Illusioni sommerse
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Illusioni sommerse - Cristiano Pedrini
Sommerse
Capitolo Primo
L’ospite
Il fuoco ardeva, rompendo il silenzio della stanza con il suo lieve scoppiettio e proiettando ombre sinuose sulle pareti. Animava i dorsi delle lunghe file di libri, riposti con meticolosa cura sui ripiani delle librerie di frassino che occupavano, con la loro imponenza, tutta la parete a nord di quello che era sempre stato lo studio privato e la biblioteca della blasonata magione edificata in quella località tanto particolare nella metà dell’Ottocento. Un’altra particolarità che faceva di quella stanza un luogo tanto ricercato erano i suggestivi dipinti racchiusi in pesanti e ornate cornici, ma che potevano pregiarsi solo del ruolo di semplici comparse: il loro unico scopo era di circondare il vero e indiscusso protagonista, che in silenzio osservava le fiamme.
Egli si mosse appena, posando le spalle contro la poltrona rivestita di broccato amaranto. Sollevò lo sguardo verso la pendola che al pari di un alfiere sembrava scrutasse ogni sua mossa ricordandogli con il suo interminabile ticchettio lo scorrere del tempo. Socchiuse gli occhi concedendosi gli ultimi istanti di pace che riusciva a cogliere in quella grande casa. Quello era il suo regno, il luogo che nessun altro poteva permettersi di invadere senza pagare il giusto tributo alla sua persona. Un tributo che diveniva, giorno dopo giorno, sempre più oneroso per chi aveva l’ardire di provarci.
Una serie di colpi alla porta riuscirono appena a scalfire quell’atmosfera.
«Signore, è ora» esordì la voce pacata giunta alla sua destra.
Egli girò il viso verso la porta aperta dalla quale penetrava una luce fioca ma capace di scacciare la penombra della stanza. Un sorriso enigmatico comparve su quel volto niveo, accompagnato da un veloce battito delle lunghe ciglia nere come il più prezioso degli opali.
«Grazie, Eleonor. Aspettami nell’atrio» le rispose tornando a fissare il fuoco che iniziava a diminuire d’intensità. Presto si sarebbe spento, consumando le sue ultime energie.
Sorrise ripensando a come quella donna amava chiamarlo. Non usava mai il suo nome, preferendogli quel titolo, pronunciato con un tono solenne che apparteneva a un’epoca remota. Lui, un signore… a ventun anni appena compiuti. Le sue sembianze erano assai più vicine a quelle di un adolescente che a quelle di un individuo che stava per superare gli ultimi confini della maturità. Forse era solo un’altra contraddizione della sua esistenza.
Si rialzò ritrovandosi a fissare il suo riflesso nel grande specchio che mostrava la sua intera figura. Si avvicinò allungando la mano e lasciò che scivolasse lentamente sulla superficie gelida accarezzando i contorni di quel viso che molti avrebbero definito un perfetto connubio di grazia e superbia. La superiorità che lo rendeva al tempo stesso preda e cacciatore, capace di paralizzare con lo sguardo chi aveva dinnanzi, obbligandolo a scegliere quale ruolo assumere. Quello sguardo, impreziosito dagli occhi bruni, tanto gentili quanto amabili, era capace di suscitare invidia e avversione, che poteva crescere a dismisura se, dimenticandosi di essi, ci si addentrava alla scoperta di ciò che quel corpo slanciato e fragile nascondeva.
Si passò le mani tra i capelli castani, le cui sfumature intense riuscivano ad avvolgere il viso simile a quello di una preziosa bambola destinata a essere unicamente ammirata.
Egli indietreggiò e raccolse il bastone posato accanto alla poltrona impugnandone il pomo argentato.
È inutile indugiare oltre convenne incamminandosi verso la porta. Jayce Cavendish doveva tornare a mostrarsi al mondo e lo avrebbe fatto nello stesso identico modo di sempre.
Mentre percorreva il breve tratto di corridoio riusciva a sfoggiare, a ogni passo, la certezza di essere pienamente nel giusto. Il dolce peso di quella condizione lo aveva accompagnato da sempre e aveva imparato a dosarne gli effetti.
