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Musica come pensiero
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E-book266 pagine3 ore

Musica come pensiero

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Info su questo ebook

Seguendo gli stessi procedimenti che portano ad una composizione musicale, Marco Lombardi ha organizzato il suo saggio secondo un principio di specularità che è profondamente radicato in tanti compositori. La materia trattata è divisa in due parti distinte, come dei veri e propri movimenti, di cinque capitoli ciascuna, precedute e seguite da un Preludio e da un Postludio. Si tratta complessivamente di dodici sezioni che, pur del tutto autonome, presentano non pochi Leitmotive ricorrenti. Il Preludio introduce il discorso occupandosi dell’atto del comporre da una specifica angolatura, ovvero il sorgere dell’idea che condurrà, attraverso successive fasi di elaborazione, al lavoro finito. Cinque delle composizioni che ne sono state il prodotto occupano la Prima Parte nella quale si trovano, ampliati e approfonditi, testi che l’autore ha scritto in occasione della prima esecuzione di ciascuna di esse in un arco di tempo che va dal 2007 al 2020. La Seconda Parte si svincola dalla personale produzione di Lombardi per allargarsi a un raggio di considerazioni più ampio.
LinguaItaliano
Data di uscita27 lug 2023
ISBN9788831327527
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    Anteprima del libro

    Musica come pensiero - Marco Lombardi

    Musica_come_pensiero_(copertina_solo_fronte).jpg
    Saggi Epoké

    Marco Lombardi

    Musica come pensiero

    edizioni epoké

    ISBN 978-88-31327-50-3

    ©2023 Edizioni Epoké

    Prima edizione: 2023

    Edizioni Epoké. Via N. Bixio, 5

    15067, Novi Ligure (AL)

    www.edizioniepoke.it

    epoke@edizioniepoke.it

    Editing e progetto grafico: Filippo Ferraresi, Edoardo Traverso.

    In copertina: illustrazione di Viviana Forlese

    I edizione

    Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta o archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo – elettronico, meccanico, reprografico, digitale – se non nei termini previsti dalla legge che tutela il diritto d’autore.

    Indice

    Prefazione

    Aurora o del comporre

    Prima parte

    Delle composizioni

    Scena con figure

    Canciones del alma

    Delle acque

    Pentafora

    Fluxum Temporis I-V

    Seconda parte

    Delle domande e del domandare

    Che cosa è la musica?

    Che ti par del bel concerto? Cenni sull’intertestualità musicale

    Il brusio continuo del silenzio

    La filosofia è utile ai musicisti anche se non parla di musica?

    In margine a uno scritto

    di Gilles Deleuze

    Dizionario minimo dell’in-audito

    Suoni che ci ascoltano

    Indice dei nomi

    e delle composizioni musicali

    Bibliografia

    Prefazione

    Lo spirito che ha dato vita alla forma complessiva di questo libro non è troppo distante da quello che ispira, o può ispirare, l’organizzazione della struttura generale di una composizione musicale. In entrambi i casi può valere un principio di specularità che è profondamente radicato in tanti compositori; e in me in particolare. Ho costruito il testo dividendo la materia in due parti distinte, (li chiamerei movimenti se, appunto, si trattasse di una partitura) di cinque capitoli ciascuna, precedute e seguite da un Preludio e da un Postludio (l’exergum del primo e l’ultima nota del secondo si rispecchiano nel nome di Mozart). Si tratta complessivamente di dodici sezioni che, pur del tutto autonome, presentano non pochi Leitmotive ricorrenti, come si potrà apprezzare abbastanza facilmente nel corso della lettura.

