunghi festoni di edera, agrifoglio, vischio e rametti di bacche di ginepro, a cui erano appese centinaia di palline dorate che facevano contrasto con il verde scuro delle foglie. Alla cornice del camino erano appese le calze e sui tavolini disposti in punti diversi della stanza erano posate bottiglie di liquore di prugne fatto in casa, preparato con amore molti mesi prima da Gerald e pronto come ogni anno per essere bevuto durante le festività natalizie e portare calore, allegria ed ebbrezza.

    «Dovrei stenderti sulle mie gambe e sculacciarti, giovanotto» rispose Gerald con gli occhi che brillavano. Ethan sapeva bene quanto fosse imprevedibile suo nonno, avrebbe potuto considerare il suo ritardo un affronto personale. «Ogni anno la stessa storia, sei sempre l’ultimo ad arrivare e il primo ad andarsene.»

    «Una sculacciata costituirebbe un’aggressione a pubblico ufficiale. Non vorrai farti arrestare e trascorrere al fresco la vigilia di Natale.»

    Gerald gli diede una pacca sulla spalla. Evidentemente quella sera era di buon umore. Ethan gli sorrise. Se si fosse trattato di qualcuno di più giovane, lo avrebbe abbracciato, ma non poteva farlo con suo nonno.

    «Vieni con me. Assaggia il liquore di prugne» disse Gerald, afferrandolo per una manica e trascinandolo a un tavolo a lato del camino, vicino al presepe. «Quest’anno è venuto meglio del solito» continuò. «Ci sono stati frutti più grossi, maturati in anticipo. Abbiamo avuto più tempo per farli macerare. È bello forte.»

    Ne versò un bicchiere al nipote e aspettò il suo responso. Ethan ne bevve un sorso e annuì con entusiasmo.

    «Davvero buono» disse e ne bevve ancora. «Proprio quello che mi ci voleva, dopo aver guidato fin qui. Si gela, là fuori.»

    «Non ti avevo detto di portare la tua donna, figliolo?»

    Ethan visualizzò nella sua mente un dito inquisitore e si ricordò dei Natali passati: «Perché non hai portato con te quel tuo compagno di classe?… Dov’è tua sorella?… Dov’è la ragazza di cui ho tanto sentito parlare?… Dov’è tua moglie?».

    Eh già, pensò Ethan: dov’è mia sorella? E dov’è mia moglie? Gli venne in mente una strofa di Byron che avevano citato al funerale di Abi.

    Così peristi, giovane e bella,

    creatura di origini mortali,

    di aspetto e fascino sì teneri e rari,

    troppo presto restituiti alla terra!

    Avevano utilizzato gli stessi versi anche ai funerali di Pauline, diversi anni prima. Sua sorella, più giovane di lui di due anni, era morta di leucemia quando ne aveva quindici. Prima di ammalarsi, era la prediletta di tutti e le era stato preannunciato un roseo futuro. Ma adesso tutto questo era stato seppellito da un tumulo di terra e da una pietra con inciso il suo nome.

    Abigail aveva venticinque anni quando era morta, otto anni or sono. Lui ne aveva trenta. Ancora adesso, a quasi quarant’anni, non riusciva a sopportare la solitudine del risveglio al mattino o i momenti che precedono il sonno. In quegli attimi solitari, il pensiero di lei gli si insinuava nella mente come un lungo verme senza fine.

    «Non ho la ragazza, nonno.»

    Gerald si accigliò.

    «Pensavo…»

    «Pensavi male. Le donne non durano a lungo attorno a me. Sono sposato con il mio lavoro, lo dicono tutti.»

    «A un uomo serve una donna, ragazzo. Dovresti averlo capito, ormai. Anche quando ci trovavamo nel deserto in missione, appena tornati alla base ci dirigevamo subito a Berka, il quartiere a luci rosse del Cairo, oppure trascorrevamo una bella serata con qualche ragazza del Mechanised Transport Corps. Non devi per forza innamorarti, sai.»

    Ethan sorrise senza dir niente. Le donne erano una della ossessioni di suo nonno. Era stato sposato con sua moglie Edith per più di quarant’anni, ma ciò non gli aveva impedito di farsi una serie di amichette. Edith era morta quindici anni prima, dicendo che lo perdonava, e da allora pare che lui non avesse più frequentato una donna.

