La luna del Sabba
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Anteprima del libro
La luna del Sabba - Mario Forenza
I
Come ogni mattina, il primo pensiero di William fu per i suoi due parrocchetti. Una coppia di pappagallini dal piumaggio verde smeraldo e il becco arancione. William riempì i contenitori di plastica della voliera. Versò dell’acqua fresca in una delle due vaschette e un misto di frutta e verdura nell’altra. Sostò davanti allo specchio del bagno per la toilette. Si rasò la barba, sistemò il ciuffo di capelli bianchi sulla fronte e si lavò con cura. Bevve una tazza di caffè caldo e uscì di casa, dopo avere indossato l’impermeabile grigio e preso il bastone da passeggio con il manico a forma di pigna.
Quando fu in strada, passò davanti alla bottega. La scritta CORNICI campeggiava in un bel corsivo su fondo borde aux. L’aria di ottobre era frizzante. William tirò dritto fino all’ampia cancellata del Cimitero degli artisti. Le porte in ferro battuto erano aperte. L’odore della terra umida gli arrivò pungente alle narici. A quell’ora del mattino il cimitero aveva l’aspetto di un luogo ancora più solitario. Regnava una pace che solo il cinguettio degli uccelli e l’armeggiare del custode nella garitta riuscivano a spezzare. Le luci fredde dell’alba si proiettavano uniformemente sulle lapidi e sulla guazza che si era formata nella notte.
William camminava lentamente fra le tombe. Su di esse svettava la Piramide Cestia. Passò davanti alla stele del poeta che non voleva essere ricordato: Qui giace uno il cui nome fu scritto sull’acqua .
Poi sostò davanti all’angelo del dolore di William W. Story e si immedesimò nello strazio dell’artista che portava il suo stesso nome e che aveva realizzato la scultura in memoria della moglie defunta.
Le ali dell’angelo avvolgevano il piedistallo su cui era scolpito il nome della compianta Emelyn Story.
Quando passeggiava nel Cimitero degli artisti, William era sempre accompagnato da presenze che gli sussurravano messaggi. Veniva accolto dall’invisibile muta dei defunti e restava in ascolto di ogni rumore, come la ghiaia smossa dal- le scarpe. Ogni istante era prezioso per stabilire un contatto. Alcune tombe erano sormontate dai volti gravi dei busti di marmo; altre si ergevano imponenti come are antiche in mezzo a templi dal peristilio neoclassico.
William meditava sul significato delle iscrizioni poste sui cippi funerari. Un inappellabile memento mori gli suggeriva che un giorno avrebbe compiuto anche lui l’ultimo viaggio tra i filari dei cipressi.
Spinto da queste considerazioni arrivò davanti alla tomba di Moira, un sarcofago in pietra ricoperto di muschio. Sullo zoccolo campeggiavano il nome della defunta, la data di nascita e di morte. William si piegò sulle ginocchia, mentre si reggeva al bastone, e fissò gli occhi sulla scritta al centro del sarcofago.
L’umida linfa del grappolo d’uva libera gli uomini infelici dal dolore.
Aveva fatto scolpire il distico di Euripide, sormontato da un bassorilievo di pampini. Si sollevò sulle gambe e imboccò a ritroso il viale ombreggiato dai cipressi. Quando fu davanti al negozio, William infilò una mano nell’impermeabile. Tirò fuori il mazzo di chiavi e aprì la porta a vetri. Come faceva ogni mattina, appese l’impermeabile all’attaccapanni e sistemò il bastone nel portaombrelli.
Guadagnò la sua posizione al tavolo da lavoro e cominciò a osservare il quadro appeso alla parete.
Erano le sette di sera quando i vetri della porta del negozio vibrarono. L’avventore, entrando, notò l’atteggiamento concentrato del corniciaio. In quel momento William stava misurando alcune stecche di legno con il metro. Il nuovo venuto aveva l’aria dell’uomo d’affari. Non sembrava gradire il disordine del locale, un budello dov’erano affastellate cornici d’ogni specie, alcune inclinate sulle pareti, altre pendenti da catene di metallo. Sul tavolo da lavoro erano impilati vetri rettangolari che il corniciaio aveva appena finito di ritagliare. L’avventore trovava inconcepibile che il vecchio potesse sentirsi a proprio agio in mezzo a una simile congerie di materiali. Si allentò il nodo alla cravatta perché aveva difficoltà a respirare.
