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Manuale di poesia e musica: Il testo poetico e il suo rapporto con la musica. Analisi, esercitazioni e glossari
Manuale di poesia e musica: Il testo poetico e il suo rapporto con la musica. Analisi, esercitazioni e glossari
Manuale di poesia e musica: Il testo poetico e il suo rapporto con la musica. Analisi, esercitazioni e glossari
E-book633 pagine7 ore

Manuale di poesia e musica: Il testo poetico e il suo rapporto con la musica. Analisi, esercitazioni e glossari

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Info su questo ebook

Rivolto anzitutto agli studenti di composizione, canto e musicologia, questo libro vuole fornire gli strumenti tecnici e di conoscenza di un testo poetico, anche nella prospettiva di un eventuale rapporto con la musica.

I tre glossari (di metrica, prosodia e linguistica; delle principali figure retoriche poetiche e musicali; delle principali forme poetiche e poetico-musicali) hanno scopi non soltanto informativi, ma anche di sistemazione e di riproposta. Il terzo glossario in particolare è stato redatto in un'ottica di stretto rapporto con la musica, in ambito italiano, con qualche sconfinamento el Lied e nella poesia latina medievale.

La seconda edizione, riveduta e ampliata, è arricchita in Appendice da un saggio sul madrigale Ecco mormorar l'onde di Monteverdi.
LinguaItaliano
Data di uscita24 giu 2019
ISBN9788876656088
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    Anteprima del libro

    Manuale di poesia e musica - Bruno Gallotta

    Parte I

    IL TESTO POETICO

    I. Definizione di poesia

    I.1. Le ragioni della poesia

    «Perché Leopardi non ha scritto L’Infinito in prosa? – si domanda il poeta Attilio Bertolucci – L’ha scritto in versi perché così ha espresso con più intensità e concentrazione quello che pensava». È sufficiente un semplice spostamento di parola, per modificare la sostanza poetica.

    Prosegue il poeta: «[…] È molto importante quello che ti interessa sapere, il significato, ma è anche molto importante e decisivo quello che la poesia dà attraverso le immagini, è qualcosa che viene forse prima del pensiero, cioè il suono, la musica. […]».¹

    Seguendo questa traccia di Bertolucci, la questione può essere ulteriormente sviluppata e approfondita.

    Giacomo Leopardi in realtà ha di fatto scritto un Infinito anche in prosa. Lo possiamo leggere nello Zibaldone, alle pp. 171 e 1430-1431. Ecco il primo esempio:

    «[…] alle volte l’anima desidererà ed effettivamente desidera una veduta ristretta e confinata in certi modi, come nelle situazioni romantiche. La cagione è la stessa, cioè il desiderio dell’infinito, perché allora in luogo della vista, lavora l’immaginaz. e il fantastico sottentra al reale. L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario. Quindi il piacere ch’io provava sempre da fanciullo, e anche ora nel vedere il cielo ec. attraverso una finestra, una porta, una casa passatoia, come chiamano».

    Altrettanto evidente risulta il legame con l’Idillio, che viene tra l’altro espressamente citato, nel secondo esempio:

    «Circa le sensazioni che piacciono pel solo indefinito puoi vedere il mio idillio sull’infinito, e richiamar l’idea di una campagna arditamente declive in guisa che la vista in certa lontananza non arrivi alla valle; e quella di un filare d’alberi, la cui fine si perda di vista, o per la lunghezza del filare, o perch’esso pure sia posto in declivio ec. ec. ec. Una fabbrica, una torre ec. veduta in modo che ella paia innalzarsi sola sopra l’orizzonte, e questo non si veda, produce un contrasto efficacissimo e sublimissimo tra il finito e l’indefinito, ec., ec., ec.».²

    Poniamo dunque a confronto il testo dello Zibaldone con i versi della poesia:

    Sempre caro mi fu quest’ermo colle,

    e questa siepe, che da tanta parte

    dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.

    Ma sedendo e mirando, interminati

    spazi di là da quella, e sovrumani

    silenzi, e profondissima quiete

    io nel pensier mi fingo; ove per poco

    il cor non si spaura. E come il vento

    odo stormir tra queste piante, io quello

    infinito silenzio a questa voce

    vo comparando: e mi sovvien l’eterno,

    e le morte stagioni, e la presente

    e viva, e il suon di lei. Così tra questa

    immensità s’annega il pensier mio:

    e il naufragar m’è dolce in questo mare.

    Sul piano complessivo la poesia dell’Infinito corrisponde concettualmente ai pensieri dello Zibaldone.

    Il referente generale è però trattato in prima persona, ossia come sentimento dichiaratamente personale, attraverso un’espressione diretta dei pensieri, delle immagini e delle sensazioni che si creano nella mente del poeta di fronte «all’ermo colle» e alla «siepe». Cosa questa che gli consente di affrontare con estrema sinteticità alcune delle sue più complesse tematiche, dal sentimento dell’infinito al piacere dell’illusione fantastica, al sentimento della nullità delle cose, argomenti che nello Zibaldone richiedono pagine e pagine di trattazione. Nei suoi pensieri in prosa Leopardi spiega, argomenta, riflette; nell’Infinito esprime ciò che sente, immagina, ricorda. L’esposizione è qui più densa, pregnante, sintetica, poiché tocca direttamente le corde del sentimento, il vero ed effettivo scopo della lirica.