    Si avvicinò uno dei nipoti, un Ellis a giudicare dall’aspetto, e portò via con sé Gerald. Ethan restò vicino al presepe, una bella produzione in stile Arts and Crafts con pezzi di manifattura italiana. Suo padre lo vide e lo trascinò con sé tra la folla di zie e cugini, la metà dei quali non aveva mai conosciuto prima.

    Dopo cena i bambini più piccoli, in stato di grande eccitazione e tutti presi dal pensiero del camino e di un uomo dalla barba bianca, furono mandati a letto o portati in paese. Il resto degli invitati si accomodò nel salone con le antiche poltrone, i divani e le sedute vicino alle finestre. Vecchie amicizie furono rinfocolate e antiche liti vennero messe da parte o riattizzate.

    «Tu devi essere Ethan» disse una voce non lontana. Si voltò e vide una donna in piedi accanto alla sua sedia. Aveva i capelli scuri e non dimostrava più di trent’anni. Non la riconobbe, eppure in lei c’era un qualcosa di familiare. Si alzò in piedi.

    «Temo di sì» disse. «E tu devi essere…»

    Lei scoppiò a ridere.

    «Non ne hai la più pallida idea, vero?»

    Lui fece cenno di no con la testa.

    «Hai un volto familiare, ma non penso di averti mai incontrato prima.»

    «Certo che si siamo incontrati. Pensaci bene.»

    Le esaminò bene il viso. Aveva i capelli scuri tagliati corti, vivaci occhi verdi, guance pallide e una bocca bella piena che sembrava fatta di ciliegie. Mentre si sforzava di capire chi fosse, si accorse che non stava affatto facendo appello alla propria memoria, ma stava lottando contro il segreto fascino che la luminosità e la bellezza del volto di lei esercitavano su di lui, risvegliato forse da un antico passato.

    «Sono Sarah» disse lei. «Tua nipote, nel caso te ne sia dimenticato. L’ultima volta che ci siamo visti avevo dieci anni. I tuoi genitori ti avevano portato da noi a Canterbury e io ti trovai tremendamente affascinante. Ho avuto una cotta per te per intere settimane, per me eri una creatura divina alla pari di Mr Boko, il mio pony.»

    Lui la guardò di nuovo e all’improvviso gli riaffluirono in mente vecchi ricordi, soprattutto il pony pezzato dal respiro affannoso.

    «Sei molto cambiata.»

    «Grazie.»

    Lui scosse la testa.

    «Non ho detto che sei cambiata in meglio.»

    «Ethan, quando avevo dieci anni ero una ragazzina goffa con i denti disastrati. Persino il vecchio Boko aveva un aspetto migliore del mio. Sono certa di essere migliorata molto da allora.»

    Ripensò all’impressione che si era fatto a quel tempo, quando lei aveva dieci anni e lui venti.

    «Hai ragione, sei decisamente migliorata.»

    La guardò con ammirazione. Se solo anche il resto della famiglia fosse così elegante e posato, pensò.

    «Siediti pure» disse lei. «Porterò qui una sedia. Abbiamo diciotto anni da recuperare.»

    Due ore più tardi, avevano ripercorso all’incirca dieci anni e si stavano accingendo ad affrontare i successivi otto, quando il padre di Ethan si alzò in piedi.

    «Sono le undici e mezzo, gente. Quelli che vogliono assistere alla messa di mezzanotte faranno meglio a sbrigarsi. La chiesa di St Benedict è piuttosto piccola e ci saranno solo posti in piedi, se arriviamo tardi.»

    Come risvegliate dalle parole di quel re magio vestito di tweed, le campane della chiesa parrocchiale iniziarono a risuonare nella notte altrimenti silenziosa. Sembrava quasi che gli angeli fossero scesi sulla Terra. O meglio, ripensandoci a posteriori, demoni travestiti da angeli.

    Dopo che ebbero recuperato cappelli e cappotti e indossato le galosce lasciate all’ingresso, formarono dei piccoli gruppi. La strada che separava la villa dalla chiesa era stata spazzata dalla neve qualche ora prima. Mentre i più anziani chiedevano un passaggio, tutti quelli sotto i sessanta si incamminarono a piedi e subito si formò una serpentina di devoti lungo il sentiero ghiacciato, illuminato dai raggi della luna riflessi sui ghiaccioli e intensificati dalla neve. Più avanti le luci della chiesa somigliavano a un faro che risplendeva su un mondo tornato a uno stato virginale e più vicino a Dio. Persino il folto gruppo di agnostici rabbrividì, non per il freddo, ma per la pura bellezza della scena. Mentre si avvicinavano alla chiesa, il suono dei canti li raggiungeva tra la neve.

