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Il canto del disperato
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E-book272 pagine3 ore

Il canto del disperato

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Info su questo ebook

Di ritorno al paesello montano (dopo tre anni di carcere), Federico scopre la propria casa venduta e la fuga della madre. Costretto a divenire un povero tapino, s'imbatte presso una costa lacustre in un samaritano che lo esercita presso un dancing. Durante uno spettacolo, una banda di malviventi depreda gli avventori. Convinto di avere riconosciuto, tra gli incappucciati, un ex compagno di galera, indaga e lo rintraccia sulle alture gardesane. Egli presiede una confraternita composta da vagabondi, mascalzoni e corpivendole, e cominciano a emergere nella congrega sconvolgenti segreti e vittime. Il miserando avrà altri incontri involontari di un mondo malaugurato, portandosi dietro lo spirito di sopportazione e una certa carica di ribellione pronta a esplodere.
LinguaItaliano
Data di uscita20 apr 2023
ISBN9788869633362
Il canto del disperato

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    Il canto del disperato - Gianmarco Dosselli

    Capitolo I

    Federico scese dall’autocorriera e si guardò attorno: otto edifici residenziali, un’antica edicola religiosa e una vecchia automobile abbandonata e ridotta come un colabrodo e lasciata lì, in un fossato asciutto. Gettò uno sguardo su un pugno d’uomini che affollavano un chiosco di ristoro. Al banco v’era una bruna da capogiro con tette possenti e occhi troppo bistrati. Federico pensò che era meglio stare intanto alla larga dai maschi e si accostò al bancone; poggiò i gomiti sul banco e allungò collo e viso per meglio osservare l’incollatura dei seni della donna.

    «Una birra, per favore.»

    «Vuoi anche dei pop-corn, patatine…» gli sorrise, odiandosi subito per quel sorriso.

    «Solo birra.»

    Gli angoli della bocca del ragazzo guizzarono in uno svelto sorriso.

    Il sorriso della donna ebbe una vena d’amarezza. Lasciò al cliente l’incarico di versare la birra dentro la chope.

    "Vipera!" pensò, scoraggiato. Pagò la consumazione e dette uno sguardo a quel pugno d’uomini seduti al tavolo. Li contattò per uopo.

    «Scusate amici, tra voi qualcuno è residente a Brione?» domandò con fierezza e, dopo una pausa senza ottenere risposta, continuò: «Mi chiamo Federico Ceresera, abito lassù, in quella specie di promontorio…» Silenzio degli avventori. «Non importa; significherà che farò a piedi dieci chilometri di faticosa salita. Comunque, grazie per il vostro silenzio.» concluse, con un’espressione stizzita.

    Il paesaggio era spettacolare: verdi montagne, vaste aree di faggi e di abeti; l’unica strada, stretta e dissestata, percorreva tratti di bosco o s’inerpicava rasentando precipizi quasi vertiginosi. A pollice alzato tentò di avere un passaggio, ma venne ignorato. Così per altre quattordici volte.

    Dopo tre anni non gli pareva vero di poter tornare a casa; ritornare verso il mondo e verso quei luoghi dove aveva vissuto. Tre ‘eterni’ anni senza mai poter sentire il profumo della terra, senza poter allungare lo sguardo oltre quelle mura… Adesso tutto era concluso.

    Tre anni. C’era finito dentro a causa di una rapina in un ufficio postale, un colpo "sui generis" poiché Federico si era presentato sulla soglia dell’ufficio con una pistola giocattolo. Preso dall’agitazione mandò in frantumi con il calcio dell’arma finta il vetro che separava il pubblico dagli impiegati. Si ferì, riuscì ad arraffare alcune banconote e a mettere le gambe in capo. Si era tuttavia procurato un profondo taglio al polso. Decise presentarsi al Pronto soccorso dove venne individuato e arrestato. Al processo si era giustificato ammettendo che aveva un debito abbondante con vari negozianti di paese.