    Il confine reale tra la prosa dello Zibaldone e il testo dell’Infinito, sta nella struttura formale del secondo, causa prima della densità e della pregnanza rilevate sopra. Ma queste, a loro volta, sono determinate dal fine ultimo della poesia, che mira a trasmettere il più direttamente possibile al lettore non soltanto l’idea di certi sentimenti, ma anche la loro sensazione; in altri termini, i sentimenti stessi, determinati dall’unione fra sensazione e concetto.³

    Stabilito questo è chiaro che le differenze investono l’impianto espressivo nel suo complesso. Supponiamo per esempio di tradurre in prosa i primi tre versi dell’Idillio. Si potrebbe così trasformarli: «Questo colle solitario e questa siepe, che impediscono allo sguardo di giungere sino all’orizzonte estremo, mi furono sempre cari». Si può naturalmente fare di meglio, ma dubitiamo che in ogni caso possa restare qualcosa della poesia leopardiana.

    Una versione in prosa che ricalcasse fedelmente i versi, non sarebbe altro che una stesura allungata, una riflessione profonda ma priva di quegli elementi che trasformano in sentimenti e visioni i concetti presenti nell’Infinito.

    In quest’ultimo vi è anzitutto la disposizione in versi con al loro interno una successione regolare di accenti; in secondo luogo la struttura sintattica e concettuale, che si sovrappone quasi costantemente a quella metrica grazie agli enjambements (gloss. 1), con risultati espressivi ambigui dal punto di vista melodico.

    Per queste ragioni il ritmo di lettura è ben diverso da quello della prosa. Ma a ciò si devono aggiungere, come elementi di differenza, le immagini ottenute da metafore e sinestesie, come «sovrumani silenzi», «profondissima quiete», «infinito silenzio»; inoltre vi è il tessuto lessicale complessivo, con la scelta anche di particolari vocaboli; si pensi se al posto di «ermo» vi fosse «solitario».

    Tutto questo mira a far sentire, al di là del puro livello semantico-concettuale, i motivi che sono alla base in questa poesia del sentimento dell’infinito: lo spazio («interminati spazi», «tra questa immensità», «in questo mare»), il tempo («l’eterno», «le morte stagioni e la presente e viva»); infine l’elemento vitale rappresentato, in positivo o negativo, da simboli sonori quali «odo stormir», «a questa voce», «il suon di lei», e all’opposto, «sovrumani silenzi», «infinito silenzio», «profondissima quiete».

    Sono queste le espressioni e le immagini che concorrono a trasmettere quelle sensazioni piacevoli per il loro «indefinito», secondo quanto scrive Leopardi nello Zibaldone, e che divengono in chi legge, «sentimento dell’infinito».⁴ In esso si fonde anche quello della «nullità delle cose», presente con chiarezza nelle espressioni legate all’inesorabile scorrere del tempo («e mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni […]») nonché all’idea di autoannientamento: «così tra questa/ immensità s’annega il pensier mio/ e il naufragar m’è dolce in questo mare/».⁵

    Da questi brevi cenni di lettura e di analisi, si può dunque giungere a una prima conclusione. Un testo poetico, anche quando contiene un preciso messaggio di carattere filosofico, storico od esistenziale, tende a trasmettersi in una forma che va oltre il significato diretto della parola e delle frasi, per sconfinare nella sensazione e nell’evocazione.

    Non si tratta di spiegare, raccontare, descrivere, ma di far sentire l’espressione nella sua totalità; e tale espressione è così completa in sé, da non permettere alcuna modifica.

    In un verso di poesia, dove tutti gli elementi (contenuto concettuale, ritmo, lessico, fonetica) sono posti sul medesimo livello strutturale di funzione espressiva, cioè in stato di equivalenza, ogni minimo cambiamento, che pure non alteri le funzioni sintattiche, ha conseguenze sulla struttura generale del verso stesso.

    Scrivere in poesia significa dunque creare una forma che mira a suscitare il più direttamente possibile sensazioni e stati d’animo, ben oltre il contenuto concettuale del testo e i vincoli posti dalla parola e dalle strutture del linguaggio. Il sentimento così trasmesso rappresenta l’espressività del contenuto poetico, mentre quest’ultimo si identifica con la forma espressiva stessa.

    I.2. Poesia e prosa

    A differenza della poesia, la prosa si colloca in un registro espressivo normale, che trasmette un contenuto in termini concettuali. Questo indipendentemente dalla finalità del testo, che può essere di carattere artistico e letterario, come il romanzo o la novella, oppure storico, filosofico, scientifico e giornalistico.⁷ Stiamo infatti parlando di codici e di mezzi tecnico-espressivi, non di estetica e di generi.

    Condizione prima perché un codice possa definirsi poetico è che un testo sia comunicato e sentito come trasgressivo nei confronti di quello prosastico.

    La normalità di una prosa è data dal fatto che ogni elemento retorico e atipico presente in essa, ha lo scopo di rafforzare e sostenere l’espressione concettuale, e non di trasfigurarla. In termini linguistici si può dire che alla denotazione, o funzione referenziale denotativa, tesa a trasmettere direttamente il contenuto semantico-concettuale,⁸ si aggiunge la connotazione, o funzione referenziale connotativa, che ha il compito di arricchire espressivamente, senza alterarne il significato, un determinato concetto. Le immagini sono parte integrante di qualsiasi linguaggio. Ma anche in orazioni o in prose letterarie, esse hanno principalmente una funzione di chiarimento e arricchimento espressivo dei concetti.⁹ Al contrario della poesia, dove le stesse, come il ritmo e la fonicità, sono elementi espressivi autonomi, dotati di forza propria.

