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Spiriti!
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E-book380 pagine5 ore

Spiriti!

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Info su questo ebook

I piani per il fine settimana di Amelia Swenson non includevano un djinni sexy o il salvare il mondo dai demoni, ma i piani cambiano. Tutta la sua vita cambia, quando scopre l’anello di cui il bel djinni è schiavo, e allo stesso tempo scatena accidentalmente un demone nel mondo. Il djinni, Al-Marid, è stato solo per tremila anni… c’è da meravigliarsi che si innamori della donna che lo libera? Ma chi ha mai sentito parlare di una lilit? Le lilit predano gli uomini, li portano alla follia, uccidono i bambini e causano aborti. E ora Amelia ne ha scatenata una nella sua città.

In questa avventura che spazia nel tempo dall’antico Medio Oriente al lontano futuro, Amelia affronta pericoli e scopre in sé e nel suo mondo un potenziale che non aveva mai saputo esistere, tutto nel tentativo di liberare l’esasperante essere che arriverà ad amare.

LinguaItaliano
Data di uscita21 apr 2023
ISBN9781667455556
Spiriti!
Autore

Naomi Stone

Naomi Stone lives and writes in Minnesota and is an accredited member of the Romance Writers of America.

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    Anteprima del libro

    Spiriti! - Naomi Stone

    Dedica

    A quei sogni impossibili che osiamo comunque sognare, e a coloro che osano sognarli.

    Prologo

    Al-Marid

    Nell’arco dei secoli giunge qualcosa di simile ai sogni, sogni di reminiscenze, sogni di volare come fuoco sopra le sabbie rilucenti, sotto le rilucenti stelle, assumendo forme che gli uomini chiamano follia, e dissolvendomi di nuovo nel nulla.

    Ogni cosa vivente mi riempie di fascino. Sogno di vivere in uno stelo d’erba per passare ore a bere la luce del sole, le radici che si allungano in profondità in cerca di tracce di acqua nel suolo rarefatto di un’oasi. Sogno la vita di una palma che cresce attraverso anni di sole e vento per generare i frutti scuri raccolti dall’uomo. Sogno le vite della volpe del deserto, del topo, e del falco, e dello stallone che corre più veloce della sua mandria. Il richiamo del falco è quello che mi prende di più. Molto spesso, i miei sogni assumono la sua forma, e mi crogiolo nel suo volo.

    Non odiavo gli uomini mortali, come fanno molti della mia specie, né li amavo. Non più di quanto amassi le altre creature del deserto. Anche ora, non odio né amo gli uomini, ma nella mia vita precedente ho tratto un qualche divertimento dal rubare da loro. Afferravo i loro colorati vestiti e i tessuti, trasportandoli nel vento, contorcendoli in forme fantastiche, conducendo i loro proprietari in lunghi inseguimenti. Mi chiamavano demone, in qualche modo, ma non commettevo nulla più che marachelle in quei giorni.

    Ora i miei sogni sono tutti cose distanti, un lontano passato, anche prima che questa antica trappola mi imprigionasse. Non ho mai scelto la società degli uomini, con le loro menti legate al fango e la loro gratuita brutalità gli uni verso gli altri. Non ho mai ricercato la loro compagnia, ma ne giunse uno che cercava me. Lasciò la sua casa nella città dalle alte mura di mattoni e venne nel deserto di notte per compiere il suo incantesimo. Credo fu la curiosità, più della magia in sé, ad attirarmi. Ero giovane per essere uno dei Marid e non ascoltavo gli anziani. Ma l’incantesimo si dimostrò abbastanza forte da intrappolarmi quando mi avvicinai, abbastanza forte da imprigionarmi in questo freddo ferro e nella presenza maligna che lo circonda. Ora, la libertà rimane l’unico sogno fuori dalla mia portata.

    Uno

    Amelia Swenson si infilò sotto il cancello di sicurezza alzato per metà per entrare nella Treasure Trove Gallery prima che aprisse, solo per incontrare un fiume di violente imprecazioni. Si bloccò, una mano ancora sulla griglia di acciaio.

    Notando il co-proprietario della galleria chino su una teca dai lati di vetro aperta, gli disse scherzosa: «Ehi, calma, Mike. Attento alle mie delicate orecchie femminili».

