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Oltre il denaro: Per una nuova idea di società basata sull'economia circolare, il dono, l'ecologia e i beni comuni
Oltre il denaro: Per una nuova idea di società basata sull'economia circolare, il dono, l'ecologia e i beni comuni
Oltre il denaro: Per una nuova idea di società basata sull'economia circolare, il dono, l'ecologia e i beni comuni
E-book628 pagine9 ore

Oltre il denaro: Per una nuova idea di società basata sull'economia circolare, il dono, l'ecologia e i beni comuni

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Info su questo ebook

Il capitalismo contribuisce all’alienazione, alla competizione e alla scarsità, distrugge le comunità e richieda una crescita infinita a costo di devastazioni sociali e ambientali. Oggi queste tendenze hanno raggiunto l’estremo e il loro crollo rappresenta un’opportunità per passare a un modo di essere più connesso, ecologico e sostenibile.

Applicando una sintesi di teoria, politica e pratica, l’autore esplora i concetti d’avanguardia della Nuova Economia, tra cui le economie locali, l’economia del dono, le criptovalute e il ripristino dei beni comuni.

Attingendo a una ricca tradizione di pensiero economico convenzionale e non, Eisenstein presenta una visione originale, radicale e sempre più attuale man mano che le crisi della nostra civiltà si aggravano.

È ormai evidente come il capitalismo contribuisca all’alienazione, alla competizione e alla scarsità, distruggendo la comunità e imponendo una crescita infinita a costo di devastazioni sociali e ambientali. Oggi queste tendenze hanno raggiunto l’estremo, ma il loro crollo rappresenta l’opportunità per un modo di vivere più ecologico, sostenibile e ricco di relazioni.

Applicando una sintesi integrata di teoria, politica e pratica, Eisenstein esplora i con-cetti all’avanguardia della nuova economia, tra cui le valute a tasso negativo, le eco-nomie locali, l’economia del dono, le criptovalute e i beni comuni. Ci presenta così una visione originale ma di buon senso, radicale ma gentile, e sempre più attuale man mano che le crisi della nostra civiltà si vanno aggravando.
LinguaItaliano
Data di uscita21 ago 2023
ISBN9788866818755
Oltre il denaro: Per una nuova idea di società basata sull'economia circolare, il dono, l'ecologia e i beni comuni

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    Anteprima del libro

    Oltre il denaro - Charles Eisenstein

    PARTE PRIMA

    L’economia della separazione

    Tutte le convergenti crisi del nostro tempo derivano da una radice comune, che possiamo chiamare Separazione. Presentandosi sotto molte forme – la scissione tra uomo e natura, lo sgretolamento della comunità, la divisione della realtà in sfera materiale e spirituale – la separazione si ritrova in ogni aspetto della nostra civiltà. Essa è tanto onnipresente quanto insostenibile: genera infatti un crescendo di crisi che ci sta catapultando in una nuova era, quella della Riunione.

    Ora, la separazione non è una realtà oggettiva, ma una proiezione, un’ideologia, una narrazione. Ogni cultura ha la sua narrazione di riferimento, la sua storia di popolo, e la nostra, come tutte le altre, è composta di due parti strettamente interrelate: una storia del sé e una storia del mondo. La prima è la storia di un sé distinto, separato: una psiche simile a una bolla, un’anima incapsulata nella pelle, un fenotipo biologico geneticamente programmato per seguire i suoi interessi riproduttivi individuali, un attore razionale in cerca dell’utile economico, l’osservatore fisico di un universo oggettivo o ancora un granello di coscienza in una prigione di carne. La seconda è la storia della grande ascesa, per cui l’umanità, dapprima ignorante e impotente, sarebbe impegnata a imbrigliare gli elementi naturali e sondare i segreti dell’universo, inesorabilmente destinata a dominare la natura e trascenderla completamente. È la storia della separazione tra il regno dell’uomo e quello della natura, che vede espandersi il primo mentre il secondo viene progressivamente trasformato in risorse, beni, proprietà, e infine in denaro.

    Il denaro è un sistema di convenzioni sociali, significati e simboli che si sviluppa nel tempo. In altre parole, è anch’esso una storia, che ha una sua esistenza nella realtà sociale accanto a cose come le leggi, le nazioni, le istituzioni, il tempo scandito dal calendario e dall’orologio, la religione, la scienza. Le storie hanno un potere creativo straordinario: ci servono a coordinare le attività umane, focalizzare l’attenzione e le intenzioni, definire ruoli, individuare cosa è importante e persino cosa è reale. Le storie danno alla vita un senso e uno scopo, dunque motivano l’azione. Ebbene, il denaro è un elemento chiave nella storia della separazione che definisce la nostra civiltà.

