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Iluminados: La Scelta del Destino
Iluminados: La Scelta del Destino
Iluminados: La Scelta del Destino
E-book715 pagine9 ore

Iluminados: La Scelta del Destino

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TRAMA:

Viola vive relegata in casa, in un paese monotono e triste, soffocata da paranoie che le stanno rovinando l'esistenza.
Il Destino, però, ha in serbo per lei qualcosa di sorprendente che la catapulterà  in un mondo surreale e magico, ma a tratti inquietante, dove nulla è come sembra.
La sua vita subirà profondi cambiamenti e il suo cuore, finora chiuso in se stesso, si aprirà verso un amore inatteso.
L’inaspettato viaggio di un’eroina dal coraggio inimmaginabile, in un Paese delle Meraviglie dalle tinte oscure.
LinguaItaliano
Data di uscita24 apr 2023
ISBN9791222099002
Iluminados: La Scelta del Destino

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    Anteprima del libro

    Iluminados - Valeria Dal Palù

    PARTE PRIMA

    "Molto spesso una crisi è tutt'altro che folle

    È un eccesso di lucidità"

    La crisi - Bluvertigo

    ~ Capitolo 1 ~

    HOTEL LICHTSTRAHL

    Tic toc era il rumore del mezzo tacco delle sue scarpe, associato a un tumpf più ovattato, quando si trovava a passare sulle lunghe corsie di tappeti. Il tonfo del bastone, scandito a intervalli regolari, risultava inconfondibile: era un passaparola generale, tutto il personale si metteva sull'attenti per far ben intendere che era ligio al proprio dovere. Era la tenuta da ispezione. Mai nessuno veniva beccato con le mani in mano, perché nessuno voleva deluderla. Un richiamo verbale, anche se espresso con distaccata cortesia, faceva sempre male. Era faticoso sostenerne lo sguardo. Gli occhi azzurri, sebbene infondessero sicurezza, potevano allo stesso modo rivelarsi implacabili. Lei era il capo e lo sapeva fare bene, non c'era nulla che poteva sfuggirle. Ogni giorno eseguiva lo stesso rituale: tracciava con le dita i battiscopa, faceva sparire le ragnatele dagli angoli più reconditi e bui, lisciava le piegoline impercettibili dalle lenzuola ed eliminava gli aloni cosiddetti invisibili dagli specchi. A giudizio di tutti quelli che la conoscevano, veniva descritta come una donna severa, leale e dallo stile impeccabile.

    Il direttore aveva espresso di volersi occupare della stanza numero 21, personalmente. Il risultato doveva sfiorare la perfezione. Intendeva sprimacciare i guanciali e il candido piumino, rifornire il cesto in vimini della toilette dei profumi più intensi e delle lozioni migliori, sistemare gli asciugamani, riempire le coppe di frutta fresca e cioccolatini dal cuore morbido di purissimo cacao, e comporre un bouquet raffinato di fiori, appena recisi. L'ultimo sopralluogo avrebbe compreso l'ispezione delle tende e della veranda. Le sdraio, al momento, erano sprovviste di cuscini, perché non era ancora la stagione adatta per esporli.

    Accoglienza, ricercatezza dei particolari, gentilezza e la sensazione di essere sempre coccolati, erano il biglietto da visita. Una garanzia che il suo Hotel offriva da anni. Ormai lo sentiva suo. Era da tempo incalcolabile che vi garantiva il proprio servizio e competenza. Aveva la facoltà di dirigerlo come meglio credeva e lo faceva divinamente. In tutti quegli anni di meritata carriera, non aveva mai sbagliato un colpo. L'Hotel Lichtstrahl era considerato tra i migliori di tutto il Tirolo. Fin dai tempi della sua fondazione, nel lontano 1908, veniva gestito in maniera superba dalla famiglia Goldshaum, passando di generazione in generazione. La chiave del successo era semplice: il cliente doveva venire prima di tutto. Aveva perso il conto delle persone conosciute in tanti anni di attività, la maggior parte delle quali erano clienti affezionati. Li aveva sorpresi commuoversi al momento della partenza e tra loro c'era sempre qualcuno che non poteva fare a meno di tornare. Le vedeva nitidamente tutte quelle figure, come una girandola di volti. Era un incantesimo che non scompariva mai, in un luogo già di per sé magico, da sogno.

    Avevano a disposizione delle stanze incredibili, adatte a ogni tipo di esigenza, e quelle a prezzo più vantaggioso non sfiguravano affatto rispetto alle suites. Erano tutte confortevoli e arredate con gusto, non c'era che l'imbarazzo della scelta. Per ognuna di esse era garantito uno splendido affaccio sulla lussureggiante foresta, che si estendeva a perdita d'occhio, e sulle cime di montagne imperiose. Le camere standard avevano un terrazzo in legno dove i clienti potevano rilassarsi, mantenendo inviolata la loro privacy. Le suites, invece, disponevano di uno spazio privato che comprendeva un piccolo giardino, un'area relax e idromassaggio.

    Vi erano poi un ampio parco, che circondava per intero la struttura, serre botaniche e spazi protetti da verande e gazebo per il riposo, quattro sale da pranzo a tema, un salone dedicato alle feste, una grande piscina interna e il rinomato centro benessere. Non era un Hotel alla portata di tutte le tasche, naturalmente, era considerato tra i più lussuosi della sua categoria.

    Lisbeth Steinman sapeva bene che questo dettaglio poteva rivelarsi un problema: al momento giusto, sarebbe intervenuta lei stessa a dare una ritoccata al listino prezzi, solo per la sua piccola ospite. La fanciulla avrebbe avuto il meglio e lei ne sarebbe stata l'artefice. Dopotutto, era anche il suo principale compito: doveva aiutare le persone speciali ad andare incontro al proprio destino. Poco alla volta e si sarebbe abituata, avrebbe imparato a fidarsi di lei. Non sarebbe stato facile, ne era consapevole; aveva un carattere indomito e terribilmente diffidente, una sfida dura, ma eccitante. Sorrise, compiaciuta al solo pensiero di conoscerla.

    Tuttavia, aveva altre mille faccende da sbrigare. Stava arrivando la stagione migliore: l'estate. Avrebbe dovuto rifiutare qualche prenotazione. Accadeva sovente che arrivassero copiose, quasi tutte nello stesso momento, ed era seccante dover dire di no. L'Hotel Lichtstrahl era ambito non solo per l'eccellente servizio, ma anche per la posizione strategica di cui godeva.