    Le imprecazioni si tramutarono in una roca risata quando lui si voltò a guardarla. Gli scaffali presso cui si trovava ospitavano alcuni esemplari di quelle che sembravano stoviglie incredibilmente vecchie. Una cassa da spedizione aperta ai suoi piedi riversava fogli di giornale appallottolati sul pavimento di marmo.

    Nonostante le parolacce, l’atteggiamento di Mike sembrava più rassegnato che collerico. Amelia mise da parte il giubbotto di velluto blu e la cartella di nuove opere che si era portata dietro per aggiornare la sua esposizione alla galleria e andò dritta al fianco del vecchio amico. «Posso aiutarti in qualche modo?»

    «Scusa». Col volto arrossato, Mike si raddrizzò in tutto il suo metro e novantacinque di altezza. Coi capelli rossi e la corta barba dello stesso colore, avrebbe quasi potuto essere uno dei suoi antenati vichinghi. «Odio essere bloccato qui mentre Brenda è a fare l’ecografia da sola, lasciandomi qui ad armeggiare con tutto questo». Il suo gesto indicò l’intera galleria, la cassa e il materiale da imballaggio sparso.

    «È dura». Amelia deglutì, ignorando con determinazione la vecchia fitta per quel promemoria. Altre donne potevano avere dei figli. Avrebbe dovuto averci fatto l’abitudine ormai. Avere bambini suoi non era un’opzione, e questo non riguardava lei. Gli diede una goffa pacca rassicurante sulla spalla. «Il solito?»

    «Già. Qualcuno deve aprire la galleria, non possono fare l’ecografia senza Brenda, perciò sono io quello bloccato qui al negozio». Si voltò di nuovo verso il suo lavoro. Lei diede uno sguardo al contenuto della cassa con curiosità crescente.

    «Magari potrei pensarci io per te?» Si morse un labbro. Oops, prima offrirsi volontaria e pensarci solo dopo. Restare lì tutta la mattina avrebbe gettato nel caos i suoi programmi della giornata.

    Lui la guardò di traverso con un accenno di sorriso. «Grazie, ma per quando arriverei lì sarebbe finita. E tu non devi prepararti per la serata giochi di stasera?»

    «Beh, già». Odiava ammetterlo. Si poteva sempre contare che Mike conoscesse i suoi limiti meglio di lei stessa. «Mi ci vorrà tutto il pomeriggio per rendere casa mia adatta alla compagnia. Solo che odio che tu ti perda il momento sotto i riflettori del tuo bambino».

    «Non ci si può fare niente». Mike si chinò sopra la cassa. «Brenda farà stampare le immagini. Le vedrò nel pomeriggio. Magari le metteremo in sequenza e le porterò stasera per farle godere a tutti».

    Col suo tono asciutto, un mucchio di gente non capiva le sue battute, ma lei conosceva il suo senso dell’umorismo.

    «Eh». Gli rivolse una risata ugualmente asciutta. «Come se toglieresti tempo al giocare a Corsari o Zar. Allora cos’è questa roba con cui stai trafficando?» Diede un colpetto col piede alle palle di carta da imballaggi sparse in giro, facendo un cenno con la testa verso le stoviglie.

    «Nuova esposizione». Mike si girò di nuovo verso la cassa. «Sto mettendo pezzi antichi alternati a quelli moderni». Scartò un set di lampade a olio primitive in ottone e argilla.

    Amelia si fece più vicina. «Sono così piccole». Non potevano contenere più che un cucchiaio o due di liquido. La gente doveva aver usato quantità davvero minuscole di olio al tempo in cui erano state fatte quelle lampade. «Che succede se ne strofino una?»

    Mike abbaiò una breve risata. «Diventano più lucide. Credimi, ho già lucidato ogni singolo pezzo. Fanno parte della mia collezione personale».

    Lei lanciò un’occhiata dubbiosa attorno a sé al resto della galleria e alle circostanti esposizioni di opere astratte ed espressioniste, dalle fluide sculture in vetro di Chihuly nella vetrina anteriore, alle vivide stampe di Lichtenstein sulle pareti dietro il bancone di servizio, alle nicchie che ospitavano le opere di artisti locali ed emergenti, incluse le sculture di legno intagliato di Brenda e le opere calligrafiche di Amelia stessa nelle loro elaborate cornici di metallo decorate di perline. «Non sono il genere di cose che hai di solito».