    Se si comincia ad avvertire il senso della trasgressione, il codice prosastico entra in crisi. Facendo un esempio concreto, non v’è alcun dubbio che oggigiorno sia considerata del tutto inaccettabile, e anzi terribilmente fastidiosa, la presenza di rime in un testo in prosa, accettabilissima invece, in poesia. Ecco una dimostrazione di differenza palese fra i due codici.

    Dunque un brano in versi ritmicamente regolari, con presenza di rime, ma non necessariamente (l’Idillio di Leopardi è in versi sciolti), con disposizione sintattica e linguaggio assolutamente liberi, presenta i segni incontrovertibili dell’espressione poetica.

    Quest’ultima risulta prodotta da ciò che con termine linguistico si definisce «funzione poetica», ossia il mezzo col quale si evocano immagini e sentimenti trascendendo lo stretto livello semantico-concettuale del testo.¹⁰ In tal senso per noi è poesia anche una ballatella per bambini come La Vispa Teresa, così come taluni giochi di parole studenteschi e pubblicitari.¹¹ Infatti, tradotti in prosa, questi brani perderebbero completamente la loro efficacia espressiva, centrata sull’uso e la disposizione di certe parole come vezzeggiativi, diminutivi, troncamenti, con una forte scansione ritmica e una fortissima incidenza delle rime.

    La forma poetica, realizzata attraverso la funzione poetica, stabilisce la differenza di fondo tra prosa e poesia. Tra L’Infinito e una sua eventuale trascrizione in prosa, per quanto elevata, vi sarebbe una diversità di struttura tecnico-formale. Viceversa, se si modificasse soltanto internamente la liricissima prosa del romanzo dannunziano Trionfo della morte, noi avremmo una differenza di stile e di qualità, non di forma espressiva. Al massimo potrebbe cambiare il registro, cioè il livello e la tipologia dell’espressione; non il codice.¹² Quest’ultimo è legato ai diversi scopi espressivi.

    Occorre tuttavia procedere a un’ulteriore distinzione, poiché la funzione poetica non produce automaticamente poesia artistica. Possiamo affermare che un brano centrato su di essa è sicuramente una forma poetica, ma non ancora una poesia in senso letterario, con una propria valenza estetica, quale che ne sia il livello.

    Perché si arrivi a questo è necessario che un testo venga creato e funzioni con una sua compiutezza strutturale, che gli consenta di essere fruito autonomamente per le immagini e i sentimenti prodotti.¹³

    Le pure e semplici forme poetiche, all’opposto, sono testi privi di un contenuto completo e organico dal punto di vista letterario; e questo perché le finalità di partenza non sono estetiche.

    Semplici giochi di parole, formule, battute di carattere politico, pubblicitario e goliardico, privi di efficacia espressiva al di fuori della loro stretta funzione, sono forme poetiche.¹⁴ Anche brani più complessi e che vengono comunemente definiti «poesie», sono in realtà soltanto forme poetiche, come certa poesia per musica o il romanzo in versi.¹⁵

    Diciamo per maggior chiarezza che il termine «poesia» sottintende a un secondo livello un’ulteriore distinzione tra poesia in quanto mera forma poetica, e poesia come forma letteraria, suscettibile di poter essere letta o recitata, e quindi apprezzata, per se stessa.

    Tutte le poesie sono in primo luogo forme poetiche, ma non tutte raggiungono funzionalità letteraria e quindi autonomia estetica, anche se per comodità e convenzione si impiega lo stesso termine.

    Possiamo quindi definire «poesia» sia il testo di un’aria d’opera che un sonetto del Petrarca. Il punto è di essere consapevoli delle differenze, per le quali soltanto il brano petrarchesco risulta essere una poesia a tutti gli effetti. Decisivi, a parte ogni considerazione estetica, sono la funzione e il contesto, senza dimenticare i fattori di ordine storico e di fruizione.¹⁶

    I.3. Alcuni problemi

    Fra gli estremi incontrovertibili della poesia e della prosa vi sono comunque zone grigie e discutibili. La tendenza della poesia in quest’ultimo secolo è stata quella di rinunciare a gran parte delle sue caratteristiche espressive tradizionali, per cui sono venuti meno in molti casi le rime, il linguaggio più strettamente poetico, i ritmi facilmente scandibili. Ha conquistato invece sempre più spazio uno stile prosastico, spesso in linguaggio corrente e in versi liberi privi al proprio interno di un preciso andamento ritmico. Sovente l’unica distinzione incontestabile tra le due forme può apparire la verseggiatura.

    Quest’ultima è in ogni caso un primo e fondamentale segnale, una precisa indicazione sul fatto che un testo in tale veste grafica non deve essere letto come una prosa normale. A tal punto che la sua disposizione originale, così come la sua funzione, non può essere mutata per assurdo; e questo vale, all’opposto, per i brani in prosa. È inutile speculare sulla possibilità che l’enunciato iniziale dei Promessi Sposi, «Quel ramo del lago di Como», sia ritmicamente un verso di nove sillabe. Si tratta di una cosa del tutto priva di senso, poiché nella realtà non è questa la sua funzione, né esso è avvertito come tale. Abbiamo solo l’incipit di un più vasto brano in prosa.¹⁷ Lo stesso si può dire per «l’Addio ai monti» di Lucia, che molti studiosi si divertono a disporre in versi liberi più o meno arbitrari.

    La disposizione originale di un brano letterario in linee chiamate «versi», è nell’accezione comune parte integrante e determinante della forma poetica. La sua lettura è suscettibile di essere fortemente caratterizzata in senso trasgressivo per ritmo, pausazione, prevalenza di singole parole ed espressioni. La fine del verso rappresenta non soltanto una pausa visiva ma anche psicologica, e chi legge non può non considerare tale realtà, magari per non rispettarla.

