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Memorie della casa terrana
Memorie della casa terrana
Memorie della casa terrana
E-book484 pagine7 ore

Memorie della casa terrana

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Info su questo ebook

In un tempo favoloso, sullo sfondo della Sicilia del ‘600, si svolge la saga delle famiglie Alessi, Guzzardi e Mazzara, con Enrichetta che ha la dote di interagire con i fantasmi degli antenati, e sua sorella gemella Lucrezia che, invece, è attaccata a terra e nella sua solitudine interiore alterna fasi depressive a fasi maniacali di iperattività.
La vicenda delle due sorelle si intreccia a quella degli altri personaggi, tra innamoramenti, matrimoni, segregazioni, le profezie dello sciamano, le sentenze del mendicante filosofo, la peste, imprese commerciali ed eredità contestate.
L’esistenza nella piccola città, tra vicoli, scale, cortili, palazzi, case povere, la piazza delle discussioni collettive, rimane sempre uguale a se stessa, consumando i suoi riti fatti di tradizioni antiche. É un mondo che, come tutti i mondi, vive, si affanna, e pensa di non finire mai. Ma l’imponderabile è sempre in agguato e trascende le vanità e le velleità umane, e solo la magia creatrice dei ricordi potrà salvare le memorie della piccola città e della vecchia casa terrana.
LinguaItaliano
Data di uscita15 mag 2023
ISBN9788832281811
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    Anteprima del libro

    Memorie della casa terrana - Nino Tribulato

    Copyright

    © Argot edizioni

    © Andrea Giannasi editore

    Lucca maggio 2023

    ISBN 9788832281811

    Epigrafe

    Abbiamo tutti le nostre macchine del tempo.

    Alcune ci riportano indietro e si chiamano memorie,

    altre ci portano avanti e si chiamano sogni.

    Jeremy Irons

    Dedica

    Alla mia splendida famiglia senza dubbio, e ai miei nipoti che, a tempo debito, scopriranno un nonno diverso.

    1.

    Quando Jacopo Guzzardi nacque nella vecchia casa terrana che dalla collina sfrangiata del Piano della Fiera si affacciava sulla vallata appena socchiusa di San Paolo, la piccola città continuava a vivere nella sua placida e trasognata quotidianità che sembrava non sarebbe finita mai.

    Nacque all'improvviso di sette mesi in quella casa con le soglie alte e i giardini intensi dove un tempo arrivava silenzioso il vuoto del mare, mentre sua madre, Enrichetta Alessi, tranquilla nei suoi occhi socchiusi e nelle sue ossa lunghe e sode, sapeva che era maschio non dai calci o dai rivoltamenti nel ventre ma dal sapore minerale del cuore.

    Enrichetta aveva attraversato la gravidanza con la leggerezza disincantata e la disinvoltura di sempre. Non aveva rinunciato a fare la verticale per guardare meglio cosa facevano i ragni sotto i mobili, e si muoveva nella luminosa varietà della sua insolita natura per continuare a sentire il gusto delle passioni naviganti. Nessuna privazione nella sua vita: che agli altri continuava a mostrarsi disordinata tra le sue bizzarre alternanze. Solo di tanto in tanto restava sorpresa dai tumulti segreti: quando perdeva quota la sua consueta vivacità.

    Non si era fermata neanche nel momento in cui, portata in groppa dal drago che dorme sempre sotto i fondali marini, era arrivata un’altra volta quella solita scossa che veniva dal mare tra i banchi di sabbia e le scogliere e aveva il potere di fare cadere i calcinacci e molti frutti dolci, e scuoteva dalle fondamenta anche i ricordi.

    Aveva dovuto solo imparare ad equilibrare il peso variabile del corpo: con quegli stessi sforzi svelti che a volte si fanno per risolvere i problemi dell'anima.

    Un giorno si era messa a testa in giù e piroettava accanto a un braciere di ottone macerato dal sole e dalla pioggia. Sembrava una di quelle statuette di porcellana sempre in posa che si trovano nelle case delle bambole. Cercava di convincere un essere timido - che per riscaldarsi si era nascosto sotto il braciere - a portare fuori il suo chiacchierio segreto. Gli parlava con il suo tono accattivante e un po’ velato. Nel frattempo muoveva le braccia e con un piumino cercava di aiutarlo a venire fuori. Tentava di fargli capire che le piogge irruente non colpiscono solo gli occhi logorati ma, a caso, anche gli alberi perennemente in fiore.

    In quel momento entrò nella stanza la signora della casa accanto, alta e fitta come uno steccato, che con le sue storie lente riusciva a stendere i nervi perfino ai due collerici galli del pollaio.