    Mike rise di nuovo. «Sono per contrasto». L’omone continuò a scavare masse di carta appallottolata dalla cassa. Scartò prima una mucca di ceramica su ruote, e poi quelli che sembravano dei mattarelli in miniatura ricoperti di strani disegni.

    Allora capì. Antichi artefatti affiancati ai pezzi moderni, tutti opera di mani umane nel corso di un periodo di tempo incomprensibile. Riusciva quasi a vedere i secoli aprirsi davanti a lei. «Wow. Lo adoro. La creatività umana attraverso i secoli. È grandioso, Mike».

    Un pezzo nella teca aperta colse la sua attenzione. Aveva qualcosa di strano. «Questo cos’è?»

    Sollevò il piatto di terracotta poco profondo su cui era incisa una strana immagine. La figura stilizzata di una creatura con enormi occhi folli che la fissavano, seni e una gonna, capelli ritti e ali, che si reggeva su piedi artigliati al centro della ciotola. Una serie di strani segni spiraleggiava attorno al bordo. «Cosa sono queste decorazioni tutto attorno?»

    Mike sollevò lo sguardo mentre scartava un altro artefatto ancora nascosto nella cassa. «Si chiama ciotola di lilit. Quello scritto attorno al bordo è un incantesimo».

    Lei passò un dito sulla spirale attorno alla rozza creta. Affascinante. «Un incantesimo? Che genere di incantesimo?»

    «Si suppone che intrappoli le lilit». Mike si raddrizzò di nuovo e indicò oltre una sua spalla la figura incisa. «Demoni succubi. Si suppone seducessero gli uomini e li portassero alla follia, causassero aborti nelle donne e facessero morire in culla gli infanti».

    Le sue parole la fecero attraversare da un brivido. «Orribile». Tenne sotto controllo l’impulso di gettar via quell’oggetto. Non era suo. E l’antica iscrizione attraeva il suo sguardo da artista, così stranamente simile all’alfabeto che conosceva, e al tempo stesso del tutto indecifrabile.

    «Già», proseguì Mike. «Orribile. È per questo che gli antichi creavano le ciotole. Ho una traduzione della formula qui». Si chinò ad aprire un cassetto e si rialzò brandendo un foglio di carta. «Seppellivano le ciotole sotto una casa per intrappolare qualunque lilit che andasse lì a minacciare la loro famiglia».

    «Bene per le ciotole, allora». Qualcosa le stuzzicò la memoria mentre soppesava l’oggetto nella mano. «Credevo che Lilith fosse qualcuno che era nella Bibbia».

    «Non Lilith, lilit». Enfatizzò la "t" dura. «Errore comune. Niente a che fare con queste ciotole. In effetti c’è solo una menzione fugace di una Lilith nella Bibbia. Le sue storie vengono dal folclore ebraico. Probabilmente sono iniziate perché la genesi menziona la creazione della donna in due punti separati. Personalmente...» Mike fece un ghigno, uscendo dalla modalità lezione «...lo definirei un artifizio narrativo. Prima menzioni una cosa in senso generale, poi vi ritorni e scendi di più nei dettagli. C’è solo una Donna primordiale, di buon cuore e maligna al tempo stesso, come tutte le donne che conosco».

    «Mi sembra sensato». Qualcosa di appuntito le punse il dito, interrompendo di colpo la sua risatina. La mano ebbe uno spasmo e perse la presa sulla ciotola. Tentò invano di riprenderla e non poté far altro che guardare impotente mentre l’argilla cotta vecchia di secoli colpiva le piastrelle di marmo sottostante e si infrangeva in una mezza dozzina di pezzi. Il forte suono dell’impatto echeggiò attraverso la galleria.

    «Oh, che...» Caspiterina. Dindondan. Si morse la lingua. Il danno era fatto. «Mi dispiace davvero, Mike! Non so come faccio a essere tanto imbranata». Gemette dentro di sé, guardando i frammenti sparsi ai suoi piedi. Quella ciotola aveva viaggiato per migliaia di chilometri dal suo luogo di origine ed era sopravvissuta a migliaia di anni di storia umana, fino al giorno in cui aveva incontrato lei. Si guardò il dito in cerca di lesioni. Neanche un segno. Che cosa era successo?

    Mike sospirò. Le sue spalle larghe si afflosciarono.

