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Si può fare!
Si può fare!
Si può fare!
E-book157 pagine2 ore

Si può fare!

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Info su questo ebook

Fu lei a raccontarmi del suo passato, non ci arrivai da solo. Fu lei a decidere di offrirmi la sua persona, la sua storia, la sua vera intimità, al cento per cento. E si rivelò una scelta azzeccata, perché in questo modo mi conquistò.
L’avevo sempre vista come un soggetto pericoloso, per questo mi guardavo bene dal lasciarmi andare. Il fatto è che mi rifiutavo di vederla come oggetto sessuale… Sicuramente, non si è trattato di suggestione. È fuori da ogni ragionevole dubbio che quella donna ben si prestasse al gioco del piacere, ma io dovevo riuscire a collocarmi al di fuori della cerchia dei suoi campi d’elezione. In altre parole, stupirla.
La mia difficoltà più grande, però, era mettermi totalmente nelle sue mani, e alla fine mi perdevo il meglio: abbandonare tutti i pensieri, le paure, i problemi, fare vuoto dentro di me, e vivere appieno il presente.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mar 2023
ISBN9791220139519
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    Anteprima del libro

    Si può fare! - Benjamin Bendavid

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    Benjamin Bendavid

    Si può fare!

    © 2022 Europa Edizioni s.r.l. | Roma

    www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it

    ISBN 979-12-201-3148-3

    I edizione dicembre 2022

    Finito di stampare nel mese di dicembre 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.

    Si può fare!

    La povertà non ha nulla a che vedere col denaro.

    La povertà è l’impossibilità che ha una persona

    di poter svolgere la vita che amerebbe vivere.

    (Amartya Sen, Premio Nobel per l’economia, 1998)

    Novembre 2021. Erano quattro anni che stavo insieme alla donna che per me rappresentava la più sbagliata, l’esatto prototipo della donna che normalmente mi starebbe sui coglioni, con la quale, però, ho costruito (volontariamente o meno, non lo ho ancora capito) un rapporto ricco di attriti e contraddizioni. Un rapporto che negli anni si è rivelato denso e ingombrante, da ogni punto di vista.

    Quella di cui vi parlo è una storia che mi ha condotto a mettere in bocca una pistola calibro 45, nel tentativo di fare fuoco. Solo che l’arma ha fatto cilecca, costringendomi a fare i conti con me stesso. Sì, perché quando ti convinci a cercare il metodo migliore per terminare la tua vita, quando provi a suicidarti e non ci riesci, ti ritrovi a tu per tu con l’istinto di conservazione, che ovviamente non è molto d’accordo. Ci metti tanto a trovare il cosiddetto attimo di follia per riuscire a premere quel dannato grilletto. Nei secondi che precedono l’attimo fatale (che puntualmente arriva, ed è realmente un istante) tu hai una finestra molto piccola per operare. Intuisci che l’istinto di conservazione non rimane in allerta sempre con la medesima intensità, il suo moto è più simile a un sali e scendi, in verità. E tu devi aspettare quel momento, quella finestra per cercare di fregarlo, il tuo istinto.

    Nel mio caso specifico, cercavo quest’attimo tenendomi con la mano destra la canna del ferro pigiata contro il palato, armata, nel tentativo di premere il grilletto. E quel momento è arrivato: più che premere il grilletto è stato uno spasmo muscolare generale. Ho irrigidito tutti i muscoli del mio corpo, compresi quelli dell’avambraccio, della mano e del dito indice; quindi, ho chiuso la mano a pugno, con all’interno una pistola e il suo grilletto.

    Ma quando il colpo non parte, che succede? Il proiettile non mi ha ucciso perché, felicemente o infelicemente, la 45

    acp

    ha una sicura dietro il calcio che poggia sulla radice del pollice; la posizione innaturale che avevo adottato ha fatto sì che quella stessa sicura fosse lasca di un mezzo millimetro. Quel tanto che mi ha salvato la vita.

    Quando realizzi che non sei passato a miglior vita, e lo realizzi abbastanza velocemente, sopraggiunge un rigurgito emotivo che è mostruoso. È come se il tuo cervello capisse che l’hai preso per il culo e vuole fartela pagare. A quel punto stai peggio prima! Ma per fortuna passa.

    C’è voluto un po’ a ricompormi. La prima cosa che ho fatto è stata poggiare l’arma sul tavolo, perché a quel punto a gran voce l’istinto di conservazione mi diceva: ok, ora non la tocchi! Comprendi dove hai sbagliato, e a quel punto hai paura, una paura matta che ciò possa accadere ancora, che tu possa trovare ancora quel vigliacco coraggio di farla finita. Sapevo che se l’avessi ripresa in mano sarei andato fino in fondo, allora ho optato per una scelta drastica, l’unica davvero saggia in quel momento: l’esilio forzato.

    i

    Ricordo che telefonai al mio tour operator, quello di famiglia, che è sempre lo stesso da anni. Ero molto serio e gli domandai il primo aereo per Fortaleza, in Brasile, lui scoppiò a ridere. Sentivo che faceva un po’ di rumore con la tastiera, penso stesse guardando, e sempre buttandola sullo scherzo mi disse: «Domani mattina, alle 6:25».