    È vero però che la segmentazione non sempre significa sul piano tecnico presenza effettiva di versi. Esistono infatti anche i versetti, e più in generale le linee possono costituire nient’altro che prosa segmentata, che comunque non è più prosa normale.

    Il primo dato fondamentale è il contesto. Se i segmenti lineari rappresentano un brano inserito in una raccolta di poesie, o sono comunque posti in evidente alternanza a pagine in prosa, l’indicazione è chiara: si vuole che vengano recepiti come versi. Non è il caso sicuramente per questo passo tratto dal Notturno di Gabriele D’Annunzio («Prose di ricerca […]», Milano, 1966, p. 219):

    Bambini macilenti, tutt’occhi,

    sudici, tristi. L’acqua del rio malata.

    La casa rossastra coi dieci camini a imbuto.

    Un cielo grigio, umido, freddo.

    Estrapolati dal loro contesto, questi segmenti potrebbero benissimo sembrare versi di una poesia novecentesca. Inseriti come sono, senza alcuno stacco anche visivo, nella pagina in prosa del Notturno, parte integrante di una descrizione più vasta e perfettamente denotata per luogo e tempo, altro non sono che brevi frasi nominali, costituenti col punto a capo un periodo spezzato dal ritmo languido e dilatato. Il lettore più avveduto potrebbe forse sentirvi gli effetti del cursus planus ritmico (v. gloss. 1).

    Al contrario, in un ambito già predisposto poeticamente, la segmentazione rappresenta un primo indiscutibile segnale di trasgressione nei confronti della prosa. Ma anche in questo caso non abbiamo ancora il definitivo approdo a un codice poetico. Perché si arrivi a questo occorre che tali segmenti siano effettivamente versi, o comunque si configurino come tali nella coscienza del lettore.

    I.4. Individuazione del verso

    Senza dubbio è possibile parlare di verseggiatura in presenza di elementi tradizionali: una precisa ritmica interna ai versi, le rime, un eguale numero di sillabe o uno schema ricorrente tra versi di differente lunghezza, un frequente scarto fra metro, sintassi e concetto, e una libera disposizione degli elementi sintattici e grammaticali all’interno della frase; tutto ciò che suona come trasgressione rispetto a un brano in prosa. Non è necessario che gli elementi indicati siano tutti presenti, ma certo la loro contemporanea assenza comincia ad avvicinare notevolmente un brano in apparenza poetico a una prosa.

    Scegliamo come esempio un testo noto: il Cantico di Frate Sole, o Laudes creaturarum, attribuito a San Francesco, di cui citiamo l’inizio: «Altissimu, onnipotente, bon Signore,/ tue so’ le laude, la gloria, e l’honore, et onne benedictione./»

    Fermiamoci qui, dato che per il resto questa lauda procede nello stesso modo, e cioè con una successione di segmenti dove pensiero, sintassi di periodo e sintassi di frase sono perfettamente coincidenti con i segmenti stessi. Non vi sono infatti concetti, frasi e parti di frasi che si sovrappongano irregolarmente alle linee; inoltre la disposizione degli elementi all’interno della frase non si discosta dal codice prosastico.

    Tutto questo ci porta già ad individuare tali segmenti, non scandibili ritmicamente, come versetti riuniti in lasse di diversa lunghezza, secondo l’estensione del pensiero, con un criterio chiaramente derivato dalla tradizione salmodica.

    A ciò si deve aggiungere la comunicazione in uno stile piano, descrittivo, senza particolari figure e abbellimenti poetici, salvo la presenza di alcune rime e assonanze. La fine dei versetti è contrassegnata in buona parte da cadenze regolari, secondo le norme di quello che viene definito «cursus» ritmico medievale.¹⁸

    È senz’altro giusto in senso tecnico-formale considerare questa lauda come prosa ritmica, tanto più che all’epoca il termine prosa poteva indicare un testo, generalmente un’epistola o una preghiera, e comunque di carattere elevato, anche con rime. Oggigiorno entra in gioco l’atteggiamento del lettore, il quale ben difficilmente potrà collocarsi nella prospettiva di chi nel XIII secolo non leggeva ma cantava o ascoltava il Cantico come preghiera di lode alla gloria di Dio.

    In questo senso si è sicuramente verificato un cambiamento di funzione del testo, che attualmente, oltre che come testimonianza storico-religiosa e letteraria, può essere recepito come brano lirico autonomo, e quindi sentito poeticamente piuttosto che prosasticamente.

    I.5. Versificazione tradizionale e versificazione moderna

    Indubbiamente la versificazione tradizionale introduce automaticamente il lettore nell’espressione poetica. Qui il dato tecnico è di per se stesso poesia. Né va dimenticato che spesso vi è un tessuto di figure retoriche, costruzioni di frasi, scelte lessicali, che a sua volta costituisce un segnale inequivocabile di poesia. Questi aspetti sono strettamente collegati e ci obbligano a sentire poeticamente secondo i canoni consolidati della nostra tradizione.

    All’opposto possiamo incontrare brani in versi dove l’espressione di linguaggio, e di conseguenza il ritmo, sono correntemente prosastici. Unico elemento inequivocabile è la struttura in versi. Questi ultimi tuttavia, che pure sono riconosciuti come autenticamente poetici, nel senso che tali sono dichiarati dall’autore e inseriti in un contesto definito a sua volta poetico, spesso potrebbero sembrare prosa segmentata. È il caso di una poesia di Giovanni Giudici, della quale proponiamo la prima strofa:

    Quanti dollari quante sterline.

    Al posto di una lira loro ne prendono mille.