    La prima parte di questo libro fa luce sul sistema economico che è sorto sulle fondamenta della storia della separazione. Anonimato, spersonalizzazione, polarizzazione della ricchezza, crescita infinita, dissesto ecologico, disordine sociale e crisi irrimediabili, tutto questo è così profondamente integrato nel nostro sistema economico che potrà essere risanato solo modificando la storia della separazione che ci definisce. Il mio auspicio è che, se identifichiamo i tratti essenziali dell’economia della separazione, sapremo poi concepire un’economia della riunione, che restituisca completezza alle nostre frammentate comunità, relazioni, culture, ecosistemi, insomma al nostro frammentato pianeta.

    CAPITOLO 1

    Nel mondo del dono

    Perfino dopo tutto questo tempo

    il sole non dice mai alla terra

    «Tu mi Devi».

    Guarda cosa succede

    con un amore simile:

    illumina tutto il cielo.

    Daniel Ladinski - Hafiz

    In principio era il dono.

    Alla nascita siamo inermi, impotenti, creature piene di bisogni e con ben poche risorse da offrire, eppure veniamo nutriti, protetti, vestiti, tenuti in braccio e confortati, senza aver fatto nulla per meritarlo e senza dover dare niente in cambio. Questa esperienza, comune a chiunque abbia già passato l’infanzia, modella alcune delle nostre più profonde intuizioni spirituali. La vita ci viene donata, quindi il nostro stato naturale è la gratitudine: questa è la verità della nostra esistenza.

    Anche se la vostra infanzia è stata orribile, se ora state leggendo queste righe significa che avete ricevuto a sufficienza per sostentarvi almeno fino all’età adulta. Per i primi anni di vita non potevate guadagnare né produrre niente: tutto era un dono. Provate a immaginare di uscire di casa proprio adesso e ritrovarvi catapultati o catapultate in un mondo alieno, dove siete completamente impotenti, incapaci di procurarvi il cibo o di vestirvi, di muovere intenzionalmente gli arti o di distinguere dove termina il vostro corpo e inizia il mondo. Dopodiché arrivano creature gigantesche che vi prendono in braccio e vi nutrono, si prendono cura di voi, vi amano. Non vi sentireste grati?

    In particolari momenti di lucidità, magari dopo aver rischiato di morire, o quando ci troviamo ad accompagnare alla morte una persona cara, sappiamo che la vita stessa è un dono. Siamo sopraffatti dalla gratitudine di essere vivi, e ci muoviamo con stupore tra i tesori che la vita ci offre, immeritati eppure liberamente disponibili: la gioia di respirare, la meraviglia del colore e del suono, il piacere di avere acqua da bere per placare la sete, la dolcezza sul volto di una persona amata. Questo senso di ammirazione mista a gratitudine è un chiaro segno della presenza del sacro.

    Proviamo la stessa reverenza e gratitudine quando cogliamo la magnificenza della natura, il miracolo di complessità e di ordine rappresentato da un ecosistema, un organismo, una cellula. Sono di una perfezione impressionante, che va ben oltre la capacità della nostra mente di concepire, creare o anche solo capire molto più che una loro minuscola parte. Eppure esistono, senza che nessuno di noi li abbia mai dovuti progettare: un mondo intero che ci circonda e ci sostiene. Non dobbiamo capire esattamente come un seme germoglia e cresce, non sta a noi far sì che accada. Tutt’oggi il funzionamento di una cellula, un organismo o un ecosistema resta in gran parte un mistero. Continuiamo a ricevere i frutti della natura senza bisogno di progettarli, né di capire il loro intimo funzionamento. Riuscite a immaginare la meraviglia, la gratitudine dei nostri primi antenati, nel contemplare le ricchezze immeritate che il mondo dispensava loro così liberamente?

    Non c’è da stupirsi se i saggi delle antiche religioni dicevano che Dio creò il mondo e lo donò a noi. La prima parte dell’enunciato è un’espressione di umiltà, la seconda di gratitudine. Purtroppo, teologi di epoche successive stravolsero questa intuizione, lasciando intendere che Dio ci ha dato il mondo per sfruttarlo, controllarlo, dominarlo. Una simile interpretazione è contraria allo spirito dell’intuizione originale: l’umiltà ci suggerisce che questo dono è al di là della nostra capacità di controllo, la gratitudine insegna che possiamo onorare o disonorare un donatore attraverso l’uso che facciamo del suo dono.

    Anche la cosmologia moderna conferma il riconoscimento mitologico dell’universo come dono. Il Big Bang non è forse qualcosa –o più precisamente, tutto – in cambio di niente?¹ Questa impressione si rafforza se esaminiamo da vicino le varie costanti della fisica (la velocità della luce, la massa degli elettroni, la relativa intensità delle quattro forze fondamentali, eccetera), ognuna delle quali presenta inesplicabilmente il valore esatto necessario per far sì che l’universo contenga materia, stelle e vita. È come se l’intero universo fosse stato costruito per noi, perché potessimo esistere.