    Nessuno gli andava incontro, nessuno lo aveva riconosciuto sull’autocorriera, nemmeno al chiosco. Col fardello sempre portato sulle spalle, sciupato, nel quale vi erano le cose che aveva tenuto con sé durante quei tre anni di carcere, raggiunse lo spiazzo della dimora natia. Molte signore, per la maggior parte di mezza età, grassocce, in disordine, stavano davanti a una edicola religiosa e intente a chiacchierare in tono concitato, gli occhi accesi.

    Seminando nel proprio orto, un uomo abbronzato, con capelli che tendevano al grigio, guardò sorpreso l’arrivato, grattandosi la testa come per cercare di ricordarsi dove diavolo l’avesse visto prima. Federico avanzò e quasi subito venne fermato da due Schauzer pepe e sale, tremanti di collera e con una zampa sollevata; ciò faceva parte del sistema escogitato dal loro padrone.

    «Salve, Antonio.» disse Federico, fermandosi indietro. Scaraventò la sacca a terra. «Incredibile! Non mi riconosci? Sono Federico. Sono uscito.»

    «Certo che ti riconosco, ma avevo sentito che ne avresti passato di più alle sbarre.» ammise e gli andò incontro, una volta tenuto calme le bestiole.

    «Avrei dovuto scontare ancora dieci mesi, ma hanno deciso che potevo uscire prima. Per buona condotta.»

    «Sono felice che tu sia tornato. Dammi la mano: voglio che te la stringa.» Il dorso delle mani e quel tanto di petto che s’intravedeva sotto la camicia aperta di Antonio, erano coperti di fitto pelo. A una domanda del ragazzo, rispose: «Non posso portare carichi pesanti perché non devo affaticare la spina dorsale. Dimmi… stai andando dove?»

    «A casa. Mia madre non sa; ignora il mio ritorno. Sarà per lei la sorpresa più bella della sua vita.»

    «Ecco… tua madre… è dovuta andare a… Ehm, non saprei come spiegartelo! Insomma lei non è più qui. Andata via.»

    Lo sguardo del ragazzo si fece cupo; i lineamenti duri e fermi.

    «Andata via? Non mi ha scritto nemmeno una lettera e non sapevo altro, di lei, che quanto mi ha detto il mio difensore l’ultima volta che ci siamo incontrati. Qual è la verità inerente alla sua fuga?»

    «Tua madre non ha più resistito con i compaesani. Voleva una vita sua, serena. Assumeva a sé vergogna. In paese ci siamo sempre vantati come gente di buon senso e nessuno, dal dopoguerra, s’è sporcato le mani. Allora gli abitanti guardavano lei con commiserazione come se fosse stata colpevole di chissà che cosa. Così è partita con tutte le sue robe e l’automobile. Non abbiamo notizie di lei da nove mesi. Trovo strano che in carcere non ti dissero nulla.»

    All’improvviso, Federico si sentì assalire da una terribile stanchezza.

    «Mi diceva, l’avvocato, che stava bene, e che stava…» biascicò. «Il suo indirizzo… nemmeno ha lasciato a me. Perché mai? Non capisco perché il mio difensore non me ne abbia mai parlato.» trasalì. Le sue mani ebbero un tremito, ma si dominò subito. «La casa è ancora mia?»

    Antonio accese una sigaretta per sé. Gli avevano detto di non fumare più per qualche tempo, se non voleva farsi venire un tumore ai polmoni, ma lui non sapeva rinunciare. N’offrì una al ragazzo sapendo che n’aveva bisogno in un momento come quello.

    «Venduta a un commerciante cremonese per le vacanze estive per la famiglia. Stamane sarebbero dovuti venire a portare dei materiali edili e altri elementi; il mese venturo arriverà l’impresa edile per la ristrutturazione. Le persiane in legno sono oramai tutte marcescibili. Da quello che ne so, la casa verrà tinteggiata di bianco, cintata da giardini verdi e ben curati, con molti alberi.»

    Federico s’impallidì, molto colpito, come se avesse ricevuto uno schiaffo.

    «Venduta! La mia casa… Là dentro ci sono nato, non in un ospedale cittadino.» Soffocò un singhiozzo. «Mio luogo sacro, amato, rispettato… non mi appartiene più. Oddio!»