    Va’ pure in Francia ma attento con tutti quei soldi.

    C’è chi gira nel mondo solo per quello scopo. […]¹⁹

    Difficile definirli versi in senso stretto. Nella sostanza non sono altro che frasi o periodi giustapposti verticalmente, in un ordine sintattico del tutto regolare. Potrebbe trattarsi di prosa in versetti. Dal punto di vista ritmico non vi è in superficie nulla di trasgressivo, tale da far sentire già al primo approccio i versi, attraverso un minimo di lettura cadenzata. Neppure è visibile un qualsiasi elemento retorico tipo metafora o metonìmia, che, indipendentemente dal ritmo, riesca a trasmettere alcunché di poetico rispetto a una comunicazione in prosa. Eppure questo brano viene tranquillamente catalogato e letto come poesia.

    La ragione sta forse nel fatto che il testo, nella sua prosasticità apparente, può essere sentito dal lettore non soltanto come mezzo di comunicazione concettuale, ma come forma espressiva di un sentimento generale sullo stato dell’emigrato italiano, sulla sua solitudine e sulle insidie che lo circondano; si possono ricavare immagini, sensazioni, e da qui sentimenti.

    Come afferma L. RENZI, questa poesia sarebbe tale perché il suo testo, come quello di tutte le poesie, si presenta come «finto», chiedendo di essere letto non alla lettera, ma per qualche cosa che suggerisce. In sostanza, «tutta la poesia è una metafora» (noi preferiamo simbolo; gloss. 1), in quanto rimanda ad altro. Il contenuto concettuale, cioè la condizione dell’emigrante, e il tono confidenziale piccolo-borghese, possono trasfigurarsi in «un ventaglio illimitato di altri significati».²⁰

    Restano sempre da stabilire le ragioni per le quali non si dovrebbe intendere questo testo di Giudici, «alla lettera». La struttura sintattica presenta certamente dei tratti atipici, con sequenza di frasi allineate e un fortissimo parallelismo, accentuato poi nella seconda strofa dalle anafore. Lo stile è volutamente trascurato, con una totale assenza di punteggiatura.

    Tuttavia il fattore poeticamente decisivo, oltre alla veste e al contesto tipografici, è il referente generale. Non si sa chi parla né chi ascolta, e neppure si riscontrano coordinate di tempo e di spazio; soprattutto non è espresso in termini precisi e organici il significato complessivo, che deve perciò essere intuito dal lettore. Quest’ultimo aspetto in particolare è ciò che differenzia il brano da una prosa lirica.

    Per tutte queste ragioni il testo può essere considerato un simbolo metaforico e quindi poesia, capace di trasmettere immagini e sentimenti ben oltre il puro dato semantico-concettuale. E in quanto poesia ecco che le frasi, disposte a segmenti, si trasformano nella coscienza di chi legge, in versi perfettamente regolari.

    Si deve dunque concludere che una stesura in versi, o apparentemente tale, non crea automaticamente una forma poetica completa, anche se ne rappresenta il segnale indispensabile, ormai storicamente consolidato. Un testo in tale veste non è già più prosa, poiché fuori del relativo codice espressivo. Chi lo legge è predisposto in partenza a fruirne come poesia. Successivamente si rende però necessaria una conferma sulla base di altri elementi di ordine simbolico e contestuale.

    I.6. La realtà della poesia

    La naturale esigenza di certezze oggettive può urtare contro la convenzionalità di elementi quali la stesura in versi, il contesto e la funzione. Ma qualsiasi forma di espressione umana è sotto questo aspetto convenzione, manifestata attraverso segni e simboli comunemente accettati in un certo ambito di pensiero, di gusti, di esigenze, in una determinata epoca. Si pensi al linguaggio in genere, una realtà maturata attraverso i tempi con lo scopo di una comunicazione reciproca.

    La verseggiatura si è consolidata come manifestazione prima, della poesia, almeno di quella scritta. Il verso è segno poetico, parte integrante della trasgressività della poesia rispetto alla prosa.

    Si tratta di una realtà che lo stesso Leopardi riconosce, nonostante egli affermi, con ragione, che la poesia in sé non sarebbe legata al verso.²¹ Essa però lo è di fatto a tutt’oggi per i suoi fruitori, e questo è quanto basta. Porre il testo di una lirica novecentesca per esteso sarebbe in teoria possibile. Ma tale operazione urterebbe contro un’assuefazione culturale stabilizzata da tempi immemorabili, con forte pregiudizio per la lettura poetica. Non è detto che le cose non cambino in futuro, con nuove convenzioni e assuefazioni. Per il momento tuttavia la realtà è ancora questa. E d’altra parte la straordinarietà del linguaggio poetico, che Leopardi giustamente rileva, esiste perché straordinari sono gli scopi della poesia, che vogliono trasmetterci direttamente il sentimento di un determinato contenuto, piuttosto che la sua denotazione.

    Possiamo proporre a conferma un esempio veramente limite, costituito da una poesia di un solo verso, tratta dagli Epigrammi di Salvatore Quasimodo (da Tutte le poesie, Milano, 1986):

    «Dalla rete dell’oro pendono ragni ripugnanti»

    Si tratta di un verso unico, presentatoci in tale veste dall’autore.²² Questo è già un dato di fatto importante, perché accende subito in chi legge la coscienza del verso stesso.

    Ma a questa disposizione di base deve seguire l’effetto simbolico complessivo del testo, che nel brevissimo brano, con lessico e ritmo del tutto normali, risulta centrato sulla figurazione retorica.