    In principio era il dono: alle origini archetipiche del mondo, all’inizio della nostra vita e in quella che è stata l’infanzia della specie umana. La gratitudine quindi è qualcosa di naturale per noi, così atavica, così fondamentale che risulta davvero difficile definirla. Forse è la sensazione di aver ricevuto un dono, e il desiderio di donare a propria volta. Stando così le cose, dovremmo aspettarci che i popoli pre-moderni, connessi con questa gratitudine ancestrale, la esprimessero nelle loro relazioni sociali ed economiche: e infatti lo facevano, e lo fanno tutt’oggi. Quasi tutte le ricostruzioni della storia del denaro cominciano con il baratto di epoca preistorica, ma in realtà il baratto è relativamente raro tra i cacciatori-raccoglitori: la principale modalità di scambio economico è sempre stata il dono.

    Per quanto ancestrali, la gratitudine, e la generosità che ne scaturisce, coesistono con altri aspetti della natura umana decisamente meno attraenti. Sebbene io creda nella fondamentale divinità degli esseri umani, al tempo stesso riconosco che abbiamo intrapreso un lungo viaggio di separazione da quella divinità, arrivando a creare un mondo in cui i più spietati sociopatici conquistano ricchezza e potere. Questo libro non vuole fingere che quelle persone non esistano, o che tendenze simili non siano presenti in ognuno. Piuttosto, si prefigge di risvegliare lo spirito del dono, latente dentro di noi, e di erigere istituzioni che lo incarnino, lo incoraggino. La natura umana non esiste come entità isolata, emerge solo in risposta al contesto in cui è calata: se l’attuale sistema economico favorisce l’egoismo e l’avidità, che aspetto avrebbe un sistema economico che invece, come alcune culture lontane, sollecitasse la generosità?

    Per prima cosa vediamo di capire meglio le dinamiche del dono. Pocanzi ho parlato di scambio, ma questo termine non offre una buona descrizione di quella che è in genere una comunità del dono. Circolazione è una parola migliore. Anche noi oggi ci scambiamo spesso dei doni, ma lo scambio di doni è già un primo passo verso il baratto. Nelle comunità antiche, il dono era regolato da un’elaborata etichetta, ravvisabile ancora oggi presso società che hanno mantenuto dei legami con il loro passato. Di solito le reti del dono sono strettamente collegate a quelle della parentela, e la legge consuetudinaria stabilisce chi dona a chi: una persona sarà quindi tenuta a offrire doni ad alcune categorie di parenti, mentre da altre ne riceverà, e con altre ancora i doni si muoveranno in entrambe le direzioni.

    Sebbene i doni possano essere reciproci, altrettanto spesso essi compiono un movimento circolare: io dono a te, tu doni a qualcun altro… e infine qualcuno dona di nuovo a me. Un esempio famoso è la tradizione del kula alle isole Trobriand, nel Pacifico occidentale. Qui due categorie di oggetti preziosi vengono fatte circolare da un’isola all’altra: collane di conchiglie in una direzione, braccialetti nell’altra. Il kula, che letteralmente significa cerchio, fu descritto per la prima volta in dettaglio dall’antropologo Bronislaw Malinowski, ed è il fulcro di un vasto sistema che include doni e altre transazioni economiche. Marcel Mauss lo descrive così: «Il sistema dello scambio dei doni investe tutta la vita economica, tribale e morale dei Trobriandesi. Essa ne è impregnata, come dice assai bene Malinowski; è come un perpetuo dare e prendere; è come attraversata da una corrente, ininterrotta e rivolta in ogni direzione, di doni offerti, ricevuti, ricambiati (…)».²

    Se il momento culminante del sistema kula è uno scambio altamente ritualizzato di beni cerimoniali, i bracciali e le collane, che coinvolge soprattutto i capi, la rete di doni che lo circonda può includere ogni categoria di beni di uso pratico, come cibo, imbarcazioni, manodopera e via dicendo. Il baratto puro è inusuale secondo Mauss, il quale aggiunge: «In generale, ciò che si riceve e di cui si è così ottenuto il possesso, non importa in che modo, non viene conservato per sé, salvo che non sia possibile farne a meno».³ In altre parole, i doni passano di mano in mano continuamente, fermandosi solo quando incontrano una necessità immediata, reale. Ecco come questo principio regolatore del dono viene poeticamente descritto da Lewis Hyde: «Il dono si muove verso lo spazio vuoto. Muovendosi all’interno del circuito, ritorna a colui che è rimasto più a lungo a mani vuote; e se in qualche luogo appare qualcuno il cui bisogno è maggiore, esso lascia il canale abituale per muoversi verso di lui. La nostra generosità può lasciarci vuoti, ma allora il nostro vuoto richiama gentilmente il tutto finché l’oggetto in movimento torna a riempirci. La natura sociale aborre il vuoto».⁴

    Se oggi distinguiamo chiaramente un dono da una transazione commerciale, in passato tale distinzione era tutt’altro che netta. Alcune culture, come quelle Toaripi e Namau in Nuova Guinea,⁵ possiedono una sola parola per designare l’acquisto, la vendita, l’atto di prestare e di prendere in prestito, mentre l’antico vocabolo mesopotamico šám significava sia comprare che vendere.⁶ Tale ambiguità si ritrova in molte lingue moderne: il cinese, il tedesco, il danese, il norvegese, l’olandese, l’estone, il bulgaro, il serbo, il giapponese e molti altri idiomi non hanno che un unico termine per il prestito dato e ricevuto, e questo è forse un residuo di un’epoca antica, in cui le due azioni non erano distinte.⁷ Qualcosa di simile avviene nell’inglese vernacolare, dove la parola borrow, prendere in prestito, è talvolta usata al posto di lend, prestare: I borrowed him twenty dollars, cioè gli ho prestato venti dollari. Com’è possibile? Come può una stessa parola applicarsi a due operazioni opposte?