    Giunta nel suo ufficio constatò, soddisfatta, che il suo tè era pronto e in perfetto orario. Si guardò attorno, accarezzando una parete ricoperta di fotografie, e controllò che il suo libro preferito si trovasse al posto giusto. Un giorno non molto lontano, quell'antico libro, le sarebbe tornato di nuovo utile e lei sapeva di doverlo custodire con cura.

    Poi lo sguardo le cadde sul dipinto, quello accanto alla libreria. Una nube, sospesa nello spazio, fluttuava leggera punteggiata da ombre colorate, alcune delle quali, attorniate da luce pura, raffiguravano loro: gli Illuminati. Ne lesse la targhetta in bronzo con orgoglio:

    Il Grande Caos, dove tutto ha avuto inizio.

    Assomigliava molto alla rappresentazione del Big Bang, o al tentativo di rappresentare il momento della fecondazione. Forse erano entrambe le cose, o forse no. Lisbeth Steinman sapeva bene cosa volesse esprimere quel dipinto, ma manteneva il più stretto riserbo.

    Sedette alla scrivania e tuffò una zolletta di zucchero nella tazza fumante. Mentre mescolava con il cucchiaino, rivolse un'occhiata fugace alla sua macchina da scrivere, per poi indugiare più a lungo su una cornice d'argento. Allungò la mano e la afferrò, ma riuscì a tenerla in grembo solo per un attimo, perché pareva pesare come una lastra di porfido. Era un ricordo della famiglia Goldshaum: il signor Henry, la signora Rose e il loro unico figlio, il signorino Samuel. Samuel era un ragazzo dalle fattezze perfette. La definizione migliore per descriverlo era bello come il sole, ombroso e pallido come la luna. Le sfuggì un gemito mentre nascondeva quella fotografia nel doppio fondo del cassetto; contemporaneamente ne fece scorrere un altro, alla sua destra, da cui prelevò quella che l'avrebbe sostituita. La cornice, lucidata a dovere, conteneva un’immagine dei coniugi Goldshaum, scattata solo pochi giorni addietro. Una foto priva di sentimento, in cui Samuel non era presente.

    Si gustò appieno l'ultimo sorso di tè e, dopo aver allontanato il vassoio, decise che era ora di mettersi nuovamente al lavoro. Doveva ancora impartire gli ordini di servizio per il giorno successivo e lo avrebbe fatto, naturalmente, con la sua fedele macchina da scrivere. Odiava le diavolerie moderne. Andavano bene per la nuova generazione impiegata alla reception, non certo per lei. Se fosse stata costretta a cambiar metodo, avrebbe dovuto trattarsi di una rara eccezione, come nel caso della giovane fanciulla. Perché era il Destino a volerla al suo cospetto e si era stancato di aspettarla.

    «Ricetta vincente non si cambia» disse a se stessa, ridacchiando.

    Finalmente, sarebbe arrivata presto quella serenità che mancava da tempo. L'Hotel Lichtstrahl sarebbe tornato a brillare come ai tempi d'oro: mancava davvero poco. Era impaziente di conoscerla, aveva atteso così a lungo, fiduciosa, e quella manciata di giorni d'attesa sarebbero stati nulla. La sera stessa avrebbe festeggiato insieme agli amici di sempre: anche loro erano custodi del segreto. Avevano il diritto di sapere.

    ~ Capitolo 2 ~

    DISADATTATA

    Viola spalancò controvoglia le imposte della sua stanza e, appena vide il mondo, mise il broncio. Desiderava respirare aria fresca, ma constatò, tanto per cambiare, che si prospettava un'altra mattinata uggiosa. Riusciva a distinguere la siepe di confine, ma a malapena la punta del capitello all'incrocio, poi il nulla. Il paesaggio pareva inghiottito da una nube tossica. Ne aveva davvero le tasche piene di quel tempo impietoso, per non parlare del posto triste e monotono in cui era relegata: le dava la nausea. Il nome, poi, la diceva lunga su quale poteva essere il ridente aspetto: Fumo. Era un piccolo paese di provincia situato in pianura, lungo il fiume che delimitava l'ipotetico risvolto dell'italico stivale. Un paese bigotto e stantio, dove si conoscevano tutti e che, a suo parere, non aveva niente di interessante da mostrare: appariva noioso, piatto e liscio come una tavola. Non una salita, né una discesa o un piccolo rilievo che potessero interrompere la monotonia di quel paesaggio. Lo sosteneva sempre, di trovarsi in perfetta sintonia con Dorotea de Il Mago di Oz, quando si trovava a descrivere il grigiore del suo Kansas.

    Rimanere a Fumo dava la sensazione di invecchiare precocemente, di inaridirsi, senza avere mai la possibilità di sbocciare. Sicuramente una volta partita, a differenza di Dorotea, non ne avrebbe mai avuto nostalgia. D'estate c'era un'afa insopportabile, accompagnata da un odore dolciastro e nauseabondo dovuto alle esalazioni delle fabbriche di mangimi; in autunno e in inverno, poi, le cose si complicavano ulteriormente, perché regnava una spessa coltre di nebbia che la faceva precipitare in una cupa depressione. Il paese lo frequentava di rado, non partecipava mai a nessun tipo di iniziativa rivolta ai giovani, né culturale, né atta a socializzare. Si definiva un orso perennemente in letargo. Due erano le occasioni in cui doveva per forza metterci piede: quando doveva andare a scuola, e quando doveva recarsi a fare la spesa del mese.

    Il sabato mattina si organizzava svegliandosi presto così, secondo la sua logica, sarebbe diminuita la possibilità di incontrare gente. All'apertura del supermercato lei era già all'attacco, con una lista in mano e un carrello da riempire. A suo padre spettava l'ingrato compito di accompagnarla, dal momento che non aveva ancora la patente, ma l'attendeva in auto leggendo il giornale. Era una condizione insindacabile, se voleva fare in fretta e usufruire del passaggio. A quanto pareva, anche lui detestava cordialmente fare la spesa.

    Quello era, appunto, un maledetto sabato di metà aprile che avrebbe anche digerito, tutto sommato, se non ci fosse stato l'inconveniente di dover fare la spesa. Aprì l'armadio, scocciatissima, tirando fuori qualche indumento a caso che infilò, sempre sbuffando; poi raccolse i capelli in una coda alta, anche se di norma preferiva lasciarli cadere sugli occhi, tipo tenda. Si sentiva meno esposta in quel modo, ma se doveva cercare i prodotti e leggerne i prezzi, non avrebbe visto una mazza. Saltò la colazione, l'ansia di dover fare tutto e subito la stava divorando; salutò suo padre con un ringhio e non spiccicò più parola fino a destinazione.