    Vide Enrichetta a testa in giù, tutta rossa in viso, che sembrava voler pulire a fondo anche i cantucci più nascosti. Le rimase annidata negli occhi l’immagine inconsueta di una donna già pesante - eppure ancora inspiegabilmente esile - che aveva la facoltà di equilibrare il peso del corpo e passava da una posizione irreale all’altra, senza mai lasciare capire se avesse trovato quella che le assicurava un minimo di stabilità. Uscì e si sentì spronata a descrivere a tutti i piccoli gridi di gioia che aveva sentito, mentre per la casa vagava l’eccitata sensazione che tutto ciò che si immagina possa diventare reale. Narrò che Enrichetta si agitava a gambe all’aria, muovendo la vita che sapeva di minuscoli fiori gialli e i fianchi colmi che odoravano di paglia marina, e lasciava immaginare pure le isole misteriose che vengono sommerse dal mare.

    La notizia delle strane piroette di Enrichetta, e dei suoi piccoli gridi di gioia, si era sparsa con rapidità in giro per la piazza del mercato.

    Nessuna meraviglia che a casa Guzzardi, utilizzando le scuse e i pretesti più impensati, si susseguissero le visite di donne paludate in abiti pretenziosi e quelle di uomini dalla fronte decisa che chiedevano con sussiego il permesso di entrare. Nessuna sorpresa che si accumulassero i tentativi di ispezionare anche i più invisibili recessi nei tiepidi muri di arenaria: per affrontare da tutti i lati l'enigma delle reali inclinazioni di Enrichetta, e cercare con discrezione di risolverlo.

    Inutile riferire della contraddittoria molteplicità dei punti di vista e delle opinioni. Estraniamento del corpo dallo spirito, sbuffava con ostentazione qualche giureconsulto.

    Alcuni etichettavano quei comportamenti di Enrichetta come mezzucci che utilizzano i poveri di spirito. Quelli che per farsi notare esibiscono le difformità nel fisico e nei comportamenti, perché non riescono a conquistare altrimenti la ribalta: anche se non sono capaci di orientarsi al minimo scarto della biglia dal percorso assegnato.

    Solo i veri iniziati non restavano confusi. Soltanto loro intuivano che Enrichetta, malgrado le sue strane piroette, non era un'esibizionista.

    La maggior parte, che neanche ammettevano che potessero esistere altri modi di essere e di sentire oltre il loro, oltre il mare che circonda e isola, non facevano alcuna ricerca. Concludevano con arbitrio che quei comportamenti originali erano soltanto il frutto di una insana passione per la pulizia.

    Non consideravano che ci sono quelli che evadono: quelli che passano non solo materialmente il mare e vanno spassionati per la vita.

    E così ogni intenzione di Enrichetta era ridotta al rassicurante problema del giornaliero governo della casa. Come se fosse possibile liberarla dalla traccia di polvere smeraldina che si accumula se si lasciano vagare da ogni parte senza controllo tutti i soffi del cuore.

    Enrichetta non voleva incrinata la sua reputazione e, per non sentirsi troppo diversa, dava a intendere che quella era l’interpretazione esatta. Quando accoglieva i visitatori dava prova di assoluta compostezza e di diligente conduzione della casa. Continuava a spazzare in maniera attenta, cercando di non fare scoprire la leggera resistenza che metteva quando doveva fare le sue gite sotto i mobili. In questo modo casa Guzzardi, agli occhi inadatti dei visitatori occasionali, dava l’impressione di essere tersa e pulita in ogni angolo più recondito: come il cielo di dicembre appena spazzato dalla tramontana.

    Ma non era così.

    Nessuna delle confuse impressioni espresse aveva mai raggiunto la vera essenza della casa e l’effettiva indole di Enrichetta, che voleva essere ospite attenta e premurosa.

    Chi aveva la predisposizione per saper annusare col cuore, avvertiva vicino a lei un pulviscolo impalpabile di altri esseri viventi, che si attaccava alle mani, al viso, ai vestiti: anche al cenno degli occhi.

    Chi avesse avuto facoltà di sensitivo, avrebbe avvertito che Enrichetta aveva la magica dote di interagire con tutti i fantasmi dei suoi antenati che fluttuavano e riempivano la vecchia casa terrana che dalla collina sfrangiata del Piano della Fiera si affacciava sulla vallata appena socchiusa di San Paolo.

    Ecco perché, quando si lasciava vincere da un chiaro di luna diceva: E se qualcuno di voi avesse deciso di reincarnarsi in uno degli insetti, dei moscerini, dei topi, dei ragni di casa, an­che solo per riprovare per un attimo la pesantezza del corpo? Come posso pensare di distruggerli?.

    Quando la sentivano parlare in quel modo, tutti i fantasmi si muovevano vorticosamente, in un’atmosfera che imitava bene il volo degli uccelli: perché sapevano che con Enrichetta avevano la possibilità di abbandonare, se volevano, i loro giochi solitari.

    Ecco perché lei lasciava che la casa continuasse a pullulare di tutte le specie possibili di esseri viventi, anche se il suo prozio don Consalvo Alessi Butera - che era vissuto circa due secoli prima - fluttuando a tre metri d'altezza le diceva: Ma che dici. Noi reincarnarci dopo che finalmente abbiamo riacquistato la leggerezza e il dono dell'ubiquità; la capacità di dormire a scelta nel bosco, sulle acque o nei tuoi occhi?.