    La soluzione all’enigma risiede nella dinamica del dono. Con la rara eccezione, forse puramente speculativa, di quelli che Jacques Derrida definisce «doni gratuiti», il dono è sempre accompagnato da una qualche contropartita, o altrimenti da un obbligo sociale, morale (o da entrambi). A differenza di una moderna transazione monetaria, che si conclude senza lasciare alcun obbligo in sospeso, il dono è una transazione aperta, crea un legame durevole tra i partecipanti. O altrimenti detto, il dono partecipa del donatore: quando offriamo un dono stiamo donando una parte di noi, esattamente all’opposto di una moderna compravendita, in cui i beni venduti sono una mera proprietà, ben separata da chi la vende. È una differenza che possiamo percepire tutti. Ognuno di voi possiede probabilmente un oggetto caro che ha ricevuto in dono: magari potreste comprarne un altro oggettivamente identico, eppure quello è unico e speciale in ragione della persona che ve l’ha regalato. Fu così che i popoli antichi conclusero che il dono ha una qualità magica, uno spirito, che circola insieme a lui.

    Le prime monete furono oggetti inutili, come conchiglie di ciprea, perline, collane e via dicendo. Offrire cose inutili in cambio di qualcosa dal valore pratico è di fatto un modo per promuovere un dono: qualcosa in cambio di niente, detto in modo semplice. Queste prime monete lo trasformano in qualcosa in cambio di qualcosa, ma non ne cancellano la natura di dono: esse hanno solamente dato una forma fisica a quella sensazione di dover contraccambiare, sono segni di gratitudine. Da questa prospettiva è facile capire l’identità tra comprare e vendere, prestare e prendere in prestito: non sono affatto operazioni opposte. Tutti i doni ritornano al donatore sotto altra forma, l’acquirente e il venditore sono uguali.

    C’è oggi nelle transazioni commerciali un’asimmetria che identifica il compratore con colui che dà i soldi e riceve dei beni, e il venditore con colui che offre i beni e riceve dei soldi. Ma potremmo ugualmente dire che il compratore vende soldi in cambio di beni, e il venditore compra i soldi con i suoi beni. In effetti, le evidenze linguistiche e antropologiche indicano che tale asimmetria è un’apparizione recente, molto più recente del denaro. E allora, come si è creata? Cosa è successo al denaro, da esserne così trasformato? Il denaro differisce da ogni altra merce presente sul pianeta e, come vedremo, questa differenza gioca un ruolo cruciale nel renderlo profano.

    Il dono d’altro canto ci appare intuitivamente sacro, tant’è che anche oggi tendiamo a trasformare gli scambi di doni in occasioni cerimoniali. Come abbiamo visto nell’introduzione, i doni possiedono le qualità distintive del sacro. Primo, l’unicità: a differenza degli odierni prodotti standard, acquistati in cambio di denaro all’interno di transazioni chiuse e alienati dal loro processo produttivo, i doni sono unici nella misura in cui racchiudono in sé una parte del donatore. Secondo, la completezza, l’interdipendenza: i doni espandono il cerchio del sé fino a includere l’intera comunità. Mentre oggi il denaro risponde al principio per cui se io ho di più tu avrai di meno, in un’economia del dono il mio guadagno è anche il tuo, perché chi possiede di più dona a chi ha bisogno. I doni consolidano l’intuizione mistica di essere parte di qualcosa che è più grande di noi, ma è anche tutt’uno con noi. A cambiare sono gli assiomi dell’interesse individuale, razionale, perché il sé si è allargato fino a includere una parte dell’altro.

    La storia convenzionale del denaro, quella che si trova nei testi di economia, assume il baratto come punto di partenza e ritrae, fin dagli albori, individui in competizione tra loro, ognuno intento a massimizzare razionalmente i propri interessi. Questa descrizione idealizzata non è supportata da alcuna evidenza antropologica. Il baratto, secondo Mauss, era raro in Polinesia e in Melanesia, e sconosciuto nella regione nordoccidentale del continente americano. Lo studioso di antropologia economica George Dalton concorda decisamente: «Il baratto, nel suo senso ristretto di scambio senza passaggio di denaro, non è mai stato un modello o un tipo di transazione quantitativamente importante o dominante in nessuno dei sistemi economici passati o presenti di cui abbiamo informazione».⁸ Gli unici casi di baratto, prosegue Dalton, riguardavano transazioni trascurabili, infrequenti, oppure circostanze di emergenza, proprio come avviene oggi. Al di là di queste eccezioni, gli scambi senza il denaro somigliavano ben poco alle transazioni impersonali e orientate alla massimizzazione degli utili che popolano le fantasie degli economisti: piuttosto, essi «tendevano a richiedere relazioni personali durevoli e talvolta ritualizzate, sancite dal costume locale e caratterizzate dalla reciprocità».⁹ Ora, transazioni come queste non dovrebbero proprio chiamarsi baratto, ma semmai scambio rituale di doni.