    Appena posteggiata l'auto, Viola guardò suo padre, rassegnata, compiere il solito rito: inclinava leggermente il sedile, allargava il giornale sul volante, abbassava il vetro e si accendeva una sigaretta.

    La prima di una lunga serie...

    Puntò dritta alle offerte speciali, per fare scorta, intenzionata più che mai a battere il suo record personale di velocità. Stava andando alla grande, mancavano ancora poche cose da spuntare nella lista, quando tutto il suo zelo venne mandato all'aria da una sgradevole voce. Dalla corsia opposta riconobbe chiaramente il tono della comare del paese, che parlava fitto fitto con un'altra donna.

    «Hai visto chi ha parcheggiato vicino alla tua macchina?»

    L'altra donna rispose, educatamente, che non badava mai a queste cose.

    «Ma quel poveretto dell'Augusto! Già non si è più ripreso da quella disgrazia tremenda, e ora ha anche a che fare con una figlia malata di mente... Perché lo sanno tutti che quella ragazza non è normale, lo dice perfino mia figlia che è strana... Sai come la chiamano i suoi amici?»

    La donna replicò imbarazzata che non lo sapeva.

    «L'aliena» rivelò con una risatina corrosiva. «Fossi in lui, mi vergognerei ad avere una figlia così.»

    Viola, senza rendersene conto, aveva ridotto in poltiglia la confezione di biscotti che teneva in mano, mentre la rabbia e l'impotenza la facevano avvampare. Si resse allo scaffale, imponendosi di stare calma per almeno un minuto intero, altrimenti avrebbe scaraventato la megera fuori dal supermercato, a calci.

    Mio padre non si merita questa cattiveria dopo quello che ha passato! Mi sta aspettando nel parcheggio, ignaro di tutto, senza potersi difendere.

    Il tormento del padre ebbe la meglio. Scappò via come una furia, a mani vuote, senza voltarsi mai indietro e senza badare ai commenti dei clienti, che indicavano lei e il carrello in mezzo alla corsia come fosse una tragedia. Augusto rischiò di incendiare il giornale quando vide sua figlia fiondarsi in macchina, con la pelle arrossata e lo sguardo truce. Date le urla e il suo rifiuto a dare spiegazioni, non gli restò altro da fare che rassegnarsi e partire. Temeva gli eccessi di rabbia di Viola, credeva seriamente che potessero condurla all'esaurimento nervoso o a qualcosa di peggio. Viola, invece, dopo uno sfogo turbolento, rimase con la bocca cucita. Il motivo era semplice: si vergognava e temeva di ferirlo. Suo padre non doveva sapere come veniva considerata dalla gente. Augusto non fece in tempo a fermare la macchina nel viale di casa, che la figlia era già schizzata fuori. Viola salì le scale senza quasi sfiorarle con i piedi, e si chiuse in camera.

    Un'ora dopo, Augusto bussò alla porta della stanza: chiedeva spiegazioni con una voce diversa dal solito, rotta da sentimenti contrastanti.

    «Ti prego Viola, devi dire a tuo padre cosa sta succedendo... Stai esagerando, hai bisogno di aiuto» scandiva lentamente ogni parola, pensando che con questo sistema, forse l'avrebbe ascoltato meglio. «Se continui a comportarti così, finirai col rimanere sola.»

    Tanto meglio.

    Cosa ne può sapere mio padre della natura delle persone? La gente è cattiva, falsa, indifferente all'altrui sofferenza. Sempre pronta a criticare, a giudicare, a condannare gli altri per consolarsi delle proprie frustrazioni, per coprire o negare la miseria che regna nelle loro stesse case. Mio padre è cieco, o semplicemente vittima consapevole del vivere in questo mondo. Io no, non accetterò mai tutto questo. Al momento opportuno, deciderò di sparire.

    Augusto gettò la spugna dopo un ultimo debole tentativo. Il passo pesante e il rombo del motore dell'auto diedero a Viola la conferma che fosse uscito. Solo allora si decise a lasciare il letto per arrivare alla finestra. Vedendo quello che c'era fuori, scosse il capo più volte; era strana quella nebbia primaverile, ma almeno la isolava dal resto del mondo. Il mostro grigio si era inghiottito tutto quanto, anche la sedia a dondolo di sua madre. Accese il computer quasi in trance. Decise, per gioco, di organizzare un piccolo viaggio. Avrebbe cercato un posto magico, immerso nella natura, dove spaziare con la fantasia. Era una tattica, collaudata da tempo, per attenuare la delusione e attutire il dolore. Immaginava di conoscere persone straordinarie che soggiornavano con lei per lo stesso motivo, che come lei si sarebbero deliziate a guardare paesaggi mozzafiato, pronte a condividere un'avventura. Fu un'ampia ricerca. Viaggiò in Irlanda, Scozia, Islanda e in tutta la penisola scandinava. Cercò nei paesi dell'Est ma, per quante immagini di luoghi suggestivi vedeva scorrere, non si sentiva ancora convinta. Non era scattata la scintilla. Voleva ancora di più, doveva pur esserci qualcosa che l'avrebbe finalmente catturata... Finché si accorse che erano trascorse delle ore e fuori pareva essere già buio. Aveva viaggiato abbastanza, era giunta l'ora di mettere qualcosa sotto ai denti.

    Il cibo per Viola era un supplizio, ne avrebbe fatto volentieri a meno.

    È possibile che questo gioco abbia aperto il lucchetto del mio stomaco?

    Non ne era tanto convinta, eppure riuscì a ingurgitare un panino intero, senza avanzarne nemmeno un boccone. Stava pulendo le briciole dal tavolo, quando sentì lo scatto della porta d'ingresso e uno sfrigolio di buste in nylon. Era rincasato suo fratello e non pareva essere affatto di buon umore. L'aveva salutata appena con un cenno del capo, mentre le borse piene di spesa finivano a terra. Era evidente che aveva parlato con il padre, sapeva già tutto.

    «Non capisco quale sia il tuo problema, giuro che per quanto possa sforzarmi, proprio non ci arrivo!» Le ringhiò addosso, aprendo e chiudendo il frigo. «Papà dice che è il caso di portarti un'altra volta dallo psicologo o da qualcuno che possa aiutarti davvero perché, a quanto pare, la tua famiglia non ci riesce.» La paternale venne interrotta da un rumore di tacchi e un saluto pieno di entusiasmo. Si trattava di Marika, la sua nuova fiamma da un paio di mesi.

    «Non azzardarti nemmeno, davanti a lei» gli intimò Viola, fulminandolo con lo sguardo, «non parlo dei fatti miei davanti a un'estranea.»

    «Lo sai bene chi è. Non è un'estranea, è la mia ragazza e...»