    Sarah prese sottobraccio Ethan e restò in piedi assieme a lui in fondo alla chiesa per tutta la durata della cerimonia. Il coro parrocchiale cantò magistralmente cantica dopo cantica musiche medievali inframezzate ad arie più moderne, le voci amplificate dall’eco delle navate affrescate, come se quella sera in tutto il mondo si fosse diffusa la pace. Il loro canto sfidava l’oscurità e il freddo, la miseria più nera e il dolore più intenso. La nascita di un Dio bambino sembrava esorcizzare tutti i mali della Terra, tracciare una linea a separare passato e presente, oscurità e nuova luce.

    Ethan ammirava e ascoltava, unendosi al coro degli inni al momento opportuno, ricordando e cercando di dimenticare. Sarah gli stringeva il braccio. Sapeva dei suoi demoni, dell’eterna notte che gettava ombra sulle sue giornate. E anche se non credeva negli angeli, nelle potenze o nei principati, né adorava un Dio nato in una mangiatoia, pregò per lui.

    Gerald e il suo vecchio amico Chips erano rimasti alla villa, assieme a una mezza dozzina dei parenti più anziani. Dopo aver lasciato gli altri al loro bridge, i due vecchi soldati si ritirarono al piano di sopra nello studio di Gerald. Era la prima volta che Chips metteva piede in quella stanza in disordine in cui il padrone di Woodmancote conservava i ricordi di una vita, alcuni sparsi su tavoli e scrivanie, altri chiusi in vetrinette scure o nascosti nei cassetti. Le pareti erano occupate dal pavimento al soffitto da scaffali ricolmi di libri disposti alla rinfusa. C’erano volumi di ogni colore, forma e dimensione; alcuni erano in piedi e ordinati sulle mensole, ma sopra ce n’erano a dozzine messi in orizzontale. Sul pavimento, pile di libri ricordavano lunghe stalagmiti, o formavano alte torri; altre erano miseramente crollate come per colpa di un terremoto. Lo studio era il santuario della casa, un rifugio in cui pochi al di fuori della famiglia venivano ammessi.

    Ai lati di un ampio camino c’erano due vecchie poltrone malandate e ormai ben poco confortevoli, a dire il vero, ma che davano alla stanza un’aria di familiarità e accoglienza. I due vecchi commilitoni vi si accomodarono. Nel frattempo, Gerald aveva preso una bottiglia del suo adorato Benromach e l’aveva posata sul tavolinetto posto tra loro. La signora Salgueiro, la governante portoghese, vi aveva sistemato poco prima due bicchieri e una brocca d’acqua.

    Erano passati più di dieci anni dall’ultima volta che si erano visti. Nel frattempo, alcuni dei loro vecchi amici si erano ammalati, altri erano morti. Non organizzavano più riunioni annuali, non se ne teneva una da anni. Ricordi un tempo nitidi stavano ora svanendo, ma nonostante molti eventi del passato fossero ormai nebulosi nelle loro menti, entrambi ricordavano come se fosse ieri ciò che avevano vissuto insieme nei deserti del Nordafrica. Mentre parlavano sorseggiando whisky e tirando boccate di fumo dalle loro pipe, rievocavano quel passato, che si ripresentava vivido ai loro occhi. I ricordi di Gerald facevano da apristrada agli aneddoti raccontati dall’amico e la collezione di vecchie battute colorite di Chips li riportava indietro ai lunghi giorni e alle notti in cui la morte sembrava accompagnarli a ogni passo, mentre il verificarsi di un momento come quello che stavano vivendo appariva al di fuori di ogni possibilità.

    «Le hai ancora con te?» chiese Chips dopo il terzo bicchiere di whisky.

    Gerald annuì.

    «Sono proprio qua» disse. «Dove sono sempre state.»

    «A chi le lascerai?»

    Scosse le spalle.

    «Non lo so, non ci ho pensato. Forse a un museo. Non te lo so dire.»

    «Sai che ne abbiamo già parlato» disse Chips, portando il bicchiere alle labbra. Era un uomo alto, ormai un po’ incurvito, ma ancora atletico, come se i suoi muscoli non avessero perso le loro forza e flessibilità.