    Oggi mettiamo i doni e le compravendite in categorie separate, esclusive ma, sebbene essi siano diversi dal punto di vista economico e psicologico, in epoche remote non esisteva questa dicotomia, come non esisteva l’attuale distinzione tra un rapporto di lavoro e un rapporto personale. Nel raccontare la storia del denaro, gli economisti tendono a proiettare all’indietro questa distinzione moderna, e con essa alcune convinzioni profonde sulla natura umana, il sé e lo scopo della vita: come il fatto che siamo dei distinti, separati, intenti a competere per aggiudicarci risorse limitate e favorire i nostri interessi. Non voglio dire che tali convinzioni siano false, fanno semplicemente parte dell’ideologia che definisce la nostra civiltà, una storia del popolo che sta ormai volgendo al termine. Questo libro è parte di un nuovo racconto collettivo, una nuova storia del popolo, così come la metamorfosi del denaro è parte di un più vasto cambiamento, basato su presupposti molto diversi riguardo al sé, alla vita e al mondo.

    L’economia umana non si discosta mai troppo dalla cosmologia, dalla religione e dalla psicologia. Il dono era sì il fondamento degli antichi sistemi economici, ma lo era anche delle antiche religioni e cosmologie, e così oggi il denaro, con le sue qualità di standardizzazione, astrazione e anonimato, rispecchia molti altri aspetti dell’esperienza umana. Quali nuovi paradigmi scientifici, religiosi o psicologici potrebbero allora svilupparsi, se a circolare fosse un denaro diverso da quello che conosciamo?

    Se i soldi non sono scaturiti dal mondo immaginario degli economisti, fatto di scambi calcolati e interessati, allora come sono nati? In Debito. I primi 5000 anni, l’antropologo David Graeber descrive una duplice origine. La prima è la «valuta sociale»: oggetti cerimoniali preziosi, usati per ricucire relazioni tra esseri umani in particolari occasioni (un matrimonio, un funerale, il risarcimento di un’offesa di sangue, o altre funzioni sociali). Questo tipo di denaro non era usato per comprare o vendere cose e precedette la divisione del lavoro, che invece per potersi realizzare ha bisogno di soldi come i nostri.

    La seconda radice del denaro, nonché la prima moneta usata nei commerci, aveva la forma di un credito: erano i conti delle transazioni e dei prestiti, espressi in una comune unità di conto e periodicamente saldati con la consegna di merci di vario tipo. La fusione di questi due tipi di denaro portò alla servitù per debiti (peonaggio), alla schiavitù, al peggioramento della condizione femminile, e ad altre ingiustizie che inevitabilmente si verificano quando le relazioni umane sono mediate dalla stessa valuta delle relazioni commerciali. Se non saldi i tuoi debiti puoi vederti confiscare non solo le proprietà, ma i figli o la tua stessa persona.

    Graeber osserva che dietro all’uomo col registro dei conti ce n’è sempre un altro con la pistola. I rapporti di debito sono sempre stati rapporti di potere, e i soldi sono sempre stati –e rimangono tutt’oggi – legati al debito, dunque alla violenza.

    Eppure, il denaro sarebbe in sé un concetto bellissimo. Lasciate che adotti per un attimo un approccio naif per rivelare quest’anima, questa natura spirituale (non storica) del denaro. Io possiedo qualcosa di cui tu hai bisogno, e desidero donartelo. Tu provi gratitudine per il mio gesto, e vuoi darmi qualcosa in cambio, ma non hai nulla di cui io abbia immediatamente bisogno. Così, mi offri un segno della tua gratitudine: qualcosa di inutile ma grazioso, come una collana di perline colorate o un pezzetto d’argento. L’oggetto simbolico veicola un messaggio: ho risposto ai bisogni di altri esseri umani e questo è il segno della loro gratitudine. In seguito, quando riceverò a mia volta un dono da qualcuno, gli consegnerò quell’oggetto simbolico. In questo modo i doni possono affrancare grandi distanze sociali, e ognuno può ricevere qualcosa da persone a cui non ha niente da dare, senza rinunciare a esprimere concretamente la sua gratitudine.