    Tutto fa capo ad un’unica metafora, «la rete dell’oro». La parola «rete» può trasmettere una sensazione di intrico, di avviluppo, di prigionia, di qualcosa di avvolgente e nello stesso tempo, grazie al vocabolo «oro», di seducente. Ma questa ambiguità viene subito infranta dalla successiva espressione, «pendono ragni ripugnanti», che, pur in un lessico del tutto corrente, introduce un’immagine di orrore e di repulsione. L’effetto è rinforzato dalla figura sintattica dell’inversione, con complementi, predicato e soggetto posti in ordine inverso.

    La metafora complessiva non potrebbe essere più chiara. Il poeta intende suscitare un sentimento di rigetto nei confronti della cupidigia di ricchezza e di tutte le brutture che essa produce. Ma l’aspetto fondamentale è che tale sentimento vuole porsi in un ordine più vasto rispetto al mero contenuto concettuale, con valenza e implicazioni universali.

    Siamo di fronte a un’unica proposizione, tale però da avere, per la costruzione e per le immagini simboliche trasmesse attraverso la retorica, un’efficacia espressiva densa e articolata. Si tratta di un ipersegno, una realtà testuale di più ampia portata rispetto al puro dato semantico-concettuale. Al suo interno tutte le parole scelte divengono altrettanti ipersegni, insostituibili e inamovibili. Il poeta ha selezionato le espressioni e le ha combinate su una base di assoluta eguaglianza, cioè di equivalenza, legata non soltanto alla funzione grammaticale e sintattica, ma alle caratteristiche lessicali, sonore, di posizione e di immagine. Tutto ciò è proprio della funzione poetica, base a sua volta della forma poetica.

    L’epigramma in questione, è poesia. L’unica frase di cui si compone, sia per il contesto di presentazione, che per la struttura di contenuto, costituisce un verso di sedici sillabe, forse un esametro, che non cessa di essere tale soltanto perché isolato. Nella coscienza del lettore esso è un verso, con le sue scansioni e cadenze ritmiche.

    II. Ritmo e metro

    II.1. Definizione di ritmo e di metro

    Per l’annoso dibattito sul ritmo,²³ partiamo dalla definizione universalmente conosciuta di Platone: «il ritmo è l’ordine del movimento».²⁴

    Il filosofo si riferisce per la verità ad un particolare tipo di movimento, quello della danza, legato ad esigenze e tendenze specificamente umane. Furono gli dei ad elargire agli uomini, e solo a loro, il senso dell’ordine e del disordine nel movimento, cioè il senso del ritmo.²⁵ Ne consegue che la capacità di creare o di cogliere un dato ordine o disordine in un certo movimento, è una funzione che la mente umana esplica nei confronti della realtà esteriore e interiore. Di qui le eventuali implicazioni di carattere psicologico e comunque soggettive, relative alla individuazione e fruizione di un ritmo.

    Si può dunque affermare che secondo Platone il ritmo, più che un generico «ordine del movimento», è un movimento ordinato così come appare o viene creato dagli uomini; definizione che del resto neppure contraddice il significato più antico della parola.²⁶

    Altra questione che si pone, è la distinzione fra metro e ritmo. Già gli antichi, incluso lo stesso Platone, considerano il primo come la misura del secondo. Il metro è il calcolo numerico del ritmo, tutto ciò che risulta misurabile aprioristicamente in termini di rapporti matematici; di conseguenza esso costituisce un’organizzazione precisa dei tempi di svolgimento del ritmo stesso.

    In poesia l’elemento metrico più vistoso è il verso, basato, perlomeno in Italia e in Francia, sul computo delle sillabe oltre che sulla distribuzione degli accenti. La strutturazione misurata e misurabile di questi segmenti ritmici, dà in teoria ragione, in caso di versi di uguale estensione, del loro isocronismo, ossia della loro ripetizione in tempi uguali. Nel caso di versi differenti, si può comunque parlare di combinazione regolare e prevedibile, e quindi metrica, di durate diverse.

    Tutto questo perché si parte dall’assunto dell’esistenza di un tempo primo corrispondente a una sillaba. Sempre in teoria, infatti, le sillabe nella poesia italiana hanno uguale durata.

    All’interno del verso vi è un’ulteriore suddivisione metrica, dettata dalla regolare successione di sillabe toniche e atone, che porta alla formazione di piedi ritmici ancora oggi indicati, secondo la terminologia classica, come giambi, trochei, dattili, anapesti. Per esempio, nel verso dantesco «Nel mézzo dél cammín di nóstra víta», le sillabe accentate determinano un ritmo di scansione giambica, con successione atona-tonica, che costituisce il metro del ritmo stesso.²⁷

    A questi elementi metrici primari si possono aggiungere, secondo lo stile e le forme, altre articolazioni maggiori, come la combinazione tra i versi, il loro eventuale raggruppamento in strofe, e la sequenza di queste ultime. Per esempio, in una forma canonica come il sonetto gli elementi metrici sono, nell’ordine, i versi endecasillabi, con la distribuzione interna degli accenti, le strofe, due quartine e due terzine, e per un certo aspetto anche la disposizione delle rime.

    Il ritmo misurato è quindi un dato concreto in poesia. Esso riconduce a precisi rapporti di ordine matematico e come tale a una strutturazione periodica dei tempi, sia tra i versi che tra le sillabe, accentate e no, all’interno dei versi stessi. In sostanza esso consiste in uno schema ricorrente che si concretizza in una successione di tempi forti e deboli di durata uguale.