    Amelia si morse un labbro. «Immagino di essermi comprata una ciotola, eh?» La faccia doveva esserle diventata tanto rossa da illuminarsi.

    «Già», disse lui brontolando, ma sorrideva. «È tua. Non preoccuparti. Puoi averla a prezzo di costo». Le porse il foglio di carta contenente la traduzione. Includeva la descrizione dell’oggetto e il prezzo originale.

    Amelia fece una smorfia e, con una sgradevole sensazione viscerale, fece un rapido conteggio delle sue spese mensili. Disastro. Quel costo non l’avrebbe rovinata, ma significava più pasti casalinghi... sospirò... e meno pasti fuori per il prossimo... sempre.

    Mike estrasse il suo portachiavi e glielo porse. «Perché non sistemi i tuoi nuovi pezzi mentre io finisco qui? Possiamo pensare ai documenti e ai soldi più tardi».

    «Certo. Sono felicissima di andarmene nel mio angolo». Avvolse i cocci rotti in uno dei pezzi di carta gettati via. Magari avrebbe potuto riparare la ciotola. Anche rimesso assieme, quell’artefatto sarebbe stato un buon argomento di conversazione. Prese le chiavi, raccolse la sua cartella e andò nella sezione della galleria in cui erano appesi in mostra i suoi lavori.

    Mike doveva pensare che era un’imbranata totale. Una figlia dei fiori rinata imbranata, coi suoi capelli lunghi, i vestiti artistici e un volto nudo, ma comunque un’imbranata. Beh, almeno l’aveva distratto dai suoi problemi e, no... Magari Danny era abituato a chiamarla imbranata, ma non doveva farlo lei stessa. Un atto di goffaggine non la definiva.

    Sistemò con cura il suo nuovo set di tessuti da parete e dispose i pezzi di piccole dimensioni sui loro cuscinetti di velluto. Quelle luminose opere d’arte ingioiellate erano scaturite dalle sue mani. Mike e Brenda non avrebbero incluso il suo lavoro nella galleria solo per amicizia. Faceva dei bei lavori. Che parlavano alla gente. Lei parlava alla gente con colori e consistenze, perline, tessuto e poesia. Mike lo sapeva. E lei sapeva di non dover dubitare delle proprie capacità.

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    Il mondo si infranse. Si frantumò in luce e colore. Ancora informe, avendo dimenticato il suo nome, cercò di comprendere il senso di quel cambiamento. Era passato molto tempo, moltissimo. Troppo. Ma la luce, il colore, le sembrarono familiari. L’assenza delle catene formate dall’antico incantesimo, quelle ostinate pareti dissolte, la presenza del richiamo ammaliatore... e niente che la trattenesse... tutto si sommava. Libertà. E sì, l’energia di un uomo a portata di mano, se solo fosse riuscita a ottenere la forza per raggiungerla, a prendere di nuovo forma e prosciugarla fino all’ultima goccia.

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    Più tardi, il viaggio in auto dal centro commerciale fino a casa nel sud di Minneapolis rigenerò il buonumore di Amelia. Prese stradine secondarie al posto dell’autostrada e guidò col finestrino abbassato dal lato del guidatore, bevendo la fresca aria autunnale, i profumi delle foglie secche e dei prati tosati.

    Nella prima settimana di ottobre, il clima esplodeva in una gloriosa combustione di cieli blu e luminosi tramonti, e la sua città indossava il miglior vestito da festa. Dalla primavera all’estate, non riusciva a immaginare una città più verde di Minneapolis. Parchi ad angolo fiorivano ovunque. Perfino fuori dal Government Center, in pieno centro, crescevano macchie di pini e betulle. Gli alberi fiancheggiavano ogni strada residenziale. Sezioni di parco confinavano con ogni lago e corso d’acqua. La città cresceva sotto un mare ondeggiante di chiome d’alberi in perpetuo movimento sospirante. Ora quel mare bruciava di ogni sfumatura di oro, ambra e rosso acceso, come fiamme tra il verde. Aceri, betulle, olmi, robinie, pioppi neri e querce, cedri e pini della Norvegia. Per Amelia, Minneapolis dimostrava di essere la Città degli Alberi tanto quanto la Città dei Laghi.