    In una famiglia, un clan, o una banda di cacciatori raccoglitori, non servono i soldi per dar vita a un’economia del dono. Non servono nemmeno al livello immediatamente successivo di organizzazione sociale, come il villaggio o la tribù di poche centinaia di persone. In questo caso, se non mi occorre niente da te, potrai esprimere gratitudine dandomi qualcosa di cui avrò bisogno in futuro, oppure donando ad altri, che doneranno ad altri ancora, che infine doneranno a me: è il cerchio del dono, la base della comunità. In una tribù o in un villaggio, la scala della società è sufficientemente piccola perché chi mi offre un dono sia a conoscenza dei doni che io faccio agli altri. Non è questo il caso in una società di massa come la nostra. Se io dono generosamente a te, non verrà certo a saperlo il contadino che ha coltivato il mio zenzero alle Hawaii, o l’ingegnere che in Giappone ha progettato lo schermo del mio cellulare. Così, non potendo essere personalmente informati di tutti i doni che circolano, usiamo i soldi, simboli di gratitudine, e in questo modo la testimonianza sociale dei doni diventa anonima.

    Il denaro è necessario se dobbiamo estendere la sfera dei nostri doni al di là delle persone che conosciamo personalmente, come avviene quando la divisione del lavoro e un’economia su vasta scala oltrepassano i confini della tribù o del villaggio. Non a caso, esso fece la sua comparsa tra le prime civiltà agricole che si svilupparono oltre la dimensione del villaggio neolitico: in Mesopotamia, Egitto, Cina e India. Le tradizionali reti del dono, distribuite e diffuse, lasciarono il posto a sistemi di redistribuzione centralizzati, il cui fulcro era il tempio e, in un secondo momento, il palazzo reale. È possibile che questi sistemi si siano evoluti a partire da tradizioni simili al potlatch¹⁰, in cui i doni fluivano verso i capi tribù e altri leader, per poi compiere il movimento inverso, dai capi verso il gruppo parentale o la tribù da cui provenivano. Nati come nodi centralizzati di un flusso di doni su larga scala, essi si discostarono rapidamente dalla mentalità del dono quando i contributi divennero obbligatori e quantificati, e l’esborso evidentemente ineguale. Già gli antichi documenti sumeri parlano di polarizzazione economica, di persone abbienti e nullatenenti, di salari da fame, a malapena sufficienti a sopravvivere.¹¹ Sebbene il movimento dei beni fosse regolato da direttive centralizzate e non dalle leggi del mercato,¹² i primi imperi agricoli utilizzavano qualcosa che assomiglia a una rudimentale moneta: prodotti agricoli e oggetti metallici in quantità standard, che servivano come mezzi di scambio, unità di conto e depositi di valore. Già quattromila anni fa, quindi, il denaro non serviva a creare maggiore abbondanza per tutti, promuovendo l’incontro tra doni e bisogni come nelle mie ingenue aspettative.

    Eppure, facilitando il commercio, stimolando una produzione efficiente e permettendo di accumulare capitale per intraprendere progetti su larga scala, i soldi dovrebbero arricchire la vita: dovrebbero regalarci benessere, tempo per lo svago, libertà dall’ansia e un’equa distribuzione della ricchezza. La teoria economica classica predice appunto tutti questi risultati. Il fatto che l’esito sia invece diametralmente opposto – ansia, privazioni, polarizzazione della ricchezza – ci pone di fronte a un paradosso.

    Se vogliamo vivere in un mondo in cui esistono la tecnologia, il cinema e le orchestre sinfoniche, le telecomunicazioni e l’architettura d’avanguardia, le città cosmopolite e una letteratura mondiale, allora abbiamo bisogno dei soldi, o di qualcosa di analogo, per coordinare il lavoro umano su vasta scala, un’operazione indispensabile per creare tutto ciò. Ho scritto dunque questo libro proprio per delineare un sistema che restituisca al denaro la sacralità tipica del dono. Uso il verbo restituire perché fin dall’antichità il denaro ha avuto connotazioni magiche o sacre. In origine, era nei templi che veniva stoccato e poi redistribuito il surplus delle produzioni agricole: il centro della vita religiosa era anche il centro della vita economica. C’è chi sostiene che il primo denaro simbolico (contrapposto al denaro-merce) fu emesso precisamente dai templi e poteva essere convertito in rapporti sessuali sacri con le prostitute del tempio.¹³ Quello che è certo, in ogni caso, è che i templi hanno avuto un ruolo importante nell’emettere le prime monete, che spesso recavano immagini di animali sacri e divinità. Qualcosa di analogo avviene ancora oggi, se pensiamo alle banconote e alle monete con ritratti di presidenti deificati.

    Forse un giorno non avremo più bisogno dei soldi per far girare un’economia del dono su scala planetaria, forse il denaro che descrivo in questo libro è uno strumento transitorio. Non sono un primitivista che invoca l’abbandono della civiltà, della tecnologia e della cultura, proprio i doni che ci rendono umani. Quello che auspico è piuttosto il ritorno dell’umanità a una condizione sacra, a uno stato di completezza e armonia con la natura, come ai tempi dei cacciatori-raccoglitori, ma a un più alto livello di organizzazione. Auspico non l’abdicazione, bensì la piena realizzazione delle nostre abilità manuali e intellettuali, i doni che ci rendono umani, appunto.