    «Fino a quando?» Lo liquidò prontamente Viola.

    «Non ti preoccupare Dario, aspetterò fuori» disse Marika, appiattendosi contro il muro, «forse non è il caso che mi fermi qui a dormire... Accompagnami a casa quando hai finito, per favore...» Sussurrò con occhi languidi, mentre girava i tacchi e usciva dalla cucina.

    Dario era furente, mentre Viola non realizzava cosa avesse potuto dire di tanto grave.

    «Non parlarmi più finché non sarò io a rivolgerti la parola per primo, ma sta sicura che non accadrà tanto presto. Non la passerai liscia questa volta, tu vuoi farci impazzire!» E se ne andò, sbattendo la porta.

    Era una fortuna che Augusto avesse fissato un telaio così robusto, ne aveva subiti di traumi quella porta, specie in quel periodo. Viola era dispiaciuta per il fratello e per quello che aveva detto alla sua ragazza anche se, in fondo, lo pensava davvero. Mentre si insaponava i capelli sotto alla doccia, rifletteva che Dario forse avesse ragione: aveva bisogno d'aiuto, ma nessuno in quel posto poteva darglielo. A quel punto se la sarebbe sbrigata da sola.

    Si asciugò con cura, dando le spalle allo specchio. Detestava la sua immagine riflessa, soprattutto quando le rimandava un inequivocabile senso di colpa. Raggiunto il suo rifugio, cercò un paio di pantaloni comodi a cui abbinò la sua maglietta preferita, che recava la stampa di una farfalla colorata. Gli esami di maturità erano alle porte e suo padre aveva già tante preoccupazioni, perciò decise di terminare una ricerca per scuola. Almeno per quell'aspetto aveva un marcato senso di responsabilità, non doveva sprecare troppo tempo al pc per viaggiare con la fantasia, perché non poteva permettersi di rovinare la media.

    Appena finì quella riflessione, lo schermo del computer s'illuminò.

    Apparve, a immagine intera, un luogo a dir poco affascinante. Un piccolo lago di montagna, imbevuto dei colori del cielo e della foresta, brillava al sole tanto che le sue acque risultavano smeraldine. La sua incredibile bellezza veniva esaltata e protetta da una cornice di vette che sembravano sculture di quarzo, talmente vicine da farle credere di poterle toccare con un dito. Sembrava così reale da farle sospettare di non esserlo affatto. Viola rimase subito sedotta da quel luogo, senza trovare una spiegazione logica al fenomeno.

    Com'è possibile? Da dove sbuca questa meraviglia della natura?

    Incolpò la sua mano che doveva aver urtato il mouse per sbaglio, mentre stava sfogliando gli appunti, ma la scusa non reggeva. Era abbastanza sicura di aver spento il pc da un pezzo e, nel caso ricordasse male, stava comunque guardando tutt'altro durante l'ultimo accesso. Si era soffermata ad ammirare le immagini delle bianche scogliere di Dover, certamente non quel misterioso lago. Tuttavia, la sua parte razionale l'indusse a concentrarsi di nuovo sullo studio, e a non rimuginare troppo . Ebbe solo cura di spegnere il computer con maggior convinzione.

    È un oggetto che si accende solo se azionato dall'uomo, niente di più. Smettila di pensarci.

    Dario rincasò verso mezzanotte e prima di andare a dormire si accostò alla porta di Viola.

    Viola ne percepì la presenza: era combattuto se bussare oppure no; ci pensò lei a toglierlo dall'indecisione.

    «Ah, sei ancora sveglia» furono le sue prime parole. Non si aspettava quel tipo di iniziativa da parte di sua sorella.

    «Sì» rispose Viola, con leggero imbarazzo. «Ti stavo aspettando per chiederti scusa, sinceramente io...»

    Dario non le fece terminare la frase.

    «Mi fai entrare?»

    Fu così che Viola gli diede il permesso di entrare nel suo regno.

    «Scusami davvero Dario, per tutto. Credimi, non so perché a volte dico quelle cose» aggiunse sottovoce, «porgi le mie scuse anche alla tua ragazza, ti prometto che non la importunerò più.»

    «Perché non gliele fai tu stessa?» Osservando la sua smorfia, Dario abbozzò un sorriso, le scompigliò i capelli con una mano e glieli accarezzò più volte.

    «Ehm... Forse non è il caso, sei stata una iena e per adesso l'hai spaventata abbastanza. Non è che, per caso, sei un po' gelosa di tuo fratello?» Domandò, a metà tra il curioso e il divertito, mentre con il pollice le sfiorava l'orecchio. Viola non riuscì a rispondergli nulla. Il tocco delle sue dita le aveva provocato un brivido intenso, tanto da rimanere confusa. Non aveva mai pensato alla gelosia prima di quella battuta maliziosa, allora si era soffermata a guardarlo meglio: certo era davvero bello, forse troppo per quella ragazza. Le sue mani erano grandi e delicate in egual misura e... calde; lo sguardo così magnetico che poteva appartenere solo al più bello dei divi del cinema, ovviamente privo di ritocchi.

    Che cavolo sto pensando? È logico che per me sia il più bello di tutti, è mio fratello!

    Dario non tornò più sull'argomento psicologo e Viola, intimamente, gliene fu molto grata. A modo loro avevano risolto quello spiacevole litigio. Era da tempo che non si facevano una bella e intensa chiacchierata . Dario era riuscito a strapparle persino qualche risata, ne aveva proprio bisogno. Era lui a farla star bene e mai si sarebbe immaginato che, di lì a poco, Viola se ne sarebbe andata. Quella notte Viola fece fatica ad addormentarsi. Era in preda a emozioni mai provate prima. Poi chiuse gli occhi con un leggero sorriso sulle labbra e sognò.

    Correva sola in un bosco immenso, inseguendo ostinatamente qualcuno. Chi era?

    Una voce sconosciuta accompagnava la sua folle corsa, cantando una melodia apparentemente triste, in una lingua che non riusciva a decifrare.

    Era quella canzone a catturarla o era il possessore di quella voce?

    Non sapeva darsi una risposta, sapeva solo che non riusciva a smetterla di correre.

    Viola si svegliò che era già pieno giorno e, quando scese di fretta le scale, lo fece di buon umore. Dario aveva la domenica libera e voleva trascorrerla con lui. Tuttavia, quando lo chiamò, non rispose. Era già uscito da un pezzo. Trovò un post-it sul frigo che diceva:

    Non aspettarmi per cena, torno tardi. Ciao, Dario.

    Viola avvertì una fitta di dispiacere e da quel momento il suo umore cambiò. In fin dei conti, le capitava spesso di rimanere a casa da sola di domenica. Era sempre stato quello che voleva.