    Per quando arrivò alla sua casetta, affiancata da cedri sul davanti e da un enorme vecchio acero sul retro, aveva quasi dimenticato l’incidente con la ciotola. Si fermò sulla soglia del Craftsman del 1920, inspirando l’odore del cedro... la sua aria pungente che come sempre l’assicurava sul rifugio accogliente che aveva trovato dopo lo scioglimento del suo matrimonio. Con il fascino del vecchio legno di quercia della casa, delle decorazioni interne e dell’arredamento famigliare e disposto con cura, tornare a casa le risollevava sempre il cuore.

    Prima che potesse mettere via la borsa, Tik e Tok le si avvolsero con calore alle caviglie. Accarezzando orecchie feline, accompagnata dalla musica delle loro fusa, Amelia ripassò allegra la sua lista di cose da fare prima che i suoi amici, inclusi Mike e Brenda, arrivassero per la serata giochi. Doveva togliere i lavori in corso dal tavolo da pranzo e tirar fuori il tavolino da gioco pieghevole. Tutto aveva bisogno di essere spazzolato. Doveva cominciare a preparare il suo piatto caldo di riso selvaggio, e avrebbe fatto meglio ad aggiornare il suo database perché riflettesse le vendite di quel mese alla galleria, prima di dimenticarsene per la confusione degli altri compiti.

    Ma Tok insistette, nei suoi toni imperiosi, che ripristinare il livello del cibo nelle ciotole dei gatti fosse la prima cosa da fare. Mentre versava un altro po’ di croccantini nei piatti di ceramica tutt’altro che vuoti, si ricordò della ciotola di lilit rotta. Che spreco per un artefatto di valore. Sì, aveva parecchie cose da fare, ma ci sarebbe voluto solo un minuto, prima di iniziare col suo programma del pomeriggio, per guardare i pezzi e vedere se era possibile ripararla.

    Prese i cocci dalla cartella, li liberò dal loro imballo di carta e li dispose sul tavolo da lavoro, ovvero il tavolo da pranzo coscritto per svolgere doppia funzione. Magari non era persa del tutto. Non sembrava male come aveva pensato. C’erano tre pezzi più grossi e qualche scheggia più piccola. Probabilmente sarebbe riuscita a incollarli assieme in pochi minuti. La colla poteva asciugarsi mentre faceva altre cose, e più tardi avrebbe potuto mostrarla ai suoi ospiti e raccontare loro la storia della tremenda caduta e abile redenzione.

    Sedendosi per fare il lavoro, mise assieme i tre pezzi più grandi. Tik si avvicinò di soppiatto, sporgendosi per annusare ciò che impegnava la sua attenzione. Prima che Amelia potesse reagire, il soriano rossiccio soffiò, balzò all’indietro e schizzò via verso uno dei suoi nascondigli sul portico quattro stagioni. I frammenti avevano un qualche odore che al suo naso meno sensibile era sfuggito? Aveva scarsa importanza. Allungò la mano per prendere il tubetto di attaccatutto. Tra un attimo avrebbero odorato di colla.

    Quel compito le ricordò il lavorare a un puzzle tridimensionale, il modo in cui rigirava ogni pezzo per scoprire come si incastrava col successivo. I tre pezzi più grandi si ricomposero abbastanza facilmente, ma questo lasciava un pezzo a mancare dal centro dell’emergente forma della ciotola, un buco grande abbastanza da farvi passare un dito. Uno dei pezzi più piccoli pareva vi si sarebbe incastrato.

    Del metallo freddo le sfiorò le dita quando lo raccolse. Cosa?

    Fissò una curva di metallo scuro che emergeva dall’argilla rossastra.

    Cavolo. L’argilla cotta sarebbe stata cementata a qualunque cosa di metallico. Poteva semplicemente ignorarla. Aveva cose più urgenti di cui occuparsi. Ma perché mai c’era un anello cotto dentro l’artefatto? Mike non lo avrebbe detto se di solito le ciotole di lilit avessero contenuto anelli incorporati? Come sempre, non poteva lasciare irrisolto un mistero.

    Prese una piccola lima dai suoi strumenti e grattò l’argilla che aderiva al metallo. Venne via con facilità sorprendente, riducendosi in polvere quando mosse l’oggetto misterioso.

