One man show
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Riccardo Mai è il comico più famoso e controverso d’Italia. Dissacrante e scorretto sul palcoscenico, schivo e solitario nella vita privata, Riccardo non appare in televisione da diversi anni e si esibisce soltanto in teatri selezionati dove riscuote sempre il tutto esaurito. Durante un’uscita in incognito incontra per caso Oksana, una giovane studentessa intrisa di ideali progressisti con cui comincia un’assidua frequentazione che mette in discussione le sue certezze. Quando gli viene proposto di tornare in televisione in cambio di una cifra da capogiro, si trova di fronte a un bivio: cedere ancora una volta alle lusinghe della celebrità, o cambiare vita e sparire definitivamente dalla scena pubblica?
Giuseppe Velasco è autore e musicista. Ha scritto testi per radio, televisione e teatro ed è compositore di brani musicali per il catalogo Universal. Nel 2015 ha scritto e diretto la commedia teatrale Soli al mondo. Due fratelli, un pianeta, niente da perdere. Ha pubblicato i romanzi Cuore di picche (2017), Mario Vergine, un uomo tutto casa e chiesa (2018) e One man show (2021).
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Anteprima del libro
One man show - Giuseppe Velasco
9788825406221
Salve a tutti
Salve a tutti. Come va? Bene? Ovvio. Stanno sempre tutti bene. Tutti, tranne io. L’unico che sta male sono io. E sapere di essere l’unico a soffrire mentre voi vi divertite mi fa sentire persino peggio. Grazie.
Oggi però sto meglio del solito. La giornata è cominciata bene. Stamattina mi ha chiamato la mia ex. Sei mesi fa, lei mi ha lasciato. È andata via con un altro. Ma siamo rimasti in ottimi rapporti, io e la zoccola.
Mi ha chiamato per dirmi che si sposa. Gentile, no? Forse lei pensava che la cosa mi avrebbe fatto morire di rabbia. Invece per me è una splendida notizia. Perché se lei si sposa, anche la sua vita andrà in malora. Non sarò io l’unico ad angosciarsi.
Molti mi chiedono: – Perché non vuoi sposarti? – Beh, non saprei. In effetti la prospettiva di perdere casa, conto in banca e mantenere una ex moglie per il resto dei miei giorni è così allettante!
Sul serio, quando si parla di matrimonio la gente perde il senso della ragione. Voglio dire, non leggete le statistiche? Tre matrimoni su quattro finiscono con il divorzio. E il quarto finisce pure peggio: i due poveretti restano insieme a litigare per tutta la vita.
Immaginate di dover comprare una macchina e il rivenditore vi propone un modello nuovo fiammante, che però ha soltanto un difetto: tre volte su quattro, salta in aria. Boom! Voi la comprereste? No. Ecco, il matrimonio ha le stesse percentuali di successo di quell’automobile. Sposarsi è come puntare i risparmi di una vita su un cavallo zoppo. Eppure milioni di persone continuano a farlo, illudendosi che a loro andrà bene. Li incontri per strada e ti dicono: – È la donna della mia vita! – e due mesi dopo li ritrovi a dormire in macchina e bere Tavernello a colazione.
Lo so, sono esagerato. Forse perché sono ancora scottato dalla storia con la mia ex. Io l’amavo alla follia. Mi ero pure tatuato il suo nome qui sul petto:
LIVIA
Grave errore. Quando se n’è andata, oltre ai vari sbattimenti avevo anche il problema del tatuaggio. Che fare? Cancellarlo con il laser fa un male cane e costa un occhio della testa. Alla fine ho avuto l’intuizione: anziché rimuoverlo, l’ho fatto estendere. Adesso dice:
LIVIA
TROIA
Molto meglio.
Sold out
Il telefono freme sopra il comodino penetrando i miei sogni, spietato come un trapano nella mia testa. Scava così forte che mi sanguina il cervello. Maledetta vibrazione che dimentico sempre di disattivare, maledetti rum e coca che non smetto mai di ordinare, maledetti tutti i vizi che non riesco più a frenare. Ho una spalla ammaccata, i pensieri annebbiati, la vista maculata. Il soffitto scuro pulsa come le casse degli altoparlanti a un concerto metal. Bum bum bum, tequila e poi rum. Allungo il braccio per raccogliere il telefonino, tanto so già chi è: l’unica persona ad avere il mio numero, la donna che tiene in pugno la mia povera anima persa. Marta Meratti, la mia agente. Sento la scocca liscia del cellulare sguisciare viscida sotto le mie dita, infine acciuffo l’ordigno e me lo porto all’orecchio con una certa dose di masochismo.
– Sì – rispondo.
– Riccardo.
– Sono io. Dimmi qualcosa che ancora non so.
– Cretino.
– Anche questo lo so già.
– Appena sveglio e già in vena di sfornare battute? Si sente dalla voce che stavi ancora nel mondo dei sogni.
– Degli incubi, piuttosto. E se parlo con te di primo mattino, vuol dire che non ne sono ancora uscito.
– Primo mattino? Riccardo, sono le tre e mezza.
– Di notte?
– Del pomeriggio. Dio mio. Ti svegli ogni giorno più tardi.
– Può essere. Ma guarda il lato positivo: se continuo così, a un certo punto e finirò per svegliarmi anche io alle 7 del mattino come i comuni morti di fame in giro su questo pianeta.
– Ci credo poco. Comunque, come mai sei ancora in albergo? Perché sei in albergo, vero? Non dirmi che hai passato la notte a casa di qualche sconosciuta che hai rimorchiato al bar o peggio ancora tra il pubblico di ieri sera?