    Allora perché adesso sto così male?

    La voglia di far colazione le era passata. Caricò la moka grande e decise di bere solo del caffè, poi pensò a come organizzarsi la giornata. Avrebbe messo in ordine la stanza, cambiato la biancheria del letto con lenzuola fresche di bucato, dedicato del tempo alla lettura o all'ascolto di un po' di musica. Insomma, la solita routine. Uno strano evento decise per lei cosa avrebbe fatto quella domenica: tornata in camera trovò il computer inspiegabilmente acceso e uno sfondo misterioso la invitava a guardare. Era l'immagine del lago. La curiosità si fece viva di nuovo, solleticandole ogni centimetro del corpo. S'infilò il portatile sotto braccio e si diresse nella stanza di Dario, per trasferire quell'immagine su carta.

    Chissà se funzionerà...?

    Collegò il pc alla stampante e si guardò in giro per tenere a freno l'eccitazione.

    La scrivania di Dario era più spaziosa rispetto alla sua, sugli scaffali aveva allineato una quantità industriale di libri, dispense e appunti dell'università. Doveva riconoscere che suo fratello era un ragazzo davvero rispettoso. Viola si occupava tutti i giorni di tenere in ordine la casa e Dario contribuiva il più possibile a mantenere intatto il lavoro che faceva anche per lui, a cominciare dalla sua stanza. Analizzò le foto attaccate all'armadio e quelle incorniciate sulle mensole. Quasi tutte lo ritraevano sorridente o con quella sua inconfondibile espressione da furbetto, durante le vacanze, a una festa, mentre giocava a calcio, o in posa appoggiato a qualche bell'auto sportiva che non gli apparteneva. Mai una fotografia di famiglia che li ritraeva tutti e quattro assieme. Dario le aveva rimosse da tempo, dopo la scomparsa della madre. Solo a fine ispezione, Viola si accorse che ne aveva aggiunta una nuova. Era una foto insieme alla sua ragazza, scattata in un locale che non conosceva. Marika sembrava sprizzare felicità da tutti i pori e lui pareva molto orgoglioso di tenersela stretta. Istintivamente Viola la staccò dall'armadio e la strappò in due. La rabbia stava tornando a insidiarla e lei, ragazza di natura inquieta, si lasciò provocare.

    Un suono amico intervenne in suo aiuto, risucchiandola fuori da quel frammento di buio: la stampante stava compiendo il suo dovere e Viola tornò a sorridere.

    Pianeta Terra chiama Base Lunare Viola...

    Qui Base Lunare Viola.

    Subito dopo si diede la risposta:

    Torna a casa Viola, perché la stampa è riuscita perfettamente.

    Viola fece dietro-front e si barricò nella sua stanza. Una volta riconquistata la piena padronanza del suo spirito, s'accorse del guaio che aveva appena combinato. Nascose ciò che era rimasto della foto strappata del fratello nella sua agenda, e cestinò l’altra metà solamente dopo averla ridotta in minuscoli e insospettabili pezzetti. Non che si sentisse meglio, ma per il momento poteva fingere di dimenticarsene. Scrocchiò rumorosamente le dita e dette inizio a un paziente lavoro di ricerca, nel tentativo di carpire ogni dettaglio di quel luogo misterioso. Era riuscita ad assorbirlo talmente bene nella mente, che poteva chiudere gli occhi e vederlo chiaramente, come fosse già lì. Per prima cosa cercò di dare un nome alla catena montuosa che faceva da cornice, ma dopo un paio d'ore di scrupolosa scrematura, la ricerca si rivelò infruttuosa. Il mondo era ricco di luoghi suggestivi, di laghi a specchio, boschi sconfinati e cime svettanti, molto simili a quello che stava cercando, ma che purtroppo non erano il suo posto. Viola decise di interrompere, perché le stava fumando il cervello.

    «Basta! Come faccio a raggiungerti se non so dove ti trovi?» Sbraitò addosso alla foto, come se potesse risponderle davvero, e smorzò il portatile con rabbia.

    Per evadere da quel vicolo cieco scese in cucina e, dopo essersi procurata un largo tegame, iniziò a rovistare nel frigo. A Viola piaceva cucinare, lo considerava terapeutico: aveva imparato tutto da sola, ma lo faceva solo per i suoi due uomini, come usava chiamarli. Preparò delle cotolette, perché la trovava una buona soluzione nel caso avessero fatto tardi. Potevano riscaldarle al microonde o, magari, farsi un panino: Dario ne andava matto. Lei, invece, riteneva che il cibo fosse una questione di sopravvivenza. Ignorò le cotolette, accontentandosi di qualche cucchiaiata di yogurt e cereali, che trangugiò passeggiando avanti e indietro per la cucina. Per non torturarsi ancora col mistero del lago, trascorse un'oretta a rassettare casa senza metterci troppo impegno e, quando si ritenne abbastanza soddisfatta, decise di concedersi un bagno rilassante. Eppure, l'azione distruttiva della foto le causava ancora turbamento.

    Perché mi comporto così? Ha forse ragione Dario? Sono gelosa di lui?

    Cercò di scacciare quel pensiero, abbandonandosi nell'acqua calda traboccante di schiuma. Anche se aveva un altro dubbio a darle il tormento.

    Quel posto apparso all'improvviso, è un segnale?

    ~ Capitolo 3 ~

    BUCHI NERI

    Viola uscì dalla vasca quando si accorse di avere la pelle delle dita molliccia. Tornò in camera con i capelli ancora umidi; d'altra parte aveva già perso la pazienza con il phon e guardò quello che le restituiva lo specchio, storcendo la bocca. Non si era mai considerata una gran bellezza. Si giudicava un po' bassina rispetto a certe sue coetanee spilungone, ma non era stato proprio suo padre, una volta, a farle quella battuta? «Ricorda Viola: nella botte piccola c’è il vino buono. Cerca di mostrare le qualità che nascondi dentro.» Era solito divulgare detti popolari, anche se lui usava chiamarle perle di saggezza.

    I capelli castani non erano né ricci, né lisci; aveva occhi notevoli, ma raramente si poteva notare che erano verdi perché camminava sempre a testa bassa e, se li incrociavi per sbaglio, davano l'idea di guardare qualcosa nel vuoto. Appariva dannatamente svogliata anche nel vestire: possedeva un guardaroba triste e scarno, fatto di maglioni informi che riusciva a tirare fino alle ginocchia, e di camicie maschili scartate dal fratello. Snobbava il trucco e, di sicuro, non possedeva un'andatura femminile. Le sue uniche priorità erano quelle di passare inosservata e di non venire importunata da nessuno. Ciò che salvava del suo aspetto erano i denti: bianchi, regolari e sanissimi. Un vero sollievo per le tasche di suo padre, ma una delusione continua per il loro dentista. Peccato che lei sorridesse di rado.