    In pochi istanti, un sottile anello annerito si liberò. Il metallo scuro avrebbe potuto essere ferro. Notò dei segni incisi lungo la superficie, troppo piccoli e scuriti dal tempo per essere leggibili.

    Spazzò via quel che restava della polvere con uno scampolo di seta e sollevò l’anello alla luce di mezzogiorno che entrava dalle finestre della sala da pranzo. Non era un granché da vedere, in effetti, ma colpiva in un suo modo scuro e severo. Troppo grande per il suo anulare. Se lo infilò all’indice sinistro per vedere come le stava.

    Una luce brillante e un suono fragoroso le eruppero attorno.

    «Porca paletta!» La sedia di Amelia cadde mentre lei indietreggiava, il cuore che le batteva forsennatamente. Riusciva a stento a vedere attraverso la fitta foschia che le ribolliva attorno, o a sentire, a causa delle orecchie che le fischiavano. I peli delle braccia e i capelli sulla nuca le si erano rizzati e l’aria attorno a lei crepitava di energia. Fece un altro passo indietro, allontanandosi dalla sagoma scura nella foschia. Trattenne il respiro, scacciando via con le mani un odore simile a peperoncino e cannella, sforzandosi freneticamente di capire cosa stesse succedendo. L’aria si schiarì con la stessa velocità con cui si era intorbidita, svelando un uomo enorme proprio di fronte a lei.

    Torreggiava tra lei e la cucina. Doveva essere entrato dal retro, lanciando dentro un qualche genere di granata stordente o fumogeno... Amelia barcollò ancora all’indietro, sbattendo contro una libreria. L’estremità di un volume sporgente le si conficcò nella coscia. Si sentiva stranamente leggera, pronta all’azione. Aveva ancora la piccola lima che aveva usato per liberare l’anello. Se avesse avuto bisogno di un’arma, avrebbe potuto usare quella, e il suo ingegno. Dov’era il suo ingegno? Il cuore le suonava le percussioni a un ritmo doppio nelle orecchie.

    «Chi diavolo sei e cosa credi di fare qui?» lo aggredì, sorprendendosi da sola con la sua ferocia.

    Lo strano uomo si guardò intorno come se non avesse mai visto una comunissima, per quanto ingombra, sala da pranzo prima di allora. Sembrava un incrocio tra un dio greco e Mastro Lindo, alto ben oltre il metro e ottanta, con indosso solo dei larghi pantaloni bianchi, testa rasata, pelle olivastra, spalle larghe e un petto nudo notevolmente ben definito. I suoi baffi incorniciavano una bocca dalla forma perfetta e gli zigomi sporgevano, prominenti, sotto occhi d’aquila che ora si voltarono per incontrare i suoi.

    «Sono lo schiavo dell’anello», annunciò.

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    Al-Marid

    Stranamente, una volta passate la mia collera e disperazione iniziali, il mio asservimento giunse come un nuovo inizio. Fu come schiavo dello stregone, Bahram, che appresi cosa significasse avere uno scopo e un obiettivo. Fino ad allora ero stato puro come la volontà, mi muovevo come si muove il vento, come si muove il fuoco, senza alcuna mira oltre quella di continuare a farlo. Fu come schiavo che appresi l’estensione dei miei poteri. Qualunque compito mi fosse assegnato, trovavo la conoscenza e le capacità, intessute in qualche modo nella fibra del mio essere, per consentirne il completamento. Scoprii dentro di me di conoscere i meccanismi del tempo e dello spazio e della materia, e come modellarli per gli scopi definiti dal mio padrone. Ciò che Bahram concepiva, io facevo. Nel mentre in cui ero obbligato, il mio potere crebbe, e altrettanto fece il suo.

    La Nahid di Bahram era una città di mattoni di fango cotto, le mura rivestite di vividi colori a rappresentare grifoni rampanti, leoni e cavalli e uomini d’armi con barbe e capelli strettamente arricciati. I ricchi della città indossavano vesti dai colori accesi ricamate con lustrini d’oro, e oliavano i capelli e le barbe. Il mio padrone, Bahram, indossava molti anelli, tra i quali il mio appariva piccolo e semplice, un banale oggetto scurito di ferro, da notare a stento.