    Don Consalvo era stato un omone alto e corpulento sin da quando gli erano spuntati i primi peli irsuti sulle guance. La sua fenomenale grassezza addirittura non gli consentiva di annodarsi le stringhe delle scarpe. Per tutta la sua vita terrena, durata quasi ottant’anni, aveva trascinato la sua pesantezza con orgoglio esteriore ma con intima insoddisfazione.

    Ogni tanto metteva la sua armatura indimenticabile di acciaio profumato, e montava il suo cavallo preferito: un sauro dorato dall’andatura competente e aggraziata. Passava di strada in strada e suscitava stupore intorno a sé: alto, imponente, gigantesco, terribile, anche se tanto greve da non potersi quasi muovere.

    Quando a passi lunghi e imperiosi attraversava a fiotti la piazza del mercato per andare al palazzo del Senato, con lo sguardo diritto e gli stivali lucidi, più alto degli altri di almeno una spanna, la gente si scansava rapida per non essere travolta: come la marea che si ritira.

    Agli altri, guardando la scorza, pareva che tutto andasse per il meglio nella sua esistenza. Invece lui per tutta la vita aveva desiderato di essere leggero e agile: come un'ombra. Di non avere quelle manone che sembravano pale da forno; quel vocione cupo e profondo. Di non doversi sempre preoccupare degli strappi nelle pietre delle strade che al passare provocava con il suo peso. E ora che da oltre un secolo, passati gli anni tormentati dell’illusione delle armi, si godeva il piacere di essere immateriale, come si poteva pensare che volesse reincarnarsi, anche se in un corpo minuscolo, agile e leggero e solo per pochi attimi? Perché avrebbe dovuto risentire anche solo l’odore del suo pesante passato?

    Dovranno passare almeno altri cento anni perché lo zio Consalvo si liberi del tutto dal ricordo del fastidio del peso del corpo, diceva Enrichetta: compiaciuta del prestigio che il prozio era riuscito a ottenere quando era in vita.

    Dovranno passare almeno duecento anni perché cominci a desiderare di tornare un’altra volta a tenere d’occhio gli oggetti, a scansare i muri e gli alberi, e ad avere voglia di scontrarsi ancora con gli ostacoli del vivere quotidiano, aggiungeva di rincalzo.

    Enrichetta, però, dubitava. Ben sapeva che il divario difficilmente colmabile fra corpo e spirito a volte non smette di tormentare. E non lo trascurava. Per precauzione, perciò, continuava a risparmiare i colpi di scopa, a fare finta di pulire sotto i mobili, e ad accumulare in casa altre creature. Perché anche i fantasmi conservano la natura e la caducità umana e dimenticano. È solo questione di tempo, e poi ogni cosa si attenua, si addolcisce, cambia e si stempera, anche il ricordo della pesantezza del corpo.

    Enrichetta lo sapeva. Sapeva che all'improvviso, quando ormai la pioggia e il sole hanno demolito i ricordi, compare una sorta di aridità al naso; e urge dentro il desiderio di confrontarsi un'altra volta con le avversità pallide e dolci della sostanza materiale.

    Una bella mattina, per il piacere di fare nuove esperienze, a turno i tanti fantasmi della vecchia casa terrana avrebbero cercato rifugio in altre realtà corporee. Visitato tutti i posti di raccolta. Inseguito per tutte le stanze corpi nei quali materializzarsi, per ristorarsi anche solo per poco dalla noia dell'immaterialità. E per difendersi dal pericolo, mortale per l’anima, di naufragare nella mera spiritualità.

    Enrichetta lo sapeva bene. Per questo aveva sistemato per tutta la casa vasi di pietra bianca pieni di acqua benedetta e petali di rosa, per consentire ai suoi fantasmi di dissetarsi e risentire il piacere dei brividi di freddo sulla pelle. E per questo certe sere apriva tutte le porte blindate della fantasia. Si legava i capelli dietro la nuca per avere un’aria più familiare, quasi intima. Si sedeva con le gambe incrociate, sollevandosi qualche centimetro da terra. Raccoglieva attorno a sé i fantasmi dei suoi antenati che in quel momento erano più irrequieti. Senza che se ne rendessero conto, li aiutava a scucire i loro ricordi. Si faceva recitare brani delle loro storie: persino di quelle che sapevano appena di carta velina bianca. E se ne stava sorniona, bella e ingorda ad ascoltare tutti i loro quadri, e li aiutava, se volevano, a scovare il corpo giusto in cui reincarnarsi, tra i tanti che andava mettendo da parte.

    Tutto questo accadeva quasi in silenzio, in quello scorcio di secolo schiacciato dalle nubi, in quella piccola città che giaceva sonnolenta, cullata dal cigolio dei galli dei suoi ventidue campanili e dalle brezze delle colline che attorno riempivano il cielo, e prosperava serena sulla fertile fantasia dei suoi campi.