    «Il sindaco potrebbe…»

    «No, Antonio!» lo interruppe, sconvolto. «A un sindaco non chiederei aiuti. Ho ventitré anni; a questa età l’uomo può cavarsela da solo. Le condizioni nelle quali mi trovo non sono catastrofiche. Darò addio a quest’incantato paese. Andrò alla scoperta di un nuovo mondo, anche se schifoso.»

    «Potresti chiedere aiuto ai tuoi zii o cugini ovunque essi risiedono.»

    «Non ho nessuno. Mamma è figlia unica e senza parentele; papà pure lo era stato.»

    «Oh, Federico…» sospirò Antonio, allarmato. «Senza lavoro, senza soldi, senza protezione o riparo per la notte! Credi di potertela cavare?»

    «Questo è il 1990; le stelle lo considerano come un anno brillante. I giovani sanno adattarsi a qualsiasi tenore di vita. Tra poco, in massa partiranno per gli stadi dei mondiali in casa nostra; chi è solo resterà via per un mese, chi in compagnia per alcuni giorni. Mi recherò in città dalla mia unica e fedele amica; se mi rifiutasse cercherò guadagni facili e andrò cercarli rubando. Dovrò stare molto attento. La galera è un vero inferno. Non vorrei diventare vecchio e grinzoso in una cella, sentire i capelli che mi si fanno sporchi e ruvidi.»

    «Ragazzo mio, ti supplico.» sussurrò l’uomo. Aveva l’aria patetica e lo sguardo strabuzzato.

    «Sii più sollevato, amico.» ribatté Federico, usando il tono che si adopera con i bimbi recalcitranti e, con una parvenza di sorriso, aggiunse con tanta affabilità: «Hai un panino? Un’ottima birra? Ho sognato birre e panini in tutto questo tempo.»

    «Vieni, farò ricca la tavola. Preparerò ogni ben di Dio.»

    L’agitazione faceva parte della sua natura, e si sentiva quasi in obbligo di angustiarsi ogni dì per qualche futuro disastro morale e fisico.

    La casa di Antonio era una piccola struttura in stile greco, tetti di coppi rossi, finestre ad arco. Mangiarono nella taverna. A tavola si erano parlati, l’uno della vita carceraria, l’altro della situazione demografica del paese e psicologica degli abitanti. Per tutta la durata del colloquio, Federico si mostrò placido, ma Antonio sapeva che la tranquillità del suo ospite era solo apparente. Solo verso fine serata accadde un istante di forte allegria dovuta a un vecchio gioco scherzoso fatto in una tarda sera autunnale del 1983: con Antonio, modificarono l’autovettura dell’uggioso e antipatico sagrestano; in quell’occasione, Antonio tolse i bulloni a tutte le ruote, ricollocò al loro posto i coprimozzo in modo che non ci si potesse avvedere del fatto a colpo d’occhio. Immaginabile la sequenza della mattina dopo: a trenta secondi dall’essere ripartito, a un tratto la macchina del sagrestano piombò a terra con un fracasso da apocalisse. Memorabile episodio.

    «Lo ricordo indignato e piagnucolante.» aggiunse Federico, sorpreso di ricordare solo allora quel particolare.

    «Un’avventura scelta a bella posta.»

    «Amico Antonio, vedo la tua continuità del creare sculture in alluminio.» proruppe Federico, trovando un argomento consono per un’atmosfera di serenità. «Produci bene la tua arte: persone, animali, croci… Arti munifiche.»

    «Vero! È il mio passatempo. Tutto è sapere ultimare, poiché senza la percettibilità e la passione nulla si può finire.»

    L’ex carcerato, sorseggiando il caffè, osservò la strada deserta immersa nel crepuscolo. Poi, collaborando al lavaggio delle stoviglie si sentì pervadere da un profondo senso di sconforto: la morte della figlia di Antonio e, indi, della moglie dello stesso. La figlia era rimasta uccisa dal tossico iniettatole dalle vespe e dalla conseguente caduta durante la fuga; la moglie, incapace di riprendersi da quel dolore, aveva cominciato a bere, e una sera, in stato d’ebbrezza, ruzzolò dalle scale di casa rimanendovi uccisa sul colpo.