    Al suo comando, gli portavo cesti colmi d’oro e gemme di ogni colore. Trasportavo i suoi nemici in terre lontane. In una sola notte, gli costruii un palazzo usando mattoni di marmo e lapislazzuli. Lo costruii in una notte, ma avrei potuto costruirlo in un istante. La materia era il mio materiale da costruzione. Il tempo, per me, avrebbe potuto essere l’affluente di un fiume in cui giocare come i delfini fanno in mare. La nuova casa del mio padrone riluceva, più magnifica del grande palazzo appartenente al re di quella terra. Bahram mi mandò dal re con vassoi di favolosi gioielli e, col tempo, la figlia del re divenne la sua nuova moglie.

    Nel corso degli anni, il mio padrone governò quella terra, e il mio potere rese la città talmente prosperosa che nessuno fu affamato, o privo di casa, o ignudo. Nessun crimine passava inosservato, ma vi era ben poco crimine in assenza di disperazione. Attraverso Bahram, giunsi a tenere un po’ al bene degli uomini mortali. Giunsi a tenere alla città di Nahid, come se tale interesse mi fosse stato contagiato dal governante che faceva della sua gente la sua principale preoccupazione.

    Supposi che la città di Nahid avrebbe prosperato per sempre e non sarebbe mai stata dimenticata, che il regno di Bahram il Buono sarebbe durato in eterno. Avevo dimenticato quanto fossero brevi le vite degli uomini. Se me lo avesse comandato, di certo avrei potuto salvaguardarlo dalle devastazioni del tempo. Ma non si pose mai in sfida alla propria mortalità. E invero la morte giunse da lui, fin troppo presto. Allora iniziarono i miei secoli di oscurità e di sogni. Anche se, di recente, avevo sentito le voci degli uomini.

    E ora ero di nuovo alla luce del giorno e a quella gettata da uno strano strumento sopra di me, diverso da ogni opera dell’uomo che avessi mai visto in passato. In piedi davanti a me vi era una donna umana differente da ogni altra mai vista: più alta, più pallida, con una pelle come crema e rose, e capelli come miele selvatico striato di luce solare e fuoco. I suoi occhi brillavano blu come un cielo serale che mostrasse le prime ombre dell’oscurità, anche se ora si spalancarono con aria di sfida e qualcos’altro. Mi sembrava di conoscerla già. Indossava l’anello, dunque era la mia padrona, e mi chiese il motivo della mia presenza lì. Possibile che non lo conoscesse?

    «Sono lo schiavo dell’anello», la informai.

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    «Voglio delle risposte precise», disse di nuovo Amelia, ancora in posizione di difesa, la limetta metallica stretta in una mano. «Che ci fai qui? Chi sei?»

    «Come ho detto, sono lo schiavo dell’anello, chiamato Al-Marid. Quali sono i tuoi ordini, padrona?»

    Amelia mormorò alcune parole che non avrebbe mai usato in circostanze ordinarie. Il cuore le martellava nelle orecchie come gli zoccoli di un cavallo in fuga. I suoi pensieri vorticavano. Sarebbe riuscita ad arrivare al telefono prima che lui potesse fermarla? Ricordi di notizie le affiorarono di colpo nella mente, resoconti di violazioni di domicilio, proprietari derubati, stuprati, picchiati, uccisi. Si mosse lentamente per mettere la massa del tavolo tra sé e lo sconosciuto, tenendo la parte appuntita della lima puntata verso di lui. Non avrebbe mai potuto batterlo in velocità o fisicamente. Se solo avesse trovato il tempo per quelle lezioni di kung fu. Doveva bluffare, mostrarsi più dura di quanto non fosse.

    «Sei pazzo? Non sono qui per dar corda alle tue strane fantasie. Non mi piacciono i giochi di bondage. Nessuno ha degli schiavi di questi tempi, e io non ho tempo per questo!» Fece un profondo, calmante respiro. «È un consiglio, coso. Va’. Via. Da. Qui».

    «Dove vuoi che vada?» Sembrava così sperduto, del tutto fuori posto.

    «Dove desideri, purché sia fuori da qui». La nota acuta della sua voce la scosse. Non usava mai toni simili. Non aveva neppure saputo di esserne capace.

    L’imponente sconosciuto scomparve davanti ai suoi occhi.