    Io serissimo gli risposi: «Mandamelo che lo prendo».

    Allora lui smise di ridere e mi domandò: «Tutto bene?».

    Seccamente risposi: «No!». Mi limitai a ribadire: «Mandamelo che lo prendo, per favore».

    Non fece altre domande, mi mandò il biglietto, lo presi e circa diciotto ore dopo ero su quell’aereo. È stata una scelta mia!

    Era poco prima di mezzogiorno quando mi imbarcai. Quando più avanti sentii il parere di uno psicologo, casualmente, mi disse che tanta gente evita la terapia facendo un viaggio: «Tu inconsciamente, senza chiederti il perché, hai fatto una scelta ovvia; hai abbandonato la tua routine immediatamente, che è quella che ti faceva star male, e ti sei allontanato da tutto ciò che ti aveva spinto a puntarti il grilletto addosso». È un lavoro che in psicoterapia fanno in un altro modo, ma, potendo, la cosa migliore è l’esilio, senz’altro è la via più veloce. Mi disse che i miei tre mesi di esilio sarebbero equivalsi a cinque, sei, sette anni di terapia, comodi.

    Teoricamente, dall’altra parte avevo la donna della mia vita e quel gesto fu il canto del cigno di un uomo giunto sull’orlo della disperazione più totale e, premetto, non sono dell’avviso che serva coraggio, per suicidarsi intendo. Io mi vergogno molto per quello che ho fatto, non mi sento uno con le palle, tutt’altro. È forse la scelta più vigliacca che io abbia mai tentato di fare nella mia vita. Se hai gli attributi rimani dove sei e cerchi di affrontare la situazione, punto.

    Difatti, non sono mai scappato, non sono abituato a esiliarmi, non sono abituato a lasciare la postazione, per nessuna ragione. Nonostante, tra i pochi che sanno, quasi tutti mi dicano che servono le palle per farlo, io posso affermare che non è affatto vero! Il suicidio rappresenta solo il modo migliore per lasciare i tuoi problemi agli altri, corrisponde semplicemente a girarsi su un fianco e smettere di occuparsi del problema che ti affligge, nell’illusione di colmare quel vuoto che si è creato dentro di te. Quindi è tutt’altro che una scelta dignitosa, anzi… non dimostri niente, né a te stesso, né agli altri; dimostri solo che sei uno che rinuncia. È una scorciatoia che di fatto elimina per sempre ogni altra possibile via.

    Quando ci rifletto sopra, mi chiedo: che senso ha? Io poi sono uno molto pragmatico, allora se proprio devo perdere la vita, quanto meno lo faccio a fronte di un grosso indennizzo. Dare via la propria vita senza neanche ricevere niente indietro, soltanto perché non si riesce a gestire una situazione difficile… No, non mi sembra la migliore delle strade!

    Quindi ricordo, altrettanto nitidamente, l’istante in cui sono partito. Il mattino seguente, alle 6:25 c’era l’aereo, quindi alle 4:30 dovevo essere in aeroporto. Venne a prendermi il taxi alle 3:45. Prima però da incorreggibile romantico, chiedo al taxi una piccola deviazione; la donna in questione abita abbastanza vicino all’aeroporto. Mi faccio lasciare sotto quello che negli anni è diventato il nostro palo; mi sembrava giusto tornare sotto quel cartello, prima di prendere il volo, e così faccio fermare il tassista un paio di vie prima, percorro circa trecento metri a piedi, e arrivo sotto quello che per me rappresentava il punto di riferimento, proprio sotto casa della mia bella, che si chiama Luara. Da lì, dopo qualche minuto, raccolti i cocci emotivi, si riparte. Arrivo in aereo e prendo il volo per Fortaleza.

    Già, il nostro cartello. Nasce da una mia idea. L’ennesimo innesto. Mettere su una insegna, con dimensioni molto generose, le sei cifre rappresentanti la data del nostro primo incontro. Così, recuperata un’insegna di colore bianco ghiaccio, mi organizzo con dei numeri adesivi, in nero opaco, costruisco una staffa in acciaio e vi imbullono la sopracitata. Una notte, complice un autocarro, armato di scala telescopica e relativi attrezzi, installo il tutto molto saldamente su un palo della luce, a un’altezza di circa cinque metri da terra. Non un palo qualsiasi, bensì l’unico palo che guarda esattamente nella direzione del suo lungo balcone al piano primo, a una cinquantina di metri di distanza, cosicché Luara possa vederlo ogni qualvolta esce in balcone o si affaccia da una delle cinque finestre rivolte a nordest.