    Tutto ciò, sia chiaro, in veste puramente teorica. Nessuno infatti penserebbe di leggere un testo poetico per il piacere di porre in evidenza il disegno metrico. Questa non sarebbe lettura ma scansione, cosa che in sede analitica ha comunque un suo significato. Come scrive infatti uno studioso, si tratta «di un tipo di esecuzione che mette in luce la legge di distribuzione degli ictus o accenti, e tutti gli altri fenomeni e figure che compaiono nel verso, permettendo il riconoscimento dei fatti metrici e ritmici […]. Questa scansione non è operazione arbitraria, perché si limita a rendere palesi le regole di costruzione insite nei versi».²⁸ Scandendo un verso, lo si suddivide in gruppi, o piedi, di due o di tre sillabe di uguale durata ma di diversa intensità, come nell’esempio dantesco.

    Emerge quella che il DELLA CASA (cit., p. 119; lo studioso si riferisce alla musica, ma la problematica è del tutto simile) definisce «matrice temporale profonda» o «una sorta di reticolo» o «quadrettatura di riferimento». Essa non è altro che il metro, «associato alle idee di schema astratto, di modello numerico ideale» (ibid.). Alla base vi è una successione di pulsazioni distribuite a intervalli periodici, come i battiti del polso o dell’orologio, che, debitamente percepite e organizzate in gruppi regolari dal fruitore, costituiscono per la quasi totalità degli studiosi l’essenza stessa del ritmo (anche SANTAGOSTINI, cit., pp. 4-5).

    Nel caso specifico di una poesia italiana, questa base pulsionale è costituita dalla successione di sillabe di uguale durata, organizzate in piedi all’interno di versi di una data lunghezza.

    Naturalmente la lettura vera e propria è un’altra cosa. Pur essendo condizionata in diversa misura dalla base metrica di partenza, essa si realizza anche attraverso altri elementi ritmici che non sono di natura numerica. Infatti in poesia, accanto al ritmo metrico si possono individuare ritmi prosodici, sintattico-semantici, concettuali-melodici, persino retorici. Per non parlare di quelli espressivi, di carattere più strettamente soggettivo. Sono tali fattori che determinano, sempre con riferimento a un singolo verso, eventuali differenziazioni fra gli accenti, la diversa durata delle sillabe, e inoltre la presenza di possibili pause.

    Questo ci riporta alla distinzione iniziale fra metro e ritmo. Per il DELLA CASA (pp. 119, sgg.), riferendosi a musica e a poesia, il secondo è l’effetto di movimento che si produce concretamente, realizzato e percepito con tutte le variabili e flessibilità possibili, e del quale il primo costituisce il necessario presupposto. Senza metro, che è sempre e comunque individuabile nella struttura profonda, non vi sarebbe ritmo poetico e musicale.

    Tale conclusione, sostenuta dallo studioso con una cospicua bibliografia (pp. 251-254), ci trova d’accordo solo parzialmente. Il metro è caratteristica fondamentale della nostra poesia e di grandissima parte della nostra musica, ma non necessariamente della sostanza del ritmo sul piano generale. Esso è la misura del ritmo; ma quest’ultimo può anche non avere misura alcuna, risultando libero. Negare questo assunto significa per esempio affermare la mancanza di ritmo in prosa. Lo stesso si potrebbe dire in musica per il Canto Gregoriano.

    In realtà «l’ordine del movimento» di Platone non deve necessariamente essere isocronico, in tempi uguali rilevabili matematicamente. È vero che di norma in poesia si ricerca aprioristicamente un andamento metrico; ma questo avviene a causa della disposizione in versi. In una qualsiasi altra espressione temporale priva di segnali di misura, il lettore e l’esecutore ricercano in primo luogo un ordine nel movimento, che in prosa è basato sul dato concettuale.

    Da questo punto di vista l’isocronismo, avente come base la periodicità, semplice o complessa, di certi impulsi dati, è soltanto la manifestazione più eclatante di quest’ordine, ma non l’unica e indispensabile. Si ritorna quindi a Platone e soprattutto al significato originario della parola ritmo, intesa come forma in movimento o colta all’atto di un movimento.

    Essenziale è il rapporto che si stabilisce con la psicologia umana, che concorre direttamente alla formazione del fenomeno ritmico. Esiste un fattore esterno che noi percepiamo, ma al quale noi stessi diamo veste e significato ritmici. La stessa suddivisione metrica ai diversi livelli risulta tale in quanto percepita dal fruitore.

    In campo artistico questo non significa sminuire la funzione creativa dell’autore, che predispone l’ambito nel quale è possibile cogliere un dato ritmo, anche segnalandolo, come per la disposizione in versi. Funzione «poietica» (creativa) ed «estesica» (fruitiva) si sommano con uguale importanza. Entrambe partecipano alla realizzazione effettiva di una certa prosa, poesia o musica, anche sul piano ritmico.

    II.2. L’ordine del movimento

    A questo punto diviene fondamentale chiarire definitivamente il concetto di ordine del movimento. Si è detto infatti che il battito metrico-pulsionale, riconducibile ad una base regolare che potremmo definire cardiaca, è soltanto un aspetto del fenomeno ritmico. Esso costituisce un ordine del movimento, sia pure misurabile in termini numerici, ma non il solo possibile.

    Per esempio, da tempo immemorabile, eventi naturali come il movimento delle onde sono stati associati all’idea di ritmo.²⁹ Tale movimento si configura a noi come ordinato sia al suo interno, con il caricamento dell’onda e la sua distensione, che all’esterno, in quanto ripetuto con modalità sempre simili anche se non ad intervalli di tempo necessariamente uguali.