    Il Preludio introduce il discorso occupandosi dell’atto del comporre da una specifica angolatura, ovvero il sorgere dell’idea che condurrà, attraverso successive fase di elaborazione, al lavoro finito. Cinque delle composizioni che ne sono state il prodotto occupano la successiva Prima Parte nella quale si trovano, ampliati e approfonditi, altrettanti testi che ho scritto in occasione della prima esecuzione di ciascuna di esse in un arco di tempo che va dal 2007 al 2020. Il Primo Capitolo affronta la questione del rapporto fra prassi artigianale e soluzioni compositive che ne oltrepassano il limite, a partire dalla scena finale di un celebre film, The Truman show, per concludersi con il testo di presentazione del quartetto per archi Scena con figure, esempio di radicalità applicato alla scrittura quartettistica. Noche oscura, la celebre pagina di San Giovanni della Croce e la composizione nella quale la impiegai, occupano il secondo capitolo basato, anch’esso con alcune modifiche, sul programma di sala redatto per il debutto di tale Kammeroratorium. Particolare attenzione è dedicata alla modalità con cui utilizzai il poemetto del mistico spagnolo in rapporto alla strumentazione complessiva della partitura. A seguire ho sintetizzato in un unico capitolo, il terzo, due interventi presentati in occasione della prima esecuzione di Delle Acque per voce recitante e orchestra, lavoro che mi fu commissionato dalla Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova, basato su alcuni frammenti tratti dal corpus degli studi sulle acque di Leonardo da Vinci. Il quarto capitolo riporta, anch’esso con gli adattamenti del caso, il testo della conferenza di presentazione di un ciclo di cinque composizioni per cinque strumenti intitolato Pentafora. L’ultimo capitolo della prima parte corrisponde, ancora una volta con aggiunte e modifiche, a quanto pubblicato, in inglese, nel booklet dell’incisione discografica di un altro ciclo di cinque lavori, intitolato Fluxum temporis I-V.

    La seconda parte si svincola dalla mia personale produzione per allargarsi a un raggio di considerazioni più ampio. Nel primo capitolo della seconda parte la fatidica domanda, «che cos’è la musica?», viene declinata in maniera inconsueta a partire dal concetto di cosa presente in essa. Il discorso prende l’avvio da una diversa formulazione dell’interrogazione ovvero «che cosa è la musica?». Possiamo considerare la musica in qualità di cosa? Che tipo di cosa è? Il titolo del capitolo successivo è tratto dalla scena finale del Don Giovanni di Mozart. Durante l’ultima cena dell’indomito seduttore, Leporello commenta le melodie che allietano la mensa del suo padrone richiamando i titoli delle tre opere da cui sono tratte. La strategia compositiva sottesa alla scena suggerisce un discorso sul tema che la musica, in quanto testo, permette una serie di operazioni (citazioni e autocitazioni, parafrasi, adattamenti, riscritture e molte altre) che ho genericamente ricondotto al termine intertestualità. Nel terzo pezzo della seconda parte mi occupo del silenzio seguendone le tracce non solo nella produzione compositiva, contemporanea o meno, ma anche in altri settori e discipline. Il quarto capitolo prende le mosse da un breve scritto del filosofo Gilles Deleuze, il quale, in occasione di una serie di corsi universitari a Vincennes, rivolgendosi a un pubblico eterogeneo si chiese quale potesse essere l’utilità di una filosofia che non parla di musica ai musicisti. L’ultimo capitolo della seconda parte si occupa del concetto di inaudito (o meglio, come si vedrà, in-audito) declinandolo non solo in ambito musicale e genericamente acustico, ma ampliando il raggio d’azione verso la sfera dell’intelligibile.

    Con la fine della seconda parte si conclude il corpo centrale del libro suddiviso nei suddetti due movimenti. Come la prima aveva trovato il suo levare nel Preludio, così la seconda, in omaggio al principio di specularità di cui sopra, trova una risonanza in eco nel Postludio. Quest’ultimo propone l’ipotesi certamente più azzardata e, forse, bizzarra del presente libro enunciando la possibilità che non siamo solo noi ad ascoltare i suoni, ma che siano i suoni stessi ad ascoltarci con la conseguente inversione di ruoli fra soggetto e oggetto della fruizione.