    Mentre l’eredità antica dei tanti popoli sovrapposti che in Sicilia si incrociano e si distendono l’uno sull’altro, continuava a lasciare in giro il suo lungo e remoto sedimento sottile.

    2.

    Don Saverio, il padre di Enrichetta, era un uomo molto rispettato per il suo carattere deciso, il sorriso accattivante e le guance belle piene, sode e floride che gli incorniciavano il volto. Erano il suo segno distintivo, indice di risolutezza, insieme alla spalla destra un po’ piegata di lato quando camminava, alle palpebre degli occhi segnati da un sottile filo nero, e al lungo sigaro che gli pendeva dalle labbra. Lo accendeva non appena usciva di casa quando si dirigeva verso la piazza del mercato, della quale avvertiva sempre la mancanza perché era il centro pulsante di vita della piccola città.

    Don Saverio era sempre stato sin da bambino uomo di piazza. Era il posto dove si realizzava, aggirandosi sicuro come nel ventre di sua madre. Certe volte, per aumentare il suo prestigio e la sua presenza scenica, si metteva un panciotto antiquato e il cappello nero ad ali di corvo. Tutti lo conoscevano, e per tutti col suo cuore tenero aveva un motto, uno sberleffo, un consiglio. Rigirandosi il sigaro tra i denti, non faceva distinzioni tra quartarari¹, pescatori, contadini, nobili, mercanti, imbroglioni, fattucchiere, donne dalle carni aperte e mancatori di parola. Era sempre pronto a confrontarsi con tutti perché era capace di riconoscere le amarezze della storia di ognuno.

    Quello che più lo intrigava era Filippo Boccadifuoco, che nella piazza del mercato esercitava la professione di mendicante - filosofo.

    Era mendicante non per le disavventure della vita che lo avevano reso ipovedente, ma per libera scelta: lui diceva forse per predestinazione. In realtà aveva trovato la via più breve verso il destino assegnato, perché senza rimpianti aveva seguito la nuova strada, tracciata dall’arrivo delle ombre di una sera perenne, su una vocazione che non era mai stata appassionata.

    Prima che il male agli occhi lo votasse al mestiere di mendicante filosofo, era stato un vasaio esperto, come tutti i maschi della sua famiglia.

    Nella sua lunga storia, per propagandarne i caratteri tra l’incrocio di razze, di stature, di colori, di corporatura, di idiomi, non si era fatto ricorso alla accanita ripetizione della litania dei nomi, ma alla reiterazione del mestiere di vasaio che aveva marcato tutti i primogeniti come un segno tragico. Non importava se fossero impulsivi o sonnolenti, ossuti o monumentali: erano tutti eredi di quella scienza sacra. Avevano messo le mani nell’argilla prima ancora di cominciare a camminare, e avevano continuato a rovistarla ognuno con le sue particolarità.

    Se la ripetizione della litania dei nomi non era mai stato un segno distintivo della sua famiglia, da tempo immemorabile lo era diventato il cognome. Nessuno ricordava da quando e da dove era spuntato quel cognome così impegnativo. Quelli benevoli lo attribuivano alle doti di oratore infiammato di uno dei suoi antenati. Mentre i maligni sussurravano di altre doti, non espresse con la voce, di una sua antenata famosa non solo per la bellezza, ma anche per l’esuberanza e la dissolutezza.

    Filippo, come tutti, era nato nel rione dei quartarari, che era una città dentro la città.

    Suo padre Cirino, oltre a essere un vasaio musicista, faceva pure il saltimbanco da fiera. Girava per tutti i paesi su un carro con le sue mercanzie, facendosi accompagnare da una scimmia ammaestrata, che quando camminava ricordava l’incedere di quegli uomini sognatori che ancora sono molto vicini alle fronde degli alberi. Aveva imparato da suo padre l’arte di confezionare vasi che, al tocco sapiente di chi sapeva capirli, si mettevano a cantare. Era diventato così bravo che aveva ottenuto la licenza di insegnare musica e canto nelle scuole e nei conventi della piccola città, usando i suoi vasi così particolari. Avrebbe voluto che con lui non si estinguesse una tradizione che si perdeva nella notte dei secoli. Alla fine però era caduto in uno stato di incuria per un matrimonio sbagliato con una donna incapace di sentire persino il suono della fanfara. Gli aveva dato figli tutti stonati come lei e del tutto negati per l’arte dei suoni. Neanche Filippo, il primogenito, aveva alcuna propensione per la musica. A differenza di suo padre, non era mai stato capace di accordare e fare cantare i vasi

    Per cui Cirino aveva finito per deprimersi, dato che non vi era la minima possibilità che uno dei suoi figli avesse la capacità di accordare i vasi per farli cantare. E così andava dicendo in giro, quasi per autogiustificarsi di un fallimento che non era il suo ma nel divenire delle cose: "Non è che i miei figli siano negati per tutto, è che la musica non è il loro mondo".