    Tristi episodi successi sei anni addietro. Federico, appena diciassettenne, era da poco fidanzato con la figlia di Antonio, esperta di studi su temi ecologici e ricercatrice di testimonianze storiche su Valle Trompia. Le aveva promesso di averla come moglie in una nuova casa dove i loro figlioli avrebbero avuto tutto lo spazio che desideravano per giocare. Nel proprio portafogli possedeva ancora la fotografia della ragazza e, ora, in un momento nel quale l’uomo era assente, si dedicò nella contemplazione dell’immagine. Nella quasi consumata fotografia, la sua indimenticabile coetanea pareva sorridesse; il fotografo aveva saputo afferrare i riflessi ramati dei capelli neri. Pareva che il viso fosse reale e sentì una dolorosa stretta al cuore. Un nodo gli salì alla gola.

    Un’altra fotografia della ragazza stava sopra una mensola; la foto la cui immagine raffigurava un prisma triangolare che rifrangeva un raggio di luce.

    Antonio lo volle ospite. Rimandò all’indomani quell’accompagnare lui alle porte di Brescia.

    «Stai bene in soldi?» gli domandò l’anziano.

    «Per qualche giorno potrei cavarmela, poi vedrò che cosa fare.»

    «Rubando, certo! Scippando qualche vecchia o trafugando le cassette delle elemosine. Hai idea di ritentare nel campo della delinquenza?» borbottò, sentendosi irritato. «Prendi queste centomila lire. Mi è parso che tu ne avessi più bisogno di me.»

    «No, buon Antonio, non mi devi niente. So che ti mantieni con la pensione minima, e non hai diritto trovarti in difficoltà. In paese c’è sempre stato chi lotta per farsi una posizione o per sopravvivere, e che, nella maggior parte dei casi, sono destinati a fare una brutta fine economica.»

    «Beh, tipi come me se ne infischiano della ricchezza e sono felici della vita da cane che fanno dietro il loro gregge vagante lungo i pendii scoscesi. Qui siamo gente che ama l’aria pura e la libertà di vita. Stiamo con la pioggia, col gelo e col sole. I giovani, eh, sì… proprio loro… se ne vanno altrove; in paese non esistono distrazioni, e non ci si può guadagnare da vivere lavorando i vecchi poderi di famiglia che spezzettano il monte all’intorno. Qualsiasi cosa tu faccia, sappi che ti sarò sempre d’aiuto. Dio mio, tu sapessi quanto desiderio in me vedere la famiglia Ceresera ancora composta! Ricordo le belle serate sotto il pergolato del prato, il barbecue che fece tuo padre, i suoi canti… Possiedi ancora il vivo ricordo di tuo padre? E di tua madre, ora introvabile?»

    «Be’, sai pure anche tu che mamma ha avuto un matrimonio mezzo sciocco tanto da tentar la separazione. Al funerale di papà ricordo d’averla udita dire: "Il pivello ora riposa in pace."; non erano certe le parole che attendessi da una vedova che è appena tornata dal gettare terra sopra la bara del marito. In casa c’era sempre una tensione spaventosa che faceva male a me.»

    «Ricordo quanto fosti stato coraggioso nelle magagne familiari.»

    «No, Antonio… Furono tue illusioni. Mio padre era stato la causa di tutto; diceva che senza di mia madre non saprebbe che cosa fare, ma ogni sera usciva e rincasava a mezzanotte. Non uscivano mai insieme, ma quando accadeva delle volte era una tortura per lei: doveva vestirsi come mio padre voleva. Le manteneva a una certa distanza, le controllava i movimenti, le rimproverava in continuazione, le diceva che era grassa e gli faceva schifo.» soffermò lo sguardo su Antonio, e riprese: «Papà era in rotta con gente di paese, mentre mamma era alienata con la suocera. Ricordo ancora una scena: mamma tentò lasciare la casa, ma papà le si inginocchiò piagnisteo, e che non doveva lasciare me in tenera età… Però quando andava tutto bene continuava a perseguitarla. Diceva parolacce. Mamma mi mandò a stare dalla nonna materna.»