    Il lettore scoprirà strada facendo che sebbene ciascuno dei dodici pezzi della raccolta, come già espresso, sia isolato e tratti un argomento a sé stante (il che permette una lettura non necessariamente consequenziale dei vari capitoli), ciò non di meno una serie di spunti, idee o concetti ritornano a più riprese secondo i tradizionali procedimenti di rimandi e richiami fra temi che sono una costante di quasi tutta la musica (almeno di quella in cui tali entità siano presenti, ben definite e riconoscibili). Ad esempio, il concetto di testo (Capitoli 4 e 7), il tema del perturbante [unheimliche] (Capitoli 7 e 10) e quello dell’inaudito legato alla casualità degli incontri, delle letture o degli ascolti (Capitoli 1, 9, 10 e Postludio), il tema del silenzio (Capitoli 1, 8 e Postludio) e quello della semiografia musicale (Preludio e Capitolo 4), il concetto di cosa (Capitoli 1, 7 e Postludio) e la possibile, quasi scontata, discrasia fra ciò che un autore afferma della propria opera e ciò che i fruitori recepiscono della medesima (Capitoli 4 e 5).

    Tali rimandi sono opportunamente segnalati nelle note a piè pagina che si presentano corpose, ma, confido, non prevaricanti rispetto al testo vero e proprio. Ciò è anche indice del fatto che non era nelle mie intenzioni dare vita a un lavoro accademico, il che significa volto alla ricerca storica, musicologica o critica, anche perché non appartengo professionalmente a nessuna di queste categorie. Non meno presenti sono poi alcuni richiami più marcatamente autobiografici: dalla descrizione del posto in cui scrivo (Postludio) ai processi e alle strategie compositive che adotto (tutta la Prima Parte), da alcune particolari esperienze d’ascolto (Capitolo 10) a certi miei percorsi di lettura anche al di fuori dello stretto ambito musicale (Capitoli 1, 6 e 9).

    Infine segnalo la ricorrenza di un tema specifico, la dimensione temporale della musica, presente in quasi tutti i capitoli; segno dell’urgenza con cui preme nel mio orizzonte progettuale, e che troverà sbocco in una prossima pubblicazione.

    Preludio

    Aurora o del comporre

    È viaggiando in carrozza, o dopo un buon pranzo, o passeggiando, oppure nella notte, quando non riesco a dormire, che le idee mi vengono a fiumi e in modo migliore. Quelle che più mi piacciono le tengo a mente e, se è vero quanto mi hanno detto, le sussurro fra me e me.

    W. A. Mozart¹

    All’inizio l’idea non è che un vago profilo sonoro avvolto in una nebbia che ne lascia intuire la sagoma solo limitatamente. Essa è come sospesa in una dimensione priva di coordinate spaziali o temporali, ma già sufficientemente circoscritta affinché la sua identità possa stagliarsi su un orizzonte ancora più indeterminato. Nasce a caso, o forse no, accompagnata da una sottile vibrazione erotica e contornata di ricordi che subito ne incrementano lo spessore. Anzi, in un primo momento è facile confonderla con l’eco di qualcosa che ristagna nella memoria dopo essersi scavato una tana particolarmente confortevole. Non sappiamo, e forse non sapremo mai, quali reazioni chimiche la innescano, ma sappiamo che, nonostante giunga per lo più inaspettata, il lavoro quotidiano può favorire non poco il suo manifestarsi. O almeno così ci illudiamo che sia. Conta, sicuramente, farsi trovare pronti e ricettivi al suo transito, vale a dire in quella felice disposizione di spirito che permette di cogliere la delicatezza del chiarore nascente, il declinare del buio verso una luce che non è ancora veramente tale e della quale è solo una promessa.