Scendendo l’imponente scalone di quella che aveva eletto a sua dimora da pochi anni, la sua attenzione cadde su Eleonor. Il suo sobrio tailleur grigio era in perfetto contrasto con i suoi capelli neri come la seta più preziosa e con l’unico tocco di colore che concedeva al suo viso rotondo, rappresentato dal rossetto di una tinta bordeaux.
La donna accolse il suo arrivo con una riverenza e gli aprì la pesante porta dell’ingresso. «Siamo in ritardo» osservò mentre la oltrepassava.
«Non inizieranno certo senza di me» replicò il ragazzo guardandosi attorno e sorridendo maliziosamente.
Si apprestava a lasciare Derwent Island House. Quella enorme casa, costruita sull’isola di cui portava il nome, era stata una delle numerose residenze della famiglia Grindlay e Jayce l’aveva acquistata da uno dei suoi discendenti senza badare troppo al prezzo. Uscendo si fermò a contemplare l’austera facciata di pietra grigia, ingentilita dagli infissi di colore bianco delle numerose finestre che si aprivano su di essa. Si incamminò lungo il vialetto ricoperto di ghiaia ritrovandosi a passare accanto al terrazzo, nel quale soleva spesso rimanere da solo a leggere i libri della grande biblioteca che vi aveva trovato. A volte gli capitava di interrompere la lettura, come se si sentisse chiamato dalla grande distesa d’acqua che gli pareva di poter toccare.
Lo stesso lago che ora stava attraversando a bordo del motoscafo che rendeva assai breve la traversata.
«Ci rivedremo presto, mio prezioso smeraldo» sussurrò Jayce voltandosi verso l’isola che si allontanava sempre più alla sua vista.
Quel nomignolo lo aveva coniato dopo aver visto una fotografia aerea dell’isola: la villa era circondata dalla vegetazione, una gemma verde immersa in un profondo blu.
«Arriveremo a Londra tra circa sei ore» lo informò Eleonor tenendo lo sguardo fisso sul timone dell’imbarcazione che conduceva con sicurezza.
«Bene…» si limitò a rispondere il ragazzo guardandosi attorno.
Tra poco sarebbero approdati a Keswick, la piccola comunità di quattromila anime adagiata sulle rive del grande lago che aveva scelto come sua residenza.
***
«Sei davvero certo che verrà?» ripeté per l’ennesima volta Giles, guardando di nuovo verso l’imponente vetrina che si affacciava su Marylebone High Street.
Egli aveva ricoperto per svariati anni una carica nell’ufficio marketing della Pan Books. Aveva conosciuto di persona importanti scrittori che avevano pubblicato per la casa editrice, nata in piena Seconda guerra mondiale. Questo prima di rilevare, a sessant’anni compiuti, quella libreria, riversandovi una sostanziosa parte della sua liquidazione, scelta che sua moglie, scomparsa un paio di anni prima, non avrebbe di certo visto di buon grado.
«Ne sono certo. Non può farsi sfuggire l’occasione di sfoggiare la sua arroganza» rispose con sicurezza l’uomo che gli stava accanto.
Quest’ultimo sorseggiò dalla sua coppa lo champagne francese che si era appena versato. Volse poi lo sguardo al ricco buffet che aspettava l’arrivo dei numerosi ospiti attesi a quell’irripetibile avvenimento.
Commenti e giudizi su ciò che sarebbe accaduto avrebbero di certo riempito intere colonne delle cronache mondane. Ma per ora era necessario attendere con pazienza che il protagonista principale per il quale aveva orchestrato tutto ciò si presentasse e accettasse il duello dal quale era certo ne sarebbe uscito vincitore.
«È una giornata importante per la Victoria Hall. Uno dei libri più attesi dell’anno, scritto da Norman Foster, autore di romanzi divenuti bestseller, verrà presentato al pubblico» si compiacque Giles cingendo le mani dietro la schiena. Osservò soddisfatto l’elegante locale arredato con mobili di epoca vittoriana che lo rendevano uno dei più importanti di Londra. Aveva ricercato personalmente ognuno di quei pregevoli pezzi, a partire dalle imponenti librerie di mogano che ospitavano un arcobaleno di colori mostrandosi in una profusione di testi di ogni dimensione, illuminati da lampade sorrette da bracci di ferro battuto fissi alle colonne che intervallavano gli ampi ripiani.
Si voltò e ammirò compiaciuto le fotografie degli autori che aveva conosciuto alla Pan, appese alla parete