    Il ragazzo ebbe socchiusi gli occhi. La serata parve stesse per calare il sipario nella casa. Si distaccarono per il riposo notturno. Nel silenzio della stanza da letto, Federico rifletté di quei tristi periodi di prigione e quei tanti ricordi d’infanzia; quei ricordi, quei penosi ricordi… a iniziare dal 1973, l’anno della prima elementare. Si rivelò di una intelligenza brillante, ma arcigno verso i compagni di classe. Un mattino di dicembre rifiutò mettere piede all’ingresso dell’aula. Interrogato dalla atticciata insegnante di religione, egli rivelò una serie di angosce che spiegherebbero le sue reazioni. Così, la maestra venne a conoscenza del disaccordo fra i genitori dell’alunno solo quando lo travolse il dramma della imminente separazione.

    A scuola peggiorò sensibilmente e i compagni gli praticarono alcuni dispetti tanto da non voler più andarci. A forza di argani, l’insegnante riuscì a convocare i genitori del turbolento alunno. Dal colloquio, ben composto e pacato, i genitori confermarono nella più completa buona fede, di avere tenuto il figlio al riparo dalle vicissitudini della loro separazione. Eppure, tra perplessità e appuramento, la stessa maestra che sempre ebbe avuto buon animo per il suo alunno, ‘bacchettò’ la coppia che tuttavia sarebbe stato possibile ridurre notevolmente il danno, offrendo a Federico la possibilità di sintonizzarsi per gradi con la nuova situazione.

    "I risultati della disumanità influenzabile possono essere alteranti almeno quanto quelli della violenza fisica. dichiarò allora l’insegnante di religione. Questo genere di prepotenza, lo sviluppo mentale e psicologico è più sofferto che nei bambini schiaffeggiati. Ed è in Federico. Sappiate che chi tra voi è incline alla violenza emotiva, Federico non piange perché affamato o impaurito, ma perché è insolente o ha deciso di far impazzire la classe tanto da perdere amicizia con i compagni."

    Lo psichiatra scolastico spiegò ai turbolenti genitori i quattro fattori di violenza emotiva: rifiuto di tenerezza, divisione, dispregio e angheria. Ai genitori fu imposto questi fattori che paressero dare manifestazione tragica ai loro conflitti psicologici ed evitare di affrontare le vere difficoltà di tirar su il figlio.

    Nel 1975 Federico venne affidato alla nonna materna. Il ragazzo volle non più voler incontrare il padre; dopo due anni e mezzo rientrò in famiglia. Per la donna, impegnata a dimostrare l’indegnità del marito cui non risparmiò accuse e attacchi neppure in presenza del figlio, si trattò di un argomento decisivo.

    I nonni materni furono stati sul piede di guerra. Non lesinarono frecciate di disprezzo per il genero; questi arrivò persino a mutare radicalmente atteggiamento insultando il suocero. Il povero Federico accusò spesso feroci mal di pancia: somatizzazione delle sue ansie.

    1985: una volta maggiorenne, lasciò per sempre il liceo dopo tre bocciature di seguito. E la violenza restò ancora impressa nel proprio animo e corpo. L’infanzia sofferta di carenze affettive rimase impressa nel suo alter ego. Per poco tempo crebbe allineando cuore e coerenza le relazioni col prossimo attraverso eccitazioni e attitudini concrete fino al giorno della rapina postale, perdendo tutto i propri principi logici riavuti a stento.

    §§§

    Antonio ‘scaricò’ il ragazzo alle porte della città. I lucenti occhi gli lanciarono un rapido sguardo, poi sparirono di nuovo sotto lo schermo delle palpebre. Scattò all’istante e prelevò dal portafogli un biglietto di visita, consegnandolo nelle mani del ragazzo.