    Tastò a casaccio nel cassetto della biancheria pulita e ritrasse la mano quando s'accorse di aver toccato un oggetto estraneo. Si trattava del suo vecchio album di fotografie che non sfogliava da anni. Aveva completamente dimenticato la sua esistenza, come aveva rimosso parecchie altre cose. Era timorosa all'idea di aprirlo, perché sapeva che le avrebbe causato il mal di testa. Era sempre la stessa storia: quando tentava di ricordare qualcosa iniziavano le fitte, poi dalle fitte arrivava l'emicrania e non esisteva analgesico sufficientemente potente in grado di aiutarla. Questo guaio si era manifestato dopo la morte di sua madre. Viola aveva cominciato a manifestare degli strani vuoti di memoria che le impedivano di ricordare gli avvenimenti del passato, o a metterli in ordine cronologico. Il suo cervello, quando veniva forzato a provarci, sembrava abbassasse la serranda, esponendo il cartello chiuso per cessata attività, oppure torno subito, ma non tornava nessuno. La sua mente era costellata da buchi neri e non poteva farci niente. Gli unici ricordi erano rappresentati dal padre e dal fratello, e ci rimaneva aggrappata perché viveva nel terrore di dimenticare anche quelli. Erano le sole persone al mondo che le volevano bene e che l'accettavano per quello che era.

    Seppure combattuta, Viola decise di osare e aprì l’album nel mezzo. Trovò un'unica grande foto scattata il giorno di Natale, lei e Dario erano ancora bambini. Le scappò un risolino mentre si appoggiava al cassettone per guardarla meglio. Tutti e due parevano fare a gara per conquistare le ginocchia del padre, mentre la madre era indaffarata a tagliare il panettone con un sorriso divertito. L'atmosfera era carica di serenità e calore.

    Chissà chi l'avrà scattata? Non riesco proprio a ricordarlo.

    Sua madre, Margherita, sebbene fosse stata una donna dalla corporatura minuta, era una vera forza della natura. Aveva grandi occhi azzurri, nei quali ci si poteva specchiare, e una matassa di ricci biondi da cui spuntava un visetto fatto a cuore. Nel complesso la si poteva definire graziosa, ma era senza dubbio il carattere il suo punto forte. Era dotata di un ottimismo altamente contagioso, tanto che a Fumo era benvoluta da tutti, persino dalle arpie, perché era il classico tipo che non si tirava mai indietro se c'era da dare una mano. Viola stentava a credere che due soggetti tanto diversi, come lo erano i suoi genitori, avessero potuto funzionare così bene insieme. Sua madre era una donna mite, col sorriso sempre pronto, mentre suo padre era il classico uomo-orso a cui appariva il broncio per niente. Eppure era evidente che si amavano. Bastava un'occhiata complice tra loro per annullare qualsiasi dubbio, la foto lo rivelava piuttosto chiaramente.

    Margherita venne a mancare quando Viola aveva compiuto da poco tredici anni e non morì consumata da qualche infausta malattia. Nella sua breve esistenza era stata costretta a letto al massimo un paio di giorni per l'influenza. Nessun acciacco, nessun tipo di dolore fisico. Il medico di famiglia sosteneva che godeva di una salute di ferro, proprio come i suoi due figli. Anzi, secondo Dario, nemmeno Viola si era mai ammalata. Ciò spiegava perché detenesse il primato di presenze sui banchi di scuola. Margherita li aveva lasciati nel modo più assurdo e inaspettato. Un pomeriggio di tarda primavera, Viola era indaffarata con i compiti in cucina e lei stava ritirando i panni asciutti in giardino. Appena rientrata in casa esortò la figlia a mangiare la merenda che le aveva preparato, ma non riuscì a completare quella frase fino in fondo. Tutto d'un tratto si fece pallida e si accasciò a terra senza alcuno stimolo vitale. Viola, nella sua costellazione di buchi neri, quel tragico evento se lo ricordava bene: una montagna di panni che volavano dappertutto e il grido d'impotenza di una ragazzina che allertava il vicinato.

    «Si è trattato di infarto fulminante» aveva diagnosticato poi il medico di famiglia. «Non c'era nulla da fare.»

    Viola strinse l'album al petto anche se faceva male. Per cause ignote non riusciva a metterlo a posto e non pensarci più. Accese lo stereo a tutto volume, convinta che potesse essere l'espediente per allontanare quel maledetto dolore.

    Eppure il dolore a volte ritorna...

    L'album le rimaneva incollato tra le dita, così si concentrò a osservare se stessa. Viola non si identificava con nessun membro della sua famiglia e, per quanto li avesse analizzati a fondo, nemmeno caratterialmente.

    Come mai siamo tanto diversi?

    In effetti, non era certamente l'aspetto fisico ad allontanare Viola dalle persone. Era il suo atteggiamento che contribuiva a peggiorare le cose. Da quando sua madre era morta, era come se nel corpo le si fosse acceso un interruttore segreto, in grado di modificare la naturale temperatura del sangue; sembrava che si scaldasse giorno dopo giorno, sempre di più, fino a farla bruciare. Rabbia, odio e avversione per il mondo intero cominciarono a consumarla come per effetto boomerang. Da quel giorno aveva iniziato a mangiare sempre meno. Il dolore si era insediato nel suo stomaco, giacendovi abusivamente per anni, crescendo e occupando una culla che si era fatta troppo piccola.

    Viola aveva sviluppato un'abilità speciale nel concentrarsi a rimanere delle ore come in stato catatonico, con l'unico scopo di non pensare a niente. Cacciava indietro ricordi felici e lacrime, come iniettandosi, metaforicamente, un potente antidolorifico. Con questo sistema la sua mente aveva iniziato a tessere un velo nero sul passato, dalla trama sempre più fitta e buia.

    Suo padre se ne rese conto troppo tardi. Anche lui non se l'era sentita di nominare Margherita per diverso tempo, nella convinzione che Viola avrebbe sofferto meno agendo in questo modo. La cosa grave non era solo che la ragazza avesse cancellato tutti i trascorsi in famiglia, ma aveva anche rimosso visi e nomi dei parenti stretti e degli amici più cari. Per lei erano diventati tutti dei perfetti estranei. Augusto doveva ricorrere a delle foto per aiutarla a ricordare chi fossero gli zii, i nonni o i cugini, ma a volte nemmeno questo espediente gli tornava utile. Allarmato da questa reazione, aveva deciso di recarsi dal loro medico di fiducia, il quale gli aveva suggerito il nome di un brillante psicologo.