    Il suo però era solo un fatalismo di facciata. Perché aveva tentato in tutti i modi di correggere il destino di Filippo e dei suoi fratelli. Aveva riempito la bottega di tutte le scatole musicali che aveva potuto trovare. Aveva spolverato un’arpa molto antica. L’aveva accordata e intonata con una perseveranza che si poteva capire solo grazie all’amore: sperando che quello dei suoi figli fosse solo un problema di adeguatezza dello strumento. Prima di tentare un’altra volta di insegnargli a suonare, era riuscito a spingerli a cantare le canzoni più orecchiabili. Per rispetto verso il padre i ragazzi non si erano sottratti. Ma, malgrado tutti i tentativi, avevano cantato ogni volta esibendo sempre la voce manigolda e l’orecchio insensibile che né gli anni né i torbidi ricordi avevano cambiato.

    Forse perché era consapevole di essere l’ultimo della sua famiglia che aveva quella dote così particolare, e che dopo di lui ci sarebbe stato il silenzio, Cirino da recente suonava la musica più magica che si fosse mai ascoltata nella piccola città: una musica calda, semplice, immediata.

    L’unica cosa di bianco che ha è il colore dicevano i suoi ammiratori, quando lui si metteva sull’uscio della bottega e percuoteva i vasi, lasciando andare in giro quei suoni colorati che ricolmavano tutti gli spazi della piazzetta del rione dei quartarari.

    Una mattina lo avevano trovato morto, sebbene la sera prima avesse dato prova di vitalità in una delle sue esibizioni più coinvolgenti. Venne stabilito che non era morto di crepacuore ma per un grande sforzo di volontà. Non voleva arrivare al momento in cui gli si sarebbero rattrappite le dita, senza più dargli la possibilità di continuare a far cantare i vasi.

    Filippo, forse perché era la prova vivente della perdita definitiva delle capacità della sua famiglia, e forse perché si sentiva umiliato dal portare quel cognome che era così lungo da diventare quasi musicale, a un certo punto aveva scarrocciato. Gli occhi gli si erano improvvisamente velati fino a fargli scorgere solo le ombre.

    Un giorno nella piazzetta del rione dei quartarari stavano finendo di fabbricare la giara più grande che si fosse mai vista. Nessuno si era reso conto che non sarebbe mai potuta andare oltre la piazzetta, perché tutte le strade erano tortuose e strette. Solo l’illusione della musica dei vasi avrebbe potuto farla sollevare per aria. Tutti d’istinto si giravano verso la bottega di Cirino e sospiravano quando si rendevano conto che non c’era più.

    Filippo, malgrado gli occhi ormai velati, ne aveva preso atto, perché aveva un intuito da contrabbandiere. Senza dire nulla aveva posato in un angolo gli attrezzi, se ne era andato nella piazza del mercato e vi si era insediato. Aveva cominciato a battere nuove vie della conoscenza e a guardare la vita da una prospettiva inconsueta. Aveva capito che il tempo può avere una misura diversa; e che cambiando modo di osservazione si può riscoprire il mistero di un nuovo sorgere del sole.

    Non si era soltanto preso una lunga vacanza dall’abitudine di fare girare l’argilla, fino a quando magicamente prendeva una delle varie forme rotonde che gli avevano insegnato a darle. Il ritmo delle sue giornate si era trasformato, persino la distanza dalle cose. Ormai anche la sola parola lavoro lo atterriva.

    Cambiando vita aveva ritrovato il gusto della scoperta e, con occhi diafani, aveva cominciato a guardare il mondo come un intreccio molto più complicato. Non aveva più dato retta a tutte le proibizioni che fino ad allora gli avevano reso la vita ingessata. Emanciparsi dal problema del lavoro gli aveva ridato il senso della vastità del mondo, e gli aveva fatto riscoprire l’umanità, quella di cui, a forza di andare dietro ai problemi di ogni giorno, si dimentica la diversità. Ora non gli passava più sopra la testa, la viveva nell’anima, e sorprendeva tutti i veri ciechi che, nella loro limitata percezione dell’esistenza, avevano dimenticato a guardare e ad ascoltare.

    Non abbandonava mai la piazza del mercato: era la sua casa. A poco a poco ne aveva acquisito, per osmosi, gli umori e le frontiere segnate dalla natura e dalla storia. La piazza era anche il posto della sua nuova occupazione: perché Filippo dispensava a tutti aforismi e sentenze, in apparenza per semplice vocazione. Quello era diventato il suo nuovo sistema per vivere, perché, senza avere mai avuto bisogno di chiedere, non vi era giorno che la sua scodella non fosse riempita di cibo, e non vi era stagione in cui non ritrovasse accanto alla sua cuccia un abito dismesso. Ma non era per nulla attaccato ai disegni materiali della vita. Vestiva di stracci con una nobiltà poetica, che non avrebbe mai barattato con niente e con nessuno. In realtà, ciò che gli interessava non era il compenso, ma il fatto che tutti venissero a cercarlo.