    «"Comunità Rubius", di Bergamo Alta. Offre ai nullatenenti di passaggio un anno di mantenimento, di cura e di concessione di restare in dormitorio. Un luogo dignitoso e opportunità di lavoro pulito. La comunità è distinta per un’imprenditoria etica, per l’impegno a favore dei detenuti, per la solidarietà, per il volontariato, per attività in favore dell’inclusione sociale, della legalità e tanto altro. Ci sono poveri e bambini affetti da autismo.»

    «Mi sarà facile?»

    «Basta un’auto-dichiarazione, consapevole delle conseguenze penali in caso di falsità. Di sicuro ti darebbero il benvenuto. Là ci finì il figlio di mio fratello, dissociatosi dai familiari. Vai, potresti fare amicizia con lui. Si chiama Alfonso.»

    In Federico un’espressione mansueta sotto la quale traspariva un certo nervosismo. Ringraziò del consiglio, ma era propenso ad andare in un altro luogo.

    «Magari nel prossimo futuro. Terrò presente.» annunziò e ripose il biglietto nel proprio portafogli. «Grazie di tutto e di cuore, amico mio.» mormorò con voce commossa, asciugandosi la fronte con una manica.

    L’anziano lo aveva lasciato commosso, tant’era che anche al ragazzo erano venute le lacrime.

    Il paese d’aria pura e di regno vegetale infinito, Federico lo aveva lasciato alle spalle. Di fronte a lui, ora una città di smog, di traffico insensato. Una ridda di autovetture; una metropoli ‘guerrigliera’ contro i turisti; una città ‘affamata’ di verde.

    Del caldo, nonostante fosse così torrido ai primi di giugno, lo affrontò con una lunga camminata. A volte, faticava ad attraversare la strada. Voleva raggiungere un quartiere, deciso di ritrovare quella ex amica d’infanzia, che aveva lasciato Brione per ragioni di lavoro.

    "Ma guarda un po’; al traffico irruente piace compiere le infrazioni nel tempo che i poliziotti stradali paiono invisibili."

    Federico aveva un grosso cappello calcato sulla fronte, ricevuto in dono dal compaesano. Camminava lento e stanco. Odiava il trasporto della sacca. La chiassosa atmosfera di un bar lo invitò a fermarsi. La barista, un donnone grande e grosso, lo guardò entrare. Federico notò, in un angolo, un’esile donna che se ne stava seduta davanti all’ennesimo bicchierino di cognac. Non appena costei ebbe scorto l’arrivato, alzò il viso con rinnovata speranza.

    Al banco, Federico ordinò ancora birra, mentre si levò il cappello. Lasciò cadere a terra senza accorgersi la sacca. Quell’esile essere femminile avanzò raggiungendo il giovane; gli si sedette vicino, sopra un rigido sgabello, senza badare a nascondere le sue ginocchia che, nel movimento, si scoprirono.

    «Avete voglia di me?» gli chiese sollevando il bicchierino che si era tenuta in mano.

    «Sentite, bella… mi state creando un immenso disturbo.»

    Dovette stringere i denti per non affermare come avrebbe desiderato. Appoggiò le braccia sul bancone, congiungendo le mani facendo girare i pollici. Seguì, con lo sguardo, l’esile figura che ritornava al suo posto.

    «Non sono d’accordo che vi ci siano donne ubriache e che facciano commercio di sé stesse.» mormorò Federico alla possente barista.

    «Lei non è una di quelle.» gli bisbigliò la matrona. «È sbronza perché suo marito è fuggito, e lei si rende incapace di fronte a un inesistente amore sessuale. È altrettanto sbronza perché suo figlio rimarrà per sempre in Guatemala con le puttanelle del posto. Due anni fa ha perduto la figliola di nove anni; la piccola era in vacanza dal nonno, il carro si era spostato, le aveva fatto perdere il bilanciamento e l’aveva schiacciata. Non si era potuta salvare. Sono ragioni più che sufficienti per capire il suo stato. Non la accontenteresti? Lei non chiede spiccioli. Qui, gli uomini la conoscono e sono tutti maritati; sono mariti fedeli, guarda caso! Dico sempre lei che restando qui non

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