– Buona domanda. Fammi controllare.
Sollevo leggermente la testa, mi guardo intorno e non vedo nessuno. La stanza vuota non dà segni di vita, si limita a sfoggiare il suo arredamento lussuoso e allo stesso tempo dozzinale tipico delle suite dei Grand Hotel di provincia. Infine adocchio il mio borsone abbandonato sul pavimento in fondo alla camera. Non ci sono dubbi: è una stanza d’albergo. La mia. Almeno spero.
– Confermo: sono ancora in hotel.
– Fantastico – commenta Marta con il sarcasmo che me la rende ancora simpatica, o quantomeno sopportabile. – Il check out era a mezzogiorno. Come sempre la tua sonnolenza prolungata ci costa l’equivalente di due notti.
– Ci costa? Mi costa. Quello che spendo in albergo fa parte della sfera dei cazzi miei, Marta.
– Sono anche miei, quando si parla di budget.
Budget. La parola magica che Marta utilizza per evitare di pronunciare il termine più oltraggioso nel vocabolario della lingua italiana: soldi.
– Comunque devi muovere il culo – continua la mia dolce agente con tono da Ghestapo maldestro. – Ti aspettano alle 19 in teatro a Verona per il sound check.
– Ancora con questa storia del sound check? Il mio spettacolo non è un concerto rock. Io sono un comico, Marta. Entro in scena, prendo in mano il microfono, sparo cazzate per 75 minuti di fila e quando ho terminato vado via tra gli applausi. Non c’è alcun bisogno di fare un sound check.
– Ne abbiamo già discusso, Riccardo. I tecnici che lavorano alla tua tournée richiedono quanto meno un test luci e audio in loco ad ogni tappa. Io non me la sento di rifiutare. Ci sono certi standard che preferisco mantenere, lo sai. Non vorrei che tra gli addetti ai lavori si spargesse la voce che Riccardo Mai entra in scena completamente allo sbaraglio, senza neanche uno straccio di sound check. È una questione di professionalità.
– No, è una colossale perdita di tempo. Ma va bene, facciamolo, questo maledetto sound check. Mi preparo, mangio un panino e prendo il primo treno per Verona, ok?
– Trenooo?? Ma sei pazzo? Riccardo Mai non prende il treno! Immagina se qualcuno tra i passeggeri ti riconoscesse, seduto nel carro bestiame come i comuni… come li hai chiamati?
– Morti di fame.
– Esatto.
– Dai, Marta. Non essere paranoica. Lo sai che ormai per strada non mi riconosce quasi più nessuno. Mi basterà tirare sù il bavero della giacca, mettere cappello e occhiali da sole e passerò praticamente inosservato. Il pubblico ha la memoria corta, lo sai. Del resto, non appaio in televisione da quasi quindici anni.
– Appunto. Quindici anni passati a coltivare il mito dell’artista eremita e schivo che si esibisce soltanto in teatri selezionati – e pagando caro il biglietto. Vorresti mandare tutto in vacca montando su un treno puzzolente carico di pendolari? Non esiste. Ti mando io una macchina. Tra un’ora esatta, va bene?
– Facciamo 75 minuti. Lo sai che è il mio tempo di scena standard.
– Va bene, alle 16.45 allora. Datti una mossa. E cerca di restare sobrio, per favore. Stasera il teatro è tutto esaurito.
Come se non lo sapessi. Tutte le sere, ogni teatro dove mi esibisco è tutto esaurito. Ogni tappa del tour è andata sold out in meno di mezza giornata. Tutti vogliono vedermi in scena. Tutti vogliono vedere Riccardo Mai sbraitare dal palco il suo rancore al mondo intero. Tutti, anche quelli che mi odiano. Specialmente quelli che mi odiano. Animalisti, attivisti, pacifisti, vegani, ecologisti, femministe, politici, religiosi, forze dell’ordine, perbenisti di destra, sinistra e centro; persino dentisti, notai e avvocati ormai non mi sopportano più. In anni e anni di onorata carriera sono riuscito a tirarmi contro quasi tutte le associazioni di categoria del Bel Paese. E tra i professionisti che vorrebbero vedermi pendere dalla forca, quelli che si danno da fare più di tutti per disintegrarmi sono, ovviamente, i giornalisti. Poveri cuccioli. Orde di scrittori mancati, autori senza fantasia ancorati a scrivanie polverose in balia di sadici direttori che ogni giorno minacciano di mandarli via a pedate nel culo dalle loro prestigiose redazioni. Sognavano il premio Pulitzer e si sono risvegliati a rincorrere assessori comunali o commessi parlamentari per ottenere uno straccio di dichiarazione su cui ricamare sopra un trafiletto da duemila battute, il minimo sindacale per portare a casa la giornata. Cronisti pagati al rigo per giornali che non vendono più una copia e vanno avanti a contributi statali. I giornalisti mi detestano dal profondo delle loro luride budella, lo so. Ma ciascuno di loro cagherebbe sulla tomba della madre per avere un’intervista esclusiva con me. Ipocriti. Ma ci sono abituato: là fuori ci sono masse di persone che vorrebbero strangolarmi con le loro mani, ma che poi ritrovo in fila ogni sera davanti al teatro di turno, docili, obbedienti, sventolando il biglietto per venirmi a sentire. Pecore. Più ci penso, più mi disgustano. Più li disprezzo, più li beffeggio. È questa un po' la chiave del mio successo: trovare sempre nuovi giochi di parole per frantumare le loro fragili menti. Sbaragliare i loro deboli neuroni confusi.