    Parlo dunque di un evento aurorale, il primo dispiegarsi dell’idea, che colloco, concretamente non meno che simbolicamente, alla nascita del giorno. Nell’esatto istante – di brevità incalcolabile, ma pesantissimo in termini di densità – in cui il risveglio dissipa le tenebre dell’indistinto, ecco che l’idea ci viene incontro da lontananze siderali per sua autonoma e insindacabile decisione. Eppure, a ben vedere, in quella idea c’è molto di noi, della notte appena trascorsa, dei suoni e dei silenzi che l’hanno costellata. Essa ci appartiene e noi le apparteniamo, procede verso di noi quanto più noi andiamo verso di lei, sebbene la reciprocità di un simile movimento è forse più apparente che reale. Ogni sforzo in questa direzione sembra infatti destinato, almeno nella maggior parte dei casi, a rimanere deluso perché ciò che si richiede è paradossalmente, assai prima del trovare, una perdita. Di cosa? Di quella indisponibilità all’ascolto che confina gli opportuni recettori nel recinto dei cliché e delle abitudini, certo utili alla sopravvivenza, ma ingenerose nel consentirci uno sguardo nuovo e audace sulle cose e sul mondo.

    Queste poche righe vogliono introdurre il lettore ai segreti dell’attività creativa colta in statu nascenti: che cos’è, da dove proviene e quali sono le caratteristiche dell’idea da cui scaturisce un pezzo musicale²? Come si configura quel processo per cui, dal germe iniziale attraverso fasi successive, si giunge all’opera conclusa?

    L’idea si sceglie e ci sceglie. A volte, nei casi più fortunati, non si presenta da sola, ma con un corteo, seppur limitato, di altre entità che ne rappresentano già delle ipotesi di sviluppo. In linea di massima, una volta tratteggiato il suo volto, dopo che l’alba ha preso stabilmente possesso dell’orizzonte e il profilo delle cose appare a poco a poco sempre più netto, l’idea s’impone con ineludibile evidenza alla nostra fantasia. Gli strumenti della cronologia ordinaria si rivelano impotenti: impossibile o inutile rapportarla ai secondi, ai minuti o alle ore. Mai come nel caso della creazione artistica, siamo di fronte a quel «frammento di tempo allo stato puro» di cui parlava Proust in un celebre passo di Le Temps retrouvée³. Nessuna direzione temporale è privilegiata e addirittura pare azzerarsi l’antinomia fra singole unità e il flusso continuo dal quale dovrebbero essere isolate. Tutto è contemporaneamente istante e divenire, nunc stans e nunc fluens⁴.

    Ma, ecco che di lì a poco fanno la prima comparsa la carta e gli utensili della scrittura, rimasti sino a quel momento quiescenti. Il loro irrompere sulla scena segna uno scarto rispetto a prima, perché introduce la dimensione spaziale, ossia quella dei fogli e dei supporti su cui si può lavorare. Il definitivo insediarsi della luce del giorno accompagna l’artigiano che apre la sua bottega e inizia a operare con gli arnesi del proprio mestiere.

    Solitamente per fissare i primi abbozzi utilizzo il retro di volantini pubblicitari, frammenti di buste o vecchi documenti, proseguendo caparbiamente la mia personale battaglia contro tutti gli sprechi, in particolare quello della carta. Sfidando un’agorafobia, che potrebbe risultare paralizzante, in questa fase amo lavorare in uno spazio il più aperto possibile, totalmente adiastematico⁵, anche perché i processi di determinazione sono ancora piuttosto lontani dal poter essere notati sul pentagramma; anzi, in questo frangente il pentagramma potrebbe addirittura infastidirmi, proprio in virtù della sua intrinseca capacità definitoria. Su quei fogli registro i primi appunti utilizzando all’occasione vari codici: verbale (descrizione con poche parole di ciò che sta nascendo o è appena nato), iconico (qualche semplice tratto, molto meno di un disegno, che si limita a richiamare, ad esempio, la gestualità dello strumentista o il profilo di poche note). Il primo segno riconducibile alla notazione musicale (indipendentemente da quella che sarà poi la scelta, in una fase successiva, dell’aspetto e della natura di tale notazione: tradizionale, grafica, aleatoria, d’azione⁶) si riferisce solitamente allo scheletro di eventi ritmici, spesso già forniti delle rispettive dinamiche.