«Come posso aiutarla, signore?» gli chiese William.
«Vorrei ordinare delle cornici» rispose il cliente con un colpo di tosse, mentre appoggiava sul tavolo una cartellina. Il corniciaio la prese tra le mani e la esaminò. Sollevò i disegni uno alla volta, passandoci sopra le lunghe dita affu solate. Erano dei ritratti di donna.
«Sono molto belli» commentò, dopo averli passati in ras segna.
Era rimasto colpito soprattutto da un ritratto, Testa di adolescente con gli occhi chiusi.
«Questa è mia moglie da bambina» disse il cliente. William sembrò oscurarsi, ma riprese subito il controllo.
«Lo sa» proseguì l’avventore senza accorgersi dell’improvviso cambiamento d’umore nel corniciaio, «ci siamo trasferiti da poco in una casa nuova e la stiamo arredando. Appenderemo alle pareti i disegni di mia moglie Emma. Questi li ha fatti lei...»
«Singolare» osservò William, «anche mia moglie dipingeva. Ciò che mi resta di lei sono i suoi quadri.»
Il corniciaio indicò con una rapida occhiata la parete di fronte.
«Quello lo ha dipinto Moira» aggiunse. «Purtroppo, non è più tra noi. I primi tempi guardarlo mi aiutava a elaborare il lutto, ma adesso non è più così. È tanto che medito di liberarmene.»
Il cliente si girò per osservare il quadro e ne fu subito conquistato. In una radura circondata da querce e rischiarata dalla luna, un gruppo di ninfe circuiva un satiro. Alcune lo tiravano per le braccia, altre gli si allacciavano al collo, mentre si scambiavano sguardi maliziosi. Il cliente fu talmente rapito dalla sensualità della scena che gli sembrò quasi di vedere le ninfe muoversi davanti ai suoi occhi. Si rivolse al corniciano per chiedere ragguagli, ma il vecchio non c’era più. Qualche secondo dopo, sbucò da dietro una tenda di velluto in fondo al negozio. Stringeva sotto al braccio un rotolo di carta marrone. Staccò il quadro dalla parete e lo avvolse nella carta, sigillandolo con dello scotch.
«Il quadro adesso è suo» disse il corniciaio, quando ebbe finito d’incartarlo. «Lo porti a sua moglie, sono sicuro che le piacerà.»
«Non posso accettare» rispose il cliente.
«Mi creda» lo rassicurò il vecchio, «con l’età si diventa suscettibili e ci si commuove per nulla. Il Baccanale simboleggia la gioia di vivere: è un soggetto più adatto a una giovane coppia.»
Il cliente si rese conto che era un’occasione da prendere al volo. La morte di un pittore di solito fa crescere le quotazioni delle sue opere, per non parlare della strana eccitazione che gli aveva messo addosso quel quadro.
Ringraziò il corniciaio e accettò il regalo.
«Quando saranno pronti i disegni?» chiese soddisfatto.
«Tra una settimana.»
«Bene. Posso sapere il suo nome?»
«Blackwood. William Blackwood.»
«Piacere. Io mi chiamo Riccardo Anselmi e dirigo una compagnia di assicurazioni.»
«Oh oh, allora lei è un pezzo grosso!» scherzò William, mostrando i denti ingialliti. «Ho fatto buona pesca oggi, se nella rete è finito uno squalo. Non si offende, vero, se la chiamo così?»
«Perché dovrei offendermi?» ribatté l’assicuratore un po’ stizzito. Prima di uscire dal negozio, Riccardo Anselmi rivolse al vecchio uno sguardo di sfida, ma se ne pentì. Il signor Blackwood era un povero diavolo e doveva sentirsi molto solo.