    «E tu?» chiese Gerald. «E gli altri?»

    Chips scrollò le spalle.

    «Siamo d’accordo che le tenga tu per noi. Ma stai invecchiando, stiamo tutti invecchiando, è giunto il momento di trovare chi le custodisca. Ne abbiamo già discusso tante volte. Adesso dobbiamo prendere una decisione.»

    Gerald guardò il suo vecchio amico. Erano passati così tanti anni, era difficile capire quanto li avessero avvicinati i mesi trascorsi insieme a combattere. Tutti quanti loro si erano fatti forza l’un l’altro per affrontare la terribile disumanità della guerra e le cicatrici indelebili che lasciava.

    «Vuoi dire stanotte?» mormorò Gerald. «Pensavo che potremmo aspettare la fine delle feste, quando se ne saranno andati tutti. Forse Donaldson riuscirà a venire, e magari anche Skinner. Li ho invitati entrambi, ma le strade erano bloccate, forse non ce l’hanno fatta ad arrivare. Tu sei stato fortunato.»

    Chips si passò una mano sulle guance, l’ombra della barba gli grattava le dita. Se l’era fatta crescere quando era giovane, ma l’aveva rasata più in là negli anni, quando aveva iniziato a mostrare tracce di bianco e di grigio.

    «Che ne dici della ragazza?» chiese.

    «Ragazza? Che ragazza?»

    «Non fare il finto tonto. Quella che ho visto stasera. Sai perfettamente quale ragazza intendo.»

    Gerald annuì.

    «Qualche volta me ne dimentico. Ci sono state così tante ragazze. A ogni modo, non è più una ragazza, è una donna adulta. Credo che tu lo abbia notato.»

    «Ne sa qualcosa?»

    Gerald si versò un po’ d’acqua e bevve nervoso. Il fegato gli aveva fatto brutti scherzi ultimamente e il dottor Burns gli aveva ordinato di andarci piano con gli alcolici. Scosse la testa.

    «No» disse. «Non ancora. Non gliel’ho detto, non è ancora pronta. Quando sarà il momento, vecchio mio. Lo sai.»

    Con le guance arrossate, i capelli ricoperti di brina gelata e il respiro che usciva in nuvolette di vapore dalle loro bocche, gli ospiti fecero ritorno a Woodmancote Hall. Arrivavano a gruppi di due e di tre, ridendo e parlando animatamente, presi dallo spirito natalizio. Ethan si accompagnò nuovamente a Sarah, che lo teneva stretto per braccio, temendo di scivolare negli stivali Wellington troppo grandi che aveva deciso di indossare per quella passeggiata. Nella sua testa risuonavano ancora i canti di Natale, e le sue labbra, viste alla luce dei lampioni, erano blu per il freddo. Chiacchierava spensieratamente, rispondeva alle domande di lui e stimolava la sua curiosità. Parlarono di libri, film e viaggi, di genitori e cugini, della miriade di volte in cui le loro strade si erano quasi incrociate. Era troppo presto per parlare della defunta moglie di lui o del fratello di lei, internato in un ospedale psichiatrico a ventun anni e probabilmente destinato a trascorrere lì il resto della sua vita. Una sorta di istinto o di coscienza che avevano sviluppato durante le avversità diceva loro che più tardi avrebbero avuto modo di discuterne.

    All’interno della villa era tutto un gran sbuffare, affannarsi e sbattere i piedi congelati. La neve calpestata ricopriva i tappetini d’ingresso e iniziava a sciogliersi.

    La signora Salgueiro aveva riscaldato i pasticci di carne e aveva servito il vin brulé in salotto. Gli adulti si affollarono intorno al tavolo, affamati per il freddo e per la fatica di restare a lungo in piedi sulle pietre spoglie della chiesa. I ragazzi che li avevano accompagnati furono mandati nelle loro camere, dove li attendevano sformati caldi, ginger ale, calze piene di dolci e un sonno ristoratore.

    Gli adulti, che non avevano dalla loro quel sentimento di aspettativa a rinfrancarli, soffrivano molto di più gli effetti dell’età, dell’abbuffata e dell’ora tarda rispetto alla loro prole. Inoltre, seduti intorno all’albero di Natale illuminato in un ambiente così confortevole e in quella che era, per la maggior parte, una buona compagnia, furono sopraffatti da un forte senso di nostalgia. Avrebbero voluto andarsene a dormire, eppure qualcosa li spingeva a rimandare quel momento. Uno per uno, alla fine si arresero.