    Si raccontava che, pur in quella condizione e in quell’habitat precario, innumerevoli donne erano venute per amarlo e per risolvere la sua solitudine, e che tutte se ne andavano con il tremito alle mani dicendo che non poteva esserci al mondo un uomo capace di comprenderle meglio. Lo cercavano per quello che era: un uomo dagli occhi sempre sbalorditi che le lasciava sorprese, perché le avvolgeva in una specie di gioiosa letargia, e dava la sensazione di fare decelerare il mondo fino a bloccarlo. Lui neanche le volte in cui era molto attratto si torceva mai di gelosie retrospettive, pensando che quella di turno fosse più esperta e smaliziata di quello che dava a vedere. In realtà neanche lui poteva parlare, perché diceva a ognuna che era la prima e sua unica amante.

    Dopo quei convegni accidentali, il suo universo ricominciava a muoversi nelle sue solite direzioni. Certe volte però si metteva a ruggire con un’irrequietezza che meravigliava. Non erano mai ruggiti di guerra, ma di disprezzo per quelle persone dai sentimenti irrecuperabili che attraversavano la piazza. Altre volte lo si vedeva aggirarsi tra i banchi del mercato con paramenti improponibili. Ma li portava con tale disinvoltura e intima signorilità, che non riusciva a farlo apparire sgradevole neanche la puzza millenaria che si fiutava a distanza quando arrivava. Perché Filippo, da quando aveva lasciato il rione dei quartarari, non si era mai lavato.

    É uno spreco di energie diceva, e di opportunità, continuava. La pelle non serve solo a difendere meglio il corpo, ma a preservare l’anima e le idee. Più coperta è, meglio è: la mente si concentra con più facilità. Non è opportuno che stia troppo in superficie. E si allontanava con il suo passo ballonzolante e i suoi vestiti stracciati, verso un’altra sentenza da dettare, senza essere mai sboccato neanche quando diceva la verità più cruda.

    A poco a poco aveva acquistato un’autorevolezza che non faceva il paio con la sua collocazione sociale e con le sue vesti che puzzavano di tutti gli odori della terra. Ma nessuno se ne accorse mai, perché aveva un aroma da beduino infedele che, chissà perché, rammentava i profumi di un sovrano con la cappa d’ermellino. E la sua non era una regalità attestata da decorazioni, ma un prestigio che tutti consideravano legittimo.

    La sua faccia rugosa di vecchio bambino, i suoi grandi occhi malinconici, i capelli così sporchi e unti da sembrare impomatati, mettevano tutti di fronte alla sua indifferenza per i bisogni terreni; alla sua protesta contro tutti gli stereotipi del vivere quotidiano, con le sue apparenti insopprimibili necessità. La sua era una tenace strategia di salvezza dal male della vita.

    Spesso si mascherava da matto, con vestiti di raso e zagare finte, e agli altri sembrava matto per davvero, perché era completamente estraneo al caos della vita.

    Aveva elaborato una sua scienza del carattere che considerava più giusta dell’astrologia. Perché era convinto che le stelle e i pianeti non avevano alcun interesse per le dispute degli uomini, e non avevano alcun motivo di sciuparsi per cercare di influenzarle. Aveva la capacità di ascoltare quello che dicevano i suoi interlocutori: anche i semplici sussurri delle loro anime. Era il metodo infallibile che usava per conoscere i loro pianeti ombra e cercare di infondere a tutti una saggezza che non era mai stata nelle loro mani.

    Quelli della sua famiglia sono sempre stati tutti così, dicevano i vecchi che impigrivano al sole ricordando suo padre e suo nonno, con l’aspetto solitario e pazzi dalla nascita. Cianciano del cosmo per non mettersi a pensare.

    Ma non era per nulla vero. La verità era che il tempo aveva scompigliato le loro menti e i ricordi, e facevano confusione.

    Filippo quando incontrava don Saverio si entusiasmava. Fratello gli diceva, tu non lo sai o non lo vuoi sapere, ma siamo fratelli. Non di padre, non temere: fratelli di sangue.

    Don Saverio non si offendeva e stava a quello che gli pareva un gioco di quell’essere bislacco. Non può essere, replicava con un sorriso beffardo che gli spingeva in alto le guance. Nell’alcova mio padre è stato un pessimo combattente. Non voglio fare un sopruso alla sua memoria, ma la verità è la verità. E sono certo che non aveva neanche idea di come si possa realizzare un vaso.

    Attenzione replicava Filippo, tu hai un’intelligenza superiore, ma non hai la capacità di guardare all’indietro. Ti fermi alle apparenze, ma noi siamo più che fratelli, soffriamo degli stessi disturbi e sono sicuro che facciamo gli stessi sogni. E siamo gli ultimi due discendenti dello stesso antenato. Ecco perché siamo più che fratelli. Siamo gli unici e gli ultimi!.

    E lo lasciava così, per correre dietro a un’altra riflessione, cercando di replicare l’imbattibile immediatezza delle sue storie diverse.