II
Uscì dal bagno in sottoveste. Emma accompagnò la porta, poi si fermò in camera da letto a osservare suo marito. Si sarebbe detto che lo stesse spogliando con gli occhi, se lui non fosse stato già a torso nudo e in boxer, con le gambe infilate sotto le lenzuola. Marito e moglie si guardavano senza scambiarsi una parola. Avevano imparato a vivere i momenti di silenzio come qualcosa di prezioso.
Riccardo aveva lasciato cadere gli avambracci sui cuscini, mentre la sottoveste di Emma scivolava silenziosa sul parquet. La donna rimase completamente nuda. Le sue spalle oscillavano con studiata indecisione. Era consapevole della tensione che provocava nel marito e per questo prolungava esageratamente quella posa. Riccardo le chiese di smetterla di giocare ed Emma lo raggiunse a letto.
«Hai messo su un po’ di pancia» scherzò lei pizzicandogli l’ombelico.
«La smaltirò in qualche modo» rispose Riccardo ammiccando, mentre la stringeva tra le braccia.
Emma si divincolò.
«Lo sai che non posso» gli disse cambiando improvvisamente umore e diventando fredda.
«Non puoi perché non vuoi. È molto semplice» le rispose Riccardo brusco.
«Ogni volta è la stessa storia, lo sai che ci provo, che lo vorrei quanto te… ma non posso, non posso proprio, capisci?» Emma aveva alzato il tono della voce, mettendosi sulla difensiva come faceva sempre quando affrontavano quell’argomento.
«Allora spiegami perché non puoi, dannazione! Prima potevi, poi hai cominciato a respingermi come se fossi un appestato. Sono mesi che non facciamo l’amore. Credi davvero che si possa andare avanti in questo modo?»
Le parole gli sgorgavano fuori come una colata lavica.
«Ma io che cosa ci posso fare se sono fatta così? Lo sapevi quando ci siamo messi insieme che in me c’era qualcosa che non andava. Tu mi dicevi che per te non era importante e che mi amavi lo stesso. A questo punto devi dirmi tu che cosa è cambiato fra noi. Io sono quella di sempre. Chi è cambiato sei tu.»
Le guance di Emma si erano riempite di lacrime e tremava tutta. Si rimproverava di essere una donna senza partico- lari ambizioni, a parte la pittura che riusciva a metterla in contatto con quella parte di sé che non esprimeva altrimenti. Ciò che desiderava veramente era scomparire, ma ancora di più essere un’altra persona.
«Continui a dirmi le stesse cose da anni» le rinfacciò Riccardo furioso. «Tu hai bisogno di aiuto. Ecco, l’ho detto.»
Rimasero immobili come due blocchi di cemento, assorti in un invalicabile e colpevole silenzio.
Poi, tentando di stabilire un contatto col marito e spostando il centro del discorso, Emma provò a risolvere la situazione di stallo che si era creata.
«Com’è stato gentile quel signore a regalarti il quadro» dis se.
«Sì, davvero» rispose Riccardo, sforzandosi di parlare.
Adesso gli sguardi dei due coniugi convergevano sullo stesso oggetto sfocato nella penombra della stanza da letto.
Osservavano il Baccanale con la stessa intensità, come se il quadro che avevano appeso in camera si mostrasse ai loro occhi per la prima volta nella sua misteriosa bellezza. In quel momento la tela non sprigionava più quegli strani effetti cinetici di cui Riccardo aveva fatto esperienza nel negozio di cornici. Però le tinte scure del fogliame, che faceva da sfondo alla scena delle ninfe, mettevano in risalto l’effetto coloristico dei personaggi che sembravano quasi prendere vita. Il Baccanale assumeva tonalità arcane e cangianti.
«Sai che cosa mi ricorda?» chiese Emma.
«Cosa?»
«Un dipinto di William-Adolphe Bouguereau» commentò la donna portandosi l’indice al mento. «C’è lo stesso movimento energico di braccia e gambe, lo stesso chiaroscuro. Che cosa ti ha detto il corniciaio a proposito del quadro?»
«Che lo ha dipinto sua moglie, una certa Moira Blackwood. Deve essere morta parecchio tempo fa.»
Emma continuò a studiare il Baccanale, provando a rappresentarsi l’aspetto della pittrice.