    Si accorge della mia fuga il giorno stesso, Luara, rendendosi conto che ero rimasto offline ventiquattro ore. D’altronde, già in passato avevo minacciato qualcosa del genere: se mi fossi trovato nella merda, avendo mezza famiglia oltreoceano, avrei salutato tutti e me ne sarei andato, ma queste sono frasi che si sarà sentita dire spesso, da tante persone. Solo che io non sono come tante persone. Quindi, a un certo punto l’ho fatto davvero, in silenzio. Non le dissi niente perché già avevo tentato di partire il 24 di ottobre, un mese prima, ma lei mi persuase a non farlo, tanto che presi il biglietto e lo annullai.

    La seconda volta non le diedi il potere di fermarmi. Non le dissi nulla, e atterrato dall’altra parte del globo mi ritrovai in un clima totalmente diverso. Un posto dove, per quanto io potessi avere un rapporto difficile coi miei famigliari (c’erano già mio fratello e mia madre in Brasile) mi sentii piacevolmente esiliato. Benjamin Bendavid non soffre di nostalgia, non è un essere che sta male lontano da casa, perché in verità le radici non gliel’ha mai date nessuno; generalmente, sta bene dov’è in quel momento, questo aiuta molto.

    Mio padre è un ex colletto bianco di una nota multinazionale operante nel settore petrolifero, era responsabile di due raffinerie ubicate nel golfo di guinea, in africa occidentale, e per la prima volta in quarant’anni chiesi a lui un punto di vista legato a una condizione psicofisica quando si viaggia; lui fu molto carino, capì cosa gli stessi chiedendo e non volle particolari spiegazioni. Gli domandai quanto tempo ci mettesse la testa a funzionare in modo diverso quando si va all’estero. Mio padre sorrise, come a capire cosa stessi provando, probabilmente perché c’era passato anche lui molti anni or sono: «Mediamente, ti servono tre settimane. In ventun giorni il cervello capisce che non sei più nella tua vita di prima e cominci a pensare in modo diverso», e così fu, letteralmente. Dopo tre settimane di allontanamento forzato dai tuoi problemi, di fuga improvvisa da tutto ciò che ti fa star male, se di certo non stai ancora bene, quanto meno non stai male.

    Furono tre settimane tranquille, il tempo passava più lentamente, i ritmi erano diversi. Chiaro, subentrò il solito attrito con mia madre, che per me non è una vera e propria mamma, bensì una sorella maggiore, e alla terza settimana, quando ormai il cervello iniziava a ragionare in maniera diversa, mi presi la briga di contattare una cara amica di Luara, della quale lei stessa mi aveva parlato diffusamente in passato; sfruttando questo contatto, decisi di andare a vedere la città di Rio de Janeiro, in cui non avevo mai messo piede prima d’allora, ma in verità volevo solo cambiare aria, trovare qualcuno che mi facesse pensare ad altro, distrarmi, e poi chissà, ricostruirmi una vita.

    C’era stato, però, un episodio ben preciso che mi aveva incattivito mentre ero a Fortaleza. All’epoca ero uno che disponeva della sua buona rete di informazioni, perché quando tengo d’occhio una persona, c’è chi alza la cornetta e mi avvisa se nell’aria qualcosa non va. Peccato che quella volta mi fossi completamente dimenticato di avvisare chi di dovere, forse perché non mi interessava più ricevere determinate informazioni, chissà! A Fortaleza mi ero già sentito con Luara, una chiacchierata al telefono, un dialogo civile, molto civile – non avevo ancora fatto il biglietto di ritorno, potevo permettermi di essere civile quanto volevo – con lei che dispensava consigli ed io che rimanevo sulla difensiva.

    La persona in questione, chiamiamola il mio informatore, mi comunicò che Luara, nonostante mi avesse raccontato di aver chiuso un rapporto mercenario di cui ero pienamente consapevole, in realtà mi aveva mentito. Mi trovavo dall’altra parte del mondo e una delle cose che ci aveva sempre legato molto, questa fiducia totale dell’uno verso l’altra, la sua sincerità nei miei confronti, di botto veniva a mancare, fattore imprevisto che mi fece incazzare come una bestia. Era in un motel dove andava sistematicamente, con un cliente di una certa età, cosa che io sapevo, lo ribadisco, salvo che ufficialmente mi diceva di aver chiuso. E allora cosa fare? Semplice: rovinarle l’incontro! Conoscevo i suoi tempi, calcolai esattamente i minuti che sapevo di dover attendere, poi

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