    Fratello, siamo un mistero per noi stessi! gli gridava da lontano quando sentiva nell’aria della piazza del mercato il profumo del sigaro di don Saverio.

    Se avessi avuto un fratello come te lo avrei ucciso nella culla, ribatteva don Saverio ridendo di cuore.

    Lo dici per nascondere che mi vuoi bene, replicava Filippo. É stato un lungo viaggio quello che abbiamo fatto, ma ora non occorre andare più in giro, ci siamo ritrovati.

    Era un botta e risposta che rendeva allegro don Saverio, e gli sembrava scandisse in modo diverso il mistero della vita tante volte intuito, intravisto, sfiorato, ma mai preso abbastanza sul serio.

    3.

    Don Saverio aveva sempre desiderato un figlio maschio per perpetuare la casata e fare continuare a brillare il suo sole. Gli era stato pronosticato, poco prima che sposasse donna Peppina, da una fattucchiera che era arrivata nella piazza del mercato assieme a una carovana di zingari e gli aveva letto le linee della mano.

    Ormai, però, ci aveva rinunziato. Tutti i congiungimenti con sua moglie non avevano mai dato frutti. Continuavano sempre a inciampare nel buio. All’inizio ogni piccolo rigonfiamento del ventre di donna Peppina lo aveva fatto sperare. Ma ogni volta tutto era andato in fumo, anche senza alcun dolore. E i medici e gli esperti consultati avevano sentenziato che donna Peppina non poteva avere figli. Aveva perso ogni speranza.

    Ma un giorno sua moglie, quasi per uno strano naufragare nel delirio del loro ultimo incontro, era rimasta incinta e questa volta, passati indenni i primi mesi, era riuscita a portare avanti la gravidanza.

    Don Saverio aveva trascorso quei nove mesi in uno stato di perenne agitazione. Camminava sempre sull’orlo dell’incertezza nella speranza che donna Peppina fosse capace di resistere e gli desse il tanto agognato figlio maschio.

    E così una bella mattina di maggio attendeva ansioso fuori della porta della stanza del travaglio, mordendo a sangue la punta del sigaro che si rigirava in bocca, mentre una pioggerellina lieve continuava a cadere dalla sera prima. La levatrice e le altre donne di casa si affrettavano attorno al letto dove donna Peppina gridava per i dolori del parto. Dopo circa un’ora si sentì un urlo e poi un vagito. Si affacciò dalla porta sua suocera e gli annunziò: É una bellissima bambina!.

    Don Saverio rimase sospeso, tra il piacere di essere diventato finalmente padre, e il disappunto perché si trattava di una figlia femmina. Si stava per allontanare indispettito con un gemito di barca vecchia, quando sua suocera ricomparve dalla porta e gli disse: Non è finita, ce n’è un altro in arrivo.

    Dopo la plausibile incredulità, la speranza di don Saverio si riaccese, ma si spense sùbito quando gli comunicarono: É un’altra bellissima bambina!. A questa notizia, per lui ferale, non seppe nascondere la stizza. Era come se la pioggerellina si fosse trasformata in tormenta e gli avesse gelato le ossa. Si allontanò sbattendo la porta: Ho altro a cui pensare. Spetta alle donne occuparsi di belletti, ricami e spignattamenti!. E a sua suocera, che inseguendolo gli chiedeva quali nomi voleva che venissero dati alle bambine, rispose: Non mi interessa, per me l’uno vale l’altro. Decida mia moglie!.

    E così, alla prima che era nata venne imposto il nome di Enrichetta, nella speranza che sarebbe stata sempre regina nella vita e non si sarebbe mai fatta irretire dalle trappole della nostalgia. E alla seconda quello di Lucrezia, come la trisavola paterna che tutti narravano essere stata ai suoi tempi il vero capo di casa.

    Don Saverio si piegò a malincuore. Non riuscì a non considerarlo un brutto scherzo del destino che non gli avrebbe permesso di perpetuare il nome della casata. I medici gli confermarono che, a maggior ragione dopo le fatiche e gli strapazzi di quel parto, donna Peppina non avrebbe più potuto avere figli. Lui non voleva crederci. Se mia moglie mi ha dato due figlie non c’è motivo che non ne metta al mondo altri, andava dicendo a tutti nella piazza del mercato, facendo intendere che non era uomo programmato per avere sfortuna.

    Ma Filippo Boccadifuoco, filosofeggiando in uno dei capannelli che gli si creavano attorno, a quelle parole aveva replicato: Spesso si è convinti, a torto, che la storia di ognuno abbia il respiro lungo. E non si considera che ha svolte improvvise che cambiano per sempre il suo corso.

    Don Saverio era come se non avesse sentito e ci si mise d’impegno. Cominciò ad analizzare il terreno, il vento, la pioggia, il sole e le fasi della luna; a calcolare le stagioni e i giorni fausti; e anche a inventare forme raffinate per il cerimoniale che accompagnava i preliminari del suo avvicinarsi a donna Peppina, con un fare manigoldo che sempre più non gli si confaceva.