Riccardo si svegliò all’alba. La prima cosa che udì fu un rumore lieve e costante come il raspare di una zampa felina contro un vetro. Si alzò dal letto, attento a non svegliare Emma che aveva il sonno leggero. Sulla schiena di sua moglie, parzialmente coperta dal lenzuolo, i capelli formavano dei vortici. Riccardo cercò di orientarsi al buio. A piccoli passi guadagnò l’uscita della camera da letto. Sentiva il par quet scricchiolare sotto i piedi, mentre procedeva lungo il corridoio. Svirgolò oltre l’angolo della parete e si ritrovò in soggiorno.
Tre poltrone in pelle creavano l’effetto di una piccola arena intorno al televisore ultrapiatto. Qui si apriva una veranda su Villa Pamphili. Quella terrazza aveva convinto i coniugi Anselmi ad acquistare l’appartamento di Monteverde. Di giorno il panorama era mozzafiato; il parco romano si estendeva a perdita d’occhio con le sue colline alberate, dove la sera si annidavano i colori tenui e svariati dei tramonti. Il Casino del Bel Respiro spiccava in mezzo a tutto quel verde come una macchia bianca che rifletteva la luce del sole fino al sopraggiungere dell’oscurità. Allora i viali e i giardini di Villa Pamphili si riempivano di una congerie di sussurri e versi di animali. I coniugi Anselmi li ascoltavano quando si attardavano in terrazza e gli tornava alla mente la leggenda di Donna Olimpia Maidalchini. Si diceva che la nobile cognata di papa Innocenzo X, nelle notti di luna piena, costeggiasse le mura della villa a bordo di un carro infuocato trainato da quattro destrieri e carico di tesori. Il carro raggiungeva Ponte Sisto e da lì si tuffava nelle acque limacciose del Tevere, scomparendo come una cometa.
Il rumore che aveva svegliato Riccardo, però, non aveva nulla a che vedere con gli zoccoli e il frinire dei cavalli della Pimpaccia
, come veniva chiamata Donna Olimpia nel Seicento. L’assicuratore pensò al ramo di un albero spinto dal vento contro la veranda, mentre osservava l’ombra che ondeggiava davanti ai suoi piedi. Oltrepassò il vano della portafinestra e, in un angolo della terrazza, vide una donna seduta davanti a un cavalletto. La silhouette era elegante, i gomiti leggermente distanziati dai fianchi. La mano guantata di seta nera fluttuava sulla tela e produceva un rumore setoloso. La donna indossava un lungo abito scuro. La gonna di tulle formava pieghe sul pavimento.
Sulla testa portava un vistoso cappello sormontato da una veletta, dal quale sfuggivano ciocche di capelli. La luce della luna scontornava la figura e rendeva il suo aspetto quasi impalpabile.
Riccardo rimase immobile.
La paura lo avvinse, come un’edera intorno alle gambe. Provò una fitta allo stomaco, mentre il respiro gli si spezzava in gola. Si sentiva insieme attratto e respinto da quell’apparizione come accade nei sogni. Poi si ritrovò a un passo da lei, così vicino da poter vedere la sua opera, mentre il pennello modellava figure danzanti.
«Riccardo…»
Una voce proruppe nel silenzio.
«Riccardo…» ribadì la voce.
La donna si stava girando verso di lui e per una frazione di secondo scorse il profilo del suo volto, quando una mano fredda gli si posò sulla schiena.
«Riccardo, che ci fai in piedi a quest’ora?»
Emma aveva un’espressione assonnata, una ruga interrogativa le solcava la fronte.
«Che ti succede? Hai un’aria sconvolta» gli disse.
«Non riuscivo a dormire» biascicò Riccardo.
Provava imbarazzo come se fosse stato sorpreso a fare qualcosa di vergognoso e le abbozzò un sorriso. La misteriosa pittrice seduta davanti al cavalletto era scomparsa. Si era dissolta fra le ombre dei vasi allineati sotto la balaustra, dove
l’edera serpeggiava sul corrimano di metallo.
«Vieni» gli disse Emma prendendolo