    Vedete quanto è naturale chiamare doni le nostre qualità prettamente umane? Coerentemente con i principi universali del dono, anche i doni del genere umano partecipano del loro Donatore: in altre parole, sono doni divini. La mitologia avvalora questa intuizione con Prometeo che donò il fuoco, Apollo la musica, o il sovrano della mitologia cinese Shen Nong che fece dono all’uomo dell’agricoltura. Nella Bibbia ci viene donato non solo il mondo, ma anche il soffio della vita e la capacità di creare, dato che siamo fatti a immagine del Creatore stesso.

    Anche a livello personale sentiamo che i nostri doni individuali hanno uno scopo e avvertiamo un desiderio irrefrenabile di svilupparli, di offrirne i frutti al mondo. Tutti abbiamo fatto esperienza della gioia di dare, della generosità disinteressata degli sconosciuti. Provate a chiedere indicazioni stradali in un centro urbano e la maggior parte delle persone si fermerà volentieri ad aiutarvi. Dare indicazioni a uno sconosciuto non risponde all’interesse personale, razionale di nessuno: è una semplice espressione della nostra generosità innata.

    In virtù di tutto questo è davvero ironico che il denaro, nato come mezzo per collegare doni e bisogni, come corollario di un’economia sacra, quella del dono, sia adesso esattamente ciò che inibisce la nostra propensione a dare, costringendoci a lavori alienanti per far fronte alla necessità economica, e bloccando sul nascere i nostri slanci di generosità con il ritornello: Non posso permettermelo. L’uomo moderno vive in un’ansia quasi onnipresente, dovuta alla scarsità di quel denaro da cui dipende l’esistenza, come testimonia l’espressione il costo della vita. Lo sviluppo e la piena espressione dei nostri doni, ovvero lo scopo del nostro esistere, sono ipotecati per far soldi, per guadagnarsi da vivere, per sopravvivere. E tuttavia nessuno, per quanto ricco, benestante, privo di preoccupazioni economiche, può sentirsi realizzato nella vita se i suoi doni rimangono latenti. Perfino il lavoro più pagato risulta presto avvilente se non ci fa esprimere i nostri doni, e pensiamo: Non sono venuto al mondo per fare questo.

    Anche quando un lavoro coinvolge effettivamente i nostri doni, se lo scopo è qualcosa in cui non crediamo, sentiremo nascere lo stesso alienante sentimento di inutilità, la sensazione di non vivere la nostra vita, ma solo la vita per cui siamo pagati. Stimolante e interessante non sono requisiti sufficienti, perché i nostri doni sono sacri e dunque votati a uno scopo altrettanto sacro.

    Che noi siamo qui sulla terra per fare qualcosa è essenzialmente un concetto religioso, poiché la biologia convenzionale insegna che ci siamo evoluti per sopravvivere, e che ogni sforzo verso qualcosa di diverso dalla sopravvivenza o dalla riproduzione è contrario alla nostra programmazione genetica. Tuttavia, si può ragionevolmente argomentare che l’idea di una biosfera popolata da una miriade di esseri distinti, separati e in competizione tra loro –i cosiddetti organismi o geni egoisti –è più una proiezione della nostra cultura contemporanea che il risultato di un’accurata comprensione della natura.¹⁴ Esistono altri modi di concepire il mondo naturale che, senza negare i suoi evidenti aspetti di competizione, enfatizzano la cooperazione, la simbiosi, la fusione di diversi organismi in entità più vaste. Questa nuova visione è in realtà piuttosto antica, poiché rievoca le interpretazioni indigene della natura come rete di doni.

    Ogni organismo, ogni specie offre un contributo essenziale alla totalità della vita sulla terra, e contrariamente alle aspettative della biologia evolutiva tradizionale, questo contributo non produce necessariamente un beneficio diretto per l’organismo stesso. I batteri azotofissatori non traggono direttamente vantaggio dall’azione che svolgono, salvo che l’azoto da essi rilasciato nel terreno fa crescere piante che producono radici su cui a loro volta crescono funghi, i quali infine forniscono nutrimento ai batteri. Le specie pioniere spianano la strada alle specie chiave, che offrono micro nicchie ecologiche ad altre specie, che sostentano altre specie ancora, in una rete di doni che infine, seguendo un andamento circolare, torna a dare beneficio alle specie pioniere. Gli alberi assorbono acqua per irrorare altre piante e le alghe producono ossigeno perché gli animali possano respirare. Rimuovete una creatura qualsiasi e la salute di tutte le altre si farà più precaria.

    Forse il mio ragionamento causale vi potrà sembrare naif. Magari pensate che sia solo per una fortunata coincidenza che le cose funzionano così bene: agli alberi non interessa innaffiare le piante intorno a loro, fanno quel che fanno per se stessi, per massimizzare le loro chance di sopravvivere e riprodursi, e il fatto che nutrano altri esseri è un involontario effetto collaterale. Lo stesso vale per le alghe, per i batteri azotofissatori e per i batteri nello stomaco dei ruminanti, che permettono loro di digerire la cellulosa. In questo mondo, direte voi, ognuno fa per sé, la natura è una competizione spietata e un’economia che la rispecchia è anch’essa naturale.