    Devo ora fare cenno alla non secondaria questione dei supporti. Pratico due differenti modalità di scrittura, sul divano e sul tavolo, a ciascuna delle quali corrispondono altrettante dimensioni creative, differenti se non proprio opposte. Nel primo caso l’atteggiamento del corpo è più morbido e rilassato, la schiena è leggermente incurvata e la seduta si rivela piuttosto comoda. Quel divano era già presente in una casa abitata in precedenza e su di esso mia moglie e io vivemmo non pochi momenti di felicità. Viceversa, nel caso della scrittura sul tavolo il corpo è seduto più eretto (la superficie di appoggio è necessariamente più alta rispetto al pavimento di quanto non avvenga nel caso precedente), c’è una maggiore tensione della colonna vertebrale e dei muscoli a essa inerenti sicché nel complesso, in questo secondo caso, il corpo è maggiormente teso. Per quanto riguarda il supporto dei fogli nel caso della scrittura sul divano possiedo una serie di tavole di compensato leggero, ma sufficienti a resistere alla pressione che la penna o la matita esercitano sulla carta. La loro area varia in ragione dei diversi formati di carta utilizzati.

    Nella mia soffitta, il luogo dove avviene tutto ciò di cui parlo in questo capitolo, sono presenti tre tavoli. Il primo, quello più grande, è un prodotto industriale, nulla più che una scrivania da ufficio, mentre gli altri sono il frutto dello smantellamento di un vecchio armadio. Due ante di quest’ultimo furono provviste di un paio di cavalletti ciascuna così da poter formare una conveniente superficie di appoggio. La loro area è inferiore a quella del tavolo principale, ed essi hanno, come ogni anta di armadio, un lato, che in origine era l’altezza, molto più lungo dell’altro che ne formava la base. Una sedie con braccioli è posta a favore di esso, ma orientandosi rispetto al lato più corto è possibile lavorare su fogli idonei alla stesura di partiture per grande orchestra con numerosi pentagrammi.

    Il divano è a due posti, particolarmente morbido e accogliente. Istintivamente collego a esso un senso di calore e di benessere che non è mai stato compromesso nemmeno da qualche notte ivi trascorsa in scomode posizioni rattrappite, quasi fetali. Rispetto all’intero processo di composizione i momenti in cui lo utilizzo possono essere i più vari: il dolce vagare della mente alla ricerca di un qualche punto di partenza, i primissimi abbozzi, l’ulteriore precisazione di elementi solo parzialmente fissati.

    I tavoli sono il palcoscenico di qualcosa che ha a che fare meno con la composizione vera e propria, che non con la dimensione sociale del suo autore. Infatti, sui tavoli esistono oggetti che costituiscono il complemento dell’atto creativo e ne predispongono, diciamo così, la via di fuga verso l’esterno del prodotto finale: computer, stampante, scanner, leggio da tavolo, telefono. Sui tavoli la scrittura va in scena secondo un copione diverso da quello previsto per il divano. Tra le differenze più significative posso indicare la maggiore presenza di utensili (righe e righelli, numerose penne e matite le più varie e di colori diversi, pennini a cinque rebbi necessari per vergare i pentagrammi su fogli neutri, inchiostri vari) e la possibilità di utilizzare una serie di griglie, solitamente delle superfici quadrettate, da posizionare eventualmente sotto i lucidi. Inoltre, tale modalità garantisce la possibilità di una maggiore vicinanza ai fogli, la migliore illuminazione di un determinato dettaglio grazie a una lampada a braccio facilmente orientabile, nonché l’immediato accesso a un certo numero di appunti e schizzi preparatori che possono essere affiancati e confrontati fra loro. Tutte queste sono operazioni relative a una fase più avanzata del processo di composizione, che può giungere sino alle soglie della redazione della copia definitiva.

    Il confronto con il pentagramma vero e proprio è altresì posteriore a un passaggio di fondamentale importanza connesso alla decisione se utilizzare o meno la tradizionale carta da musica. In quest’ultimo caso occorre elaborare opportunamente fogli vergini tracciando su di essi l’opportuno numero di pentagrammi mediante

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