    Questo genere di ordine è centrato non tanto su una successione pulsionale-cardiaca, quanto su un andamento respiratorio. È ciò che riconosce in una fase successiva anche DELLA CASA (p. 128). A proposito del Canto Gregoriano, egli ammette che «si potrà scoprire che vi sono raggruppamenti ritmici (detti «distinzioni») che non hanno né durata precisa né un numero fisso di sillabe, e che sono compresi fra due inspirazioni successive: il ritmo, qui, ha natura del tutto libera, ed è fondato per così dire sul respiro [corsivo nostro]».

    Gli stessi battiti, come per esempio quelli di un pendolo, vengono ordinati psicologicamente secondo un movimento di andata e di ritorno (slancio e riposo), in linea con tale andamento respiratorio. È quest’ultimo a dare veste o forma ritmica ad una successione regolare di impulsi, e non la pulsazione in se stessa. Naturalmente le figure ritmiche, come dimostra SANTAGOSTINI,³⁰ possono anche variare, ma la sostanza non muta. L’effettiva differenza tra una successione periodica di pulsazioni, binaria o ternaria, e il moto delle onde, sta nell’isocronismo, vero o atteso, della prima, e quindi nella sua metricità, a fronte del ritmo libero del secondo, basato esclusivamente sulla ricorrenza regolare di movimenti simili ma non isocroni.

    Anche il metro, vale a dire la successione misurata degli impulsi, viene quindi modellato da questo andamento respiratorio che è di fatto alla base di ogni fenomeno ritmico. Esso è l’ordine effettivo che il fruitore ricerca e sente. L’elemento periodico, cioè isocronico, è un aspetto di tale ordine, e non il suo presupposto. Questo vale tanto per il metro poetico (sillabe o tempi come pulsazioni ordinate formanti il verso), quanto per quello musicale, con le sue suddivisioni di battuta.

    È anzitutto nella prosa, scritta od orale, che si può constatare la realtà di un movimento ordinato. La stesura o la lettura di una frase si svolge nella nostra mente attraverso un tempo concreto e uno spazio ideale (a differenza di un passo di danza dove lo spazio è reale). Per mezzo di questo svolgimento la frase, o qualsiasi altro elemento sintattico e concettuale, si realizza come in natura il moto delle onde. L’ordine di questa realizzazione sta nel suo svolgimento completo, costituito da un inizio, o proposta, e da una conclusione, o risposta.

    Tale ordine, che noi tendiamo a sentire come la successione di uno slancio e di un riposo, ossia di una tensione seguita da una distensione (arsi e tesi), costituisce il fattore ritmico di base nel quale suddividiamo qualsiasi movimento o svolgimento, e che naturalmente si rafforza in presenza di una ripetizione costante.

    In una frase in prosa la suddivisione avviene anzitutto secondo esigenze sintattiche e semantiche, sulle quali si innestano quelle espressive e di senso. Il primo livello offre eventualmente un ventaglio di possibilità, sul quale si può intervenire col secondo.

    Per esempio la frase «noi scriviamo», ha una cadenza obbligata, nel senso che l’apertura è sentita su «noi» e la conclusione sul verbo.

    Già diversa è la proposizione «noi scriviamo un libro», che presenta due possibilità di suddivisione. La prima vede un respiro, o comunque un accenno di sospensione, dopo il verbo; la seconda potrebbe prevedere una decisa inflessione su «noi». In entrambi i casi, tuttavia, la frase resta suddivisa in una premessa e conclusione, slancio e riposo.

    Marcate o meno che siano queste cesure, il movimento in quanto tale è avvertito a livello psicologico. Esso è ravvisabile su piani sempre più allargati, dalla frase al periodo, al periodo composto. Si tratta di ritmo in quanto movimento ordinato, ma non isocronico. A determinarlo sono vari elementi, non soltanto sintattici ma anche melodici, sottolineati ulteriormente dall’espressività di chi legge. Il tutto avente come base una precisa struttura prosodico-linguistica.

    Questa nozione di «ordine del movimento» è fondamentale. Essa sta a significare che un evento ritmico non esiste soltanto su base ripetitiva, cioè su parallelismo e ridondanza, isocronici o meno, ma anche e soprattutto per fattori di tensione e distensione che con termine linguistico potremmo definire «contrastivi». Una singola frase, come una melodia, è già comunque un fenomeno ritmico, in quanto ordinata internamente secondo una successione di arsi e tesi, o slancio e riposo.

    Il fattore contrastivo fra arsi e tesi determina nel ritmo misurato i piedi in poesia e le battute in musica (appoggi forti e deboli), ma costituisce al tempo stesso la base per il ritmo libero della prosa ai diversi livelli sintattico-concettuali (parole, frasi, periodi).

    Anche per tutti questi nuclei ritmici si ingenera un’attesa, che è di inizio e conclusione del nucleo stesso: battere e levare in piedi di versi e in battute musicali, slanci e riposi fra emistichi di un verso e all’interno di parole, frasi, periodi.

    Nel caso degli elementi sintattici tuttavia, l’attesa si risolve soprattutto con la compiuta esposizione del concetto, e non nella percezione dell’evento ritmico in se stesso.

    Questa è una differenza sostanziale tra prosa e poesia. Nella prima il fattore ritmico è strettamente funzionale alla trasmissione del contenuto concettuale. Frasi brevi, periodi spezzati, producono indubbi effetti di rapidità, eventualmente di concitazione, comunque di incisività e sinteticità, ma sempre nell’ottica di un’efficace comunicazione e descrizione del concetto. Non si registra alcuna attesa di ripetizione per se stessa fra i diversi segmenti sintattico-concettuali.

    In poesia

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