    Il dottor Weiss era un uomo sui quaranta, di bell'aspetto, cortese, pacato e molto esperto, secondo le sue credenziali, di problemi giovanili e conflitti adolescenziali. Aveva rassicurato Augusto dicendogli che il disturbo di Viola era abbastanza comune e lo aveva già affrontato con successo. Si trattava di un meccanismo di rimozione post traumatico, risolvibile con sedute di psicoterapia mirate. I tempi , dato il caso, sarebbero stati lunghi e onerosi. Per Viola era stato odio a prima vista. Lo aveva messo in difficoltà in tutti i modi possibili, edificando grattacieli di menzogne arricchiti da crisi isteriche e racconti grotteschi, inventati di sana pianta. Lui l'aveva obbligata a tenere un diario per esprimere tutte le sue emozioni e annotarvi qualsiasi cosa riuscisse a ricordare, anche uno stupido dettaglio. Lei lo aveva riempito di poesie macabre che esaltavano la violenza e disegni truculenti. Non si sarebbe mai rivelata a un estraneo, soprattutto a questo tizio che iniziava a farle un po' troppe domande sulle sue abitudini alimentari, associandole, in modo ambiguo, al desiderio di ricevere attenzioni da suo fratello. Qualche mese più tardi, non avendo riscontrato nessun miglioramento, anche suo padre convenne che non fosse più il caso di mandarla in terapia.

    La vita di Viola poteva benissimo essere paragonata a quella di una suora di clausura, o a quella di un vampiro, a seconda degli stati umorali. Iniziato il primo anno di liceo fu sollevata dal fatto che parecchi suoi compagni di scuola non l'avessero riconosciuta o l'avessero ignorata, data la sua abilità nel mimetizzarsi e di farsi i fatti suoi. Amiche ne aveva poche. Solo un paio di ragazzine avevano frequentato assiduamente casa Marini per un periodo, tuttavia non ci mise molto a capire che non erano interessate alla sua compagnia, bensì venivano per Dario. Se suo fratello non era in casa, si trattenevano con la scusa di farsi passare qualche compito, per poi defilarsi come razzi. Viola non ci rimaneva male, d'altra parte non aveva molto in comune con loro. Le ragazze frequentavano la stessa compagnia, facevano shopping insieme, andavano a ballare e vivevano già le prime esperienze amorose; Viola no. Lei era quella strana e dai ragazzi stava lontana, a distanza di sicurezza, quasi avessero potuto passarle il tetano. La cosa in cui riusciva meglio era lo studio. A scuola era sempre stata piuttosto brava. Gli anni scolastici li superava con profitto e se la cavava bene in tutte le materie, proprio come Dario. Viola nutriva una profonda ammirazione per il fratello: mentre ne osservava la foto, lo stava inavvertitamente accarezzando con la punta delle dita.

    Dario non poteva essere più diverso da lei: era alto, atletico, amava stare all'aria aperta e praticava costantemente sport fin da bambino. Giocava a calcio e andava a nuotare almeno tre volte la settimana. Aveva molti amici con cui uscire; se era triste o aveva qualche preoccupazione, non lo faceva mai pesare a nessuno. Lo si sentiva spesso ridere di cuore, era sempre disponibile a dare aiuto a chiunque ne avesse bisogno. La sua bellezza era disarmante. Era moro, con gli occhi blu dal taglio perfetto, ma il loro colore mutava inspiegabilmente a seconda dell'umore, quindi non c'era modo di stabilirne l'effettiva gradazione. Un piccolo neo sotto l'occhio sinistro gli conferiva un'espressione da furbetto rubacuori. Quando sorrideva, con i suoi denti bianchissimi, poteva far sciogliere gli eterni ghiacciai. Aveva uno stuolo di corteggiatrici fin da ragazzino. In molti sostenevano che avrebbe potuto intraprendere una carriera nel mondo dello spettacolo, eppure a lui quelle cose non interessavano, anzi, era molto portato per lo studio e si applicava in modo serio. Come se non bastasse, era anche il classico bravo ragazzo, quello che non si era mai fatto coinvolgere in qualche bravata, né si era mai andato a cacciare deliberatamente nei guai, garantendo così al padre sonni sempre tranquilli. Dai sedici anni in poi, durante le vacanze estive, si trovava sempre un impiego come cameriere in qualche locale del paese o delle zone limitrofe; dopo il liceo scelse di iscriversi all'università e lavorava a pieno ritmo come barista, per potersi mantenere agli studi. Voleva diventare avvocato ed era l'orgoglio di famiglia.

    Dario aveva quattro anni più di Viola, e, nonostante le diversità caratteriali, si volevano bene anche se lei era un soggetto piuttosto schivo e passava periodi in cui lo snobbava apertamente. Anche Dario aveva attraversato una fase di forte preoccupazione per l'atteggiamento di Viola, specialmente per la sua ostinata volontà di isolarsi. S'azzardò soltanto una volta a intromettersi nella sua vita, poi giurò di non farlo mai più. Sapendo che Viola era restia a uscire, aveva deciso di spezzare la consuetudine invitando a casa un compagno d'università, con l'intenzione di ospitarlo a dormire. Voleva solo tentare di capire che tipo di disagio potesse covare la sorella nei confronti del sesso maschile. In breve, voleva farla progredire nelle relazioni sociali. Quella sera, al momento del caffè, dopo che Viola si era assentata un attimo, Dario aveva chiesto all'amico un parere riguardo la ragazza. L'amico gli aveva risposto con entusiasmo che la trovava molto carina e intelligente, anche se si trattava di una conferma, perché lo aveva dedotto dalle continue occhiate che le aveva lanciato durante la cena. Pur avendo provato un leggero fastidio nel saperlo apertamente, era deciso ad andare fino in fondo, così li aveva lasciati soli in cucina, mentre lei lavava i piatti. Purtroppo si rivelò una mossa azzardata: dopo neanche dieci minuti, udendo delle urla, era dovuto correre in aiuto del giovane per strapparlo dalle mani di Viola; rimase impressionato dalla reazione e dalla forza con cui lo aveva aggredito. In fondo, le aveva rivolto solo qualche banale complimento, si era giustificato poi l'amico, ancora sconvolto. Le aveva detto che era una ragazza molto attraente, ma che per farsi apprezzare di più, ad esempio, avrebbe potuto mettere in mostra le sue curve, perché ai ragazzi piacevano e nel dirlo, forse, le si era avvicinato troppo. L'effetto rasentò la catastrofe. Viola si rinchiuse in bagno per ore e a Dario toccò sentirsi i rimproveri di suo padre, intervallati da infiniti: «Te l'avevo detto che non avrebbe funzionato!» Riguardo al suo amico... Non si fermò a dormire e in seguito allentò anche i rapporti con Dario.