    Ma il tempo passava senza che si vedessero frutti. I suoi assalti sempre più deboli, per stanchezza e anche per disperazione, non riuscirono più a fare ingrossare nemmeno per qualche mese il ventre a sua moglie.

    Si dovette arrendere alla dolorosa certezza che non avrebbe potuto avere altri figli: tanto meno un figlio maschio. Si convinse che lo avevano abbandonato i presagi benaugurali che quella volta gli aveva propinato la fattucchiera degli zingari. Non riuscì a nascondere il disappunto. Non fu capace di non fare traboccare il malumore. Si irrigidì sempre più e divenne impermeabile agli affetti. Cominciò a pensare a freddo, per non permettere alla delusione di conquistargli del tutto il cuore.

    Fu però costretto, suo malgrado, ad accettare che Lucrezia fosse il futuro capo di casa.

    Perché Lucrezia, essendo uscita dopo Enrichetta dal ventre di sua madre, era considerata la più anziana, dato che era stata concepita per prima. Era, quindi, lei la primogenita, e a tempo debito le sarebbero stati trasferiti tutti i beni di famiglia e tutti i diritti del maggiorascato, che in quell’epoca, quando non potevano essere trasmessi a un maschio, si attribuivano alla prima figlia femmina.

    Ma don Saverio non riuscì mai a nasconderle il malcontento per una scelta alla quale era stato costretto.

    E Lucrezia, sin da quando era molto piccola, pur sapendo che era destinata al ruolo di capo famiglia, percepì sempre quel rifiuto che aleggiava nell’aria.

    Così incontrò la faccia nera della solitudine.

    Ciò non impedì che in famiglia le attribuissero tutti gli onori come se fosse il primogenito maschio, e lei sin da bambina cercò di assuefarcisi.

    Anche se così cominciò a distaccarsi sempre più da Enrichetta.

    Infatti, benché le due sorelle si somigliassero come due gocce d’acqua, a cominciare dagli occhi gialli da gatta, e fosse difficile distinguerle - anche quando a gambe all’aria tombolavano tra la folla con gli altri bambini durante la festa patronale, e continuavano a ridere con tanta vitalità da scandalizzare tutte le sante donne e le autentiche figlie del signore -, nella loro intimità i loro genitori sapevano sempre chi era Lucrezia e chi Enrichetta. Perché percepivano l’alterigia che emanava lo scialle profumato di Lucrezia, quando con un solo colpo ben assestato se lo sistemava sulle spalle, e il sapore di disuguaglianza e fuochi artificiali che invece lasciava Enrichetta, quando scuoteva sin dalle fondamenta la casa mentre si misurava con i suoi ospiti invisibili, che da ogni dove planavano dolci come piume d’oca fuggite dai cuscini.

    Enrichetta non si era mai preoccupata per la sua posizione subalterna, e non aveva mai pensato di contestarla. Sia perché aveva orrore anche degli intrighi di sacrestia. Sia perché aveva piacere di tracciarsi da sola la strada, andando diritta e sicura come la fanfara della fanteria, in modo da essere, alla fine, amata più che rispettata. E anche perché era molto vicina a sua sorella, l’altra sua metà, che, passata l’età della giovinezza, sarebbe stata costretta a stare sempre in servizio e sempre sigillata: soffocata dall’ inesauribile arroganza di quel potere che avrebbe dovuto esercitare.

    Presagiva di essere lei destinata alla fine a primeggiare. Perché era capace di scostare i rami del mondo comune, e di entrare in rapporto con tutte le essenze che animavano la casa. Quelle ombre che quando si muovevano la facevano vibrare, con suoni che parevano usciti dalle scale musicali che amano il mare.

    Con le esperienze che andava accumulando nei suoi conciliaboli con i fantasmi, Enrichetta cominciava ad avere nel suo intimo una luce che non aveva mai avuto prima. Era una luminosità che la scioglieva. Le faceva capire che, restando salda, si sarebbe salvata da una perniciosa aridità. Sarebbe scampata all’esistenza arenata di tante vergini prosciugate; e anche all’immobilità degli inutili conversari che, col passare degli anni, si stringe come un reticolo sui polsi di quelle coppie che non riescono a rinnovare ogni giorno la loro ispirazione, e a continuare a fare tremare impercettibilmente le dita.

    Ancora non sapeva che un giorno quegli inutili conversari avrebbero incatenato sua sorella Lucrezia.

    Nel frattempo il prestigio di Enrichetta aumentava. Non per l’avanzare malizioso degli anni che già le davano i colori dei giorni rischiosamente caldi. Ma perché, come un’indovina, indicava la strada da seguire o prevedeva in anticipo il fiasco di certi esperimenti azzardati, o degli spasimi del cuore.

    Tutti rimanevano stupiti. Nessuno pensava di accreditarle la saggezza che hanno solo quelli che hanno passato la vita ad accumulare e rammendare errori. Invece, era tanto capace di coinvolgere tutto e tutti che, a

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