    Ethan accompagnò Sarah alla sua stanza al piano di sopra.

    «Grazie, Ethan» disse lei. «Sei stato molto gentile con questa tua povera parente.»

    «Sarah» la riprese lui «sono un poliziotto, non un banchiere.»

    «Sarà, ma io sono una studiosa, il che significa che sono povera in canna.»

    Era la prima volta che accennava al suo lavoro.

    «Non lo sapevo.»

    «Ho finito il mio dottorato un anno fa, quindi adesso sono una ricercatrice con poche prospettive. Potrò ottenere una cattedra a cinquant’anni, se sarò fortunata. Ora, con il tuo permesso, me ne vado a letto. A essere sincera, credo che crollerò. E penso che lo farai anche tu. Il che significa che non vedremo Babbo Natale.»

    Ethan si chinò e la baciò teneramente sulla guancia, Sarah arrossì e gli diede la buonanotte prima di ritirarsi nella sua stanza.

    Non è dato sapere se Babbo Natale sia passato di lì quella notte, dato che l’intera dimora fu svegliata prima del previsto, all’incirca alle cinque e mezzo, da un urlo lancinante, seguito a ruota da una serie di strilli che cedettero il posto, dopo diversi secondi, a singhiozzi disperati e, infine, al silenzio. Nelle loro stanze gli ospiti balzarono nei letti, fatta eccezione per quelli dal sonno più pesante. Ethan fu il primo ad alzarsi e ad arrivare in corridoio.

    Le urla, ne era sicuro, non provenivano dalle stanze vicine e neanche dalle camere dell’attico. Piuttosto dal basso, al secondo piano. Con indosso solo una vestaglia leggera e tremando per il freddo, si affrettò per le strette scale. Aveva appena iniziato a scenderle, quando sentì altre porte aprirsi nel corridoio dietro di lui.

    Oltrepassata la soglia che dava sul piano inferiore, si rese conto che nella casa si stava diffondendo una grande agitazione. Le porte di molte stanze da letto erano spalancate e una mezza dozzina di ospiti, tutti uomini in pigiama o vestaglia da notte, si erano riuniti intorno a una donna sconvolta dai singhiozzi. Il padre di Ethan stava cercando di calmare la signora Salgueiro, che aveva i bigodini nei capelli ed era ben avvolta nella veste da camera che la difendeva dal freddo. Di tanto in tanto, urlava qualcosa in portoghese e poi ricominciava a singhiozzare.

    «Ai, que medo! Que susto! Os pobres homens!»

    Guy Usherwood, non capendo una parola di quel che diceva, sospirò di sollievo vedendo avvicinarsi suo figlio.

    «Papà, che succede?»

    «Non lo so. Non riesco a farla parlare in inglese. È sotto shock, questo è evidente. Guardala: è bianca come un lenzuolo e trema tutta.»

    In quel momento un’altra porta si aprì e Sarah spuntò nel corridoio. Indossava una camicia da notte nera dai bordi dorati e aveva i capelli scompigliati dal sonno. Vedendo tutto quel trambusto, si avvicinò alla donna in lacrime, la prese tra le braccia e, mormorandole parole di conforto, cercò di tranquillizzarla.

    A poco a poco, i singhiozzi si calmarono e la signora tornò in sé.

    «Senhor Usherwood! Il suo amico. No gabinete… Nello studio. Vi prego…»

    Scoppiò di nuovo a piangere, coprendosi il volto con le mani, come per risparmiare ai suoi occhi una vista spaventosa.

    Il padre di Ethan, il membro più anziano della famiglia lì presente, fece per entrare nella stanza, ma Ethan lo fermò.

    «Papà, è ovvio che è successo qualcosa. Il nonno potrebbe aver avuto un infarto. Io sono abituato a questo genere di cose, lascia che entri per primo.»

    Suo padre esitò per un istante, poi si fece da parte. Ethan posò una mano sulla maniglia e la girò con esitazione. Se fosse successo qualcosa a suo nonno, gli si sarebbe spezzato il cuore. Fece un passo nella stanza e si chiuse la porta alle spalle.

    Un paio di lampade erano rimaste accese, ma il fuoco del camino si era esaurito, lasciando la stanza fredda e poco illuminata. Ai suoi occhi ci vollero alcuni secondi per abituarsi. Ethan allungò la mano a cercare un interruttore

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