    Viola ricordava bene quel fatto: dopo una litigata feroce con suo padre, aveva dovuto scusarsi mille volte per la reazione fuori controllo. A sorpresa, Dario l'aveva perdonata quasi all'istante. Sapeva che il fratello lo aveva fatto in buona fede, ma gli fece promettere di non ripetere mai più quel tipo di esperimenti con lei. Gli aveva detto che non aveva bisogno di un ragazzo e che, al momento, la sua vita le andava benissimo così.

    O no?

    Accarezzando il volto del fratello sulla foto, pensò che avrebbe reso la donna più felice del pianeta qualsiasi compagna si fosse scelto.

    Quindi si concentrò su suo padre: anche in quel lucido ritratto a colori trapelava la sua austerità. Per Viola era il punto di riferimento, colui che un tempo teneva le redini della famiglia. Augusto Marini era il classico capo famiglia, un uomo concreto, legato alla terra in modo viscerale. I suoi genitori erano agricoltori e gli avevano tramandato l'amore per la coltivazione, la fatica e il sacrificio. «Nobili sforzi che alla fine ti ripagano, quando ne raccogli i frutti» sosteneva con orgoglio. Ultimo di cinque figli maschi, aveva iniziato a lavorare molto presto come muratore, continuando a farlo per tutta la vita. Secondo Viola, anche se non aveva potuto proseguire con gli studi, era dotato di un'intelligenza e una saggezza che incantavano. Era ancora un ragazzo quando aveva sposato Margherita, perché era stato un autentico colpo di fulmine e si era impegnato con tutto se stesso per costruire la casa dei loro sogni, adoperandosi di grandi sacrifici, risparmiando sulle spese. Quando terminava la dura giornata in cantiere, lavorava al suo progetto fino a tardi, sabati e domeniche comprese; come diceva lui: «La fatica e il sudore, alla fine, ti ripagano sempre.» La famiglia Marini viveva in una graziosa villetta rosa, sempre ben curata, con un portico che si affacciava sul giardino e un pezzetto d'orto che Augusto coltivava con passione. Forse sperava di trasferire ai figli quell'amore per la terra inculcatogli dai suoi genitori.

    Viola, scrutando l'immagine del padre, pensò che fisicamente assomigliasse a Dario tranne che per lo sguardo. Quello di Augusto era penetrante e severo, poco incline alle manifestazioni d'affetto. Certamente il carattere lo aveva preso dalla madre. Prima della scomparsa della moglie, Augusto era un uomo iperattivo che non oziava mai, nemmeno durante le ferie d'agosto quando la ditta per cui lavorava chiudeva, e neanche d'inverno quando rimaneva a casa in cassa edile. Poi, la sua vita senza Margherita aveva preso una piega diversa. Gli occhi da azzurro cielo erano diventati grigio spento, fumava come un turco e non provvedeva più alla manutenzione ordinaria della casa. L'orto, che tanto amava, era sepolto dalle erbacce. Nei fine settimana partiva di buon'ora e stava via tutto il giorno, rincasando a tarda notte. Diceva alla figlia che andava con gli amici a pescare, ma il più delle volte si intratteneva al bar, a giocare a carte e a bere qualche bicchiere di troppo. Nonostante fosse ancora un uomo di bell'aspetto, agli occhi della gente risultava sciupato e più vecchio rispetto ai suoi anni . Viola non sapeva come aiutarlo. Le poche volte che rimaneva in casa lo esortava lei stessa a uscire, perché pareva un'anima in pena.

    Chiuse di scatto l'album e lo gettò nel cassetto, come se fosse diventato bollente, e temeva che a breve le sarebbe venuto il mal di testa. Lo sguardo si posò sulla scrivania e il suo cuore turbato prese ad accelerare i battiti. La schermata del pc si era illuminata proprio in quell'istante, come se sapesse leggere ciò che stava provando e intendesse consolarla. In realtà si trattava di una risposta. Una risposta tanto agognata a una domanda che pareva perfino inconcepibile da formulare. Viola si avvicinò in punta di piedi, osservando stranita. Eppure, l'immagine era talmente nitida da scioglierle qualsiasi dubbio: si trattava di una mappa stradale che tracciava il percorso per arrivare al suo lago incantato.

    Come diavolo è possibile?

    Pensò a un fenomeno paranormale, ma esorcizzò quell’idea con una risata: non credeva a quelle baggianate e non era affatto spaventata, quindi ragionò a modo suo.

    La vita, ti manda dei segnali. A volte sono deboli e non riesci a percepirli. Altre sono più di uno e allora sei confusa, perché non sai quale scegliere. Però, se arriva quello giusto, non puoi permetterti di ignorarlo, non ti resta altro da fare che seguirlo e accettarne le conseguenze.

    Staccò febbrilmente il pc dal cavo di ricarica e si precipitò nella stanza di Dario. Doveva arrivare a scaricare la mappa prima che potesse sparire. Non si trattava di uno scherzo: il suo posto speciale esisteva veramente, non era una fantasia, era raggiungibile.

    «Ciao Viola, cosa combini nella mia stanza, ricerche per scuola?»

    Non si era accorta della presenza di Dario, tanto era assorta nei suoi pensieri.

    «Che ore sono?» Domandò, ancora imprigionata nella sua bolla fantastica.

    «Sono quasi le nove.»

    Viola capì che non era solo, riusciva a intravedere l'ombra della sua amichetta sulla soglia, quindi si impose di rispettare la promessa di essere più gentile.

    «Ciao Marika, non ci siamo mai presentate... come si deve». Le offrì la mano per prima, lottando contro l'impulso di stritolargliela, e Marika la ricambiò freddamente. Appena compiuto quell'impacciato tentativo di riconciliazione, ricordò con orrore che aveva fatto a pezzi la sua foto. Incrociò le dita, pregando che Marika non badasse a quel dettaglio proprio quella sera, o sarebbe diventata la sospettata numero uno. L'aveva appena beccata andare e venire a piacimento dalla camera del suo fidanzato e, visti i precedenti, non avrebbe esitato a incolparla. Viola decise di far finta di nulla, le sfoderò un sorriso amichevole, evitando l'effetto paralisi, mentre Dario si stava guardando in giro con fare circospetto.

    «Io qui ho finito. Ho stampato quello che mi serviva, vi

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