    Amelia batté le palpebre. Cosa? Come? Scosse la testa e batté le palpebre un’altra volta. Prima c’era stato un uomo di ragguardevoli dimensioni proprio davanti a lei. Ora... no. Gli aveva detto di andarsene, ma non si era aspettata una cooperazione tanto istantanea. Per un attimo rimase immobile, ad ascoltare il lieve ronzio del frigorifero e i rumori lontani del traffico che penetravano dalla strada, prima di osare darsi una cauta occhiata intorno.

    Nonostante tutto il chiasso e la furia dell’apparizione di quell’uomo, non sembrava esserci una singola cosa fuori posto. La sua familiare stanza da pranzo sembrava la stessa di sempre. Le piante in vaso erano al loro posto sotto le finestre. I contenitori di perline, gli attrezzi e le sete, e i cocci della ciotola di argilla, occupavano il ripiano del tavolo. Le assi del pavimento su cui lui era stato erano nude. La cucina, che in parte era stata nascosta da lui, era del tutto visibile, col lavandino ancora pieno di piatti. Il soggiorno dietro di lei conteneva solo i soliti comodi arredi, librerie stracolme, tessuti da parete con le sue opere e quelle di alcuni amici.

    Girò per il primo piano, verificando che porte e finestre fossero rimaste tutte ben chiuse come erano state prima che lui apparisse. Era mai davvero stato lì? Stava forse diventando pazza?

    Trovò entrambi i gatti nascosti sul portico anteriore, rannicchiati sotto il divano di futon. Loro avevano notato qualcosa; non era stata solo lei. Avrebbe potuto fingere che nulla fosse accaduto, tornare solo al suo programma pre-serata, tutto come al solito. Poteva, no? Si lasciò cadere sul divano e guardò senza vedere fuori dalle finestre sul davanti, oltre la mensola di piante verdeggianti, oltre i tetti dei vicini e le cime degli alberi. Tik e Tok emersero e si misero ai loro soliti posti, Tik in braccio a lei, Tok allungato al suo fianco, il corpo caldo contro la sua coscia. Accarezzare il loro lucido pelo la calmò, il lieve rombo delle loro fusa rallentò il rapido battito del suo cuore.

    Allucinazioni? Forse l’intero episodio si era svolto nella sua mente. Forse qualcuno si era introdotto in casa e l’aveva aggredita e uccisa. Magari era in un qualche stato di fuga mentre moriva, come in Un avvenimento sul ponte di Owl Creek. Follia? Qualcosa di soprannaturale? Chi poteva saperlo?

    Sapeva di essersi offerta per ospitare la serata giochi, ed era in ritardo per mettere via le sue cose, pulire il tavolo, mettere qualcosa sotto i denti per pranzo, lavare i piatti e preparare la casa per la sua compagnia.

    Ma, porca paletta, un uomo era apparso e scomparso davanti ai suoi occhi. Proprio nella sua sala da pranzo. Fece un profondo, tremante respiro e trovò conforto nello stabile calore e nella fidata presenza dei suoi compagni felini. Perché avrebbe dovuto iniziare ad avere delle allucinazioni all’improvviso? Ma o quello, o qualcosa di molto strano era avvenuto. Non poteva far finta di nulla. Doveva sapere, in un modo o nell’altro. Tik protestò quando ne sfrattò gentilmente il peso dal suo grembo e si alzò.

    L’uomo evanescente si era definito schiavo dell’anello, come qualcosa uscito da Le mille e una notte. Che cosa era? Si aspettava che credesse che fosse un qualche genere di magico genio? Poteva mai esserlo? Chi altro appariva e spariva nel nulla? Un alieno da un altro pianeta? Un qualche genere di illusione ad alta tecnologia? Forse. O, per strano che sembrasse, magari era quello che affermava di essere. Come poteva scoprirlo?

    Andò alla stanza da letto sul retro che fungeva da studio. Esitò con la mano sulla porta dell’unica stanza nella casa in cui i gatti non erano ammessi. Avrebbe dovuto rievocarlo? Come? L’incidente doveva aver avuto qualcosa a che fare con l’anello. Guardò cauta la fascia annerita che aveva al dito. Strofinarlo? Toglierlo e rimetterlo? Doveva davvero azzardarsi a provare subito? Le sembrava di ricordare che i geni potessero essere pericolosi. Prima ricerca. Poi esperimenti.

    Si infilò nella stanza, chiudendosi la porta alle spalle. Prima di fare qualcosa di affrettato doveva saperne di più su

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