    Io non credo che sia naturale. È un’aberrazione, una fase necessaria ma anomala che ha raggiunto il suo limite e ora sta lasciando spazio a una fase nuova. In natura, la crescita impetuosa e la competizione accanita sono tratti tipici degli ecosistemi immaturi, a cui fanno seguito complessi meccanismi di interdipendenza, simbiosi, cooperazione e il ciclico rinnovamento delle risorse. Il prossimo stadio dell’economia umana rifletterà ciò che stiamo iniziando a capire della natura: risveglierà i doni di ognuno di noi, darà enfasi alla cooperazione più che alla competizione, incoraggerà la circolazione a scapito dell’accumulo, e sarà ciclica, non lineare. Il denaro non scomparirà in tempi brevi, ma giocherà un ruolo minore, anche se assumerà su di sé molte proprietà del dono. L’economia si restringerà e le nostre vite si espanderanno.

    Il denaro così come lo conosciamo è ostile a un’economia che manifesti lo spirito del dono, a un’economia sacra. Per capire che tipo di denaro potrebbe fungere da valuta sacra, sarà utile identificare esattamente cosa fa del denaro quel catalizzatore di avidità, cattiveria, scarsità e devastazione ambientale che esso è attualmente.

    Proprio come la scienza proietta spesso la cultura sulla natura, così l’economia tende a prendere come assiomatiche certe condizioni culturalmente determinate. Vivendo in una cultura della scarsità, assumiamo la scarsità anche come base dell’economia. Com’è avvenuto per la biologia, abbiamo ravvisato nel mondo una competizione tra separati per accaparrarsi risorse limitate. Il nostro sistema monetario, come vedremo, incarna questa convinzione a un livello profondo, strutturale. Ma si tratta di una convinzione fondata? Viviamo forse in un mondo, un universo, di sostanziale scarsità? Se non è questo il caso, perché ci appare così? E se la vera natura dell’universo è l’abbondanza e il dono, allora com’è che il denaro è diventato così innaturale?


    1. I lettori di The ascent of humanity [precedente opera dell’autore, N.d.T.] sanno che preferisco cosmologie alternative al Big Bang, come l’universo dinamico in stato stazionario ipotizzato da Halton Arp, in cui la materia continuamente nasce, invecchia e muore. Ma anche qui essa appare spontaneamente dal nulla, come fosse un dono.

    2. Mauss M., Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino 2002 [ed. or. 1923], p 48.

    3. Ivi, p 49.

    4. Hyde L., Il dono. Immaginazione e vita erotica della proprietà, Bollati Boringhieri, Torino 2005 [ed. or. 1979], p 44.

    5. Mauss M., op. cit., p 53.

    6. Seaford R., Money and the early greek mind, Cambridge University Press, Cambridge 2004, p 323.

    7. I termini cinesi per comprare e vendere hanno una pronuncia quasi identica e ideogrammi simili. Il carattere che indica l’atto di comprare deriva dalla rappresentazione di una conchiglia, la ciprea, anticamente utilizzata come moneta, mentre quello che indica l’atto di vendere si è sviluppato successivamente, il che lascia pensare a una iniziale indistinzione.

    8. Dalton G., «Barter», in Journal of Economic Issues 16, n. 1, 1982, p 182.

    9. Seaford R., op. cit., p 292.

    10. Il potlatch è una pratica di dono rituale ostentatorio, osservata dagli antropologi all’inizio del Novecento presso i popoli della costa nordoccidentale del continente americano [N.d.T.].

    11. Nemat-Nejat K. R., Daily life in ancient Mesopotamia, Greenwood Press, Westport CT 1988, p 263.

    12. Seaford R., op. cit., p 123. Seaford adduce convincenti evidenze per questa tesi: antichi documenti in forma di lista, rappresentazioni artistiche di persone che recano offerte, ecc.

    13. Bernard Lietaer avanza questa ipotesi in The future of money, a proposito di uno shekel di bronzo che sarebbe a suo avviso la prima moneta conosciuta, risalente al 3000 a.C. Nelle mie ricerche non ne ho tuttavia trovato altra menzione. A quanto mi risulta, le prime monete apparvero in Lidia e in Cina all’incirca nella stessa epoca, il settimo secolo a.C.

    14. Ho sintetizzato questa tesi nel capitolo 6 di The ascent of humanity, rifacendomi al lavoro di Lynn Margulis, Bruce Lipton, Fred Hoyle, Elisabet Sahtouris e altri.

    CAPITOLO 2

    L’illusione della scarsità

    «Con infaticabile abbondanza il suolo d’Inghilterra fiorisce e prospera, ondeggiando di raccolti dorati, fittamente disseminato di botteghe, di distretti industriali, con quindici milioni di lavoratori ritenuti i più forti, i più scaltri e volenterosi che la Terra abbia mai avuto. Questi uomini sono qui tra noi, e qui è la loro opera, il frutto del loro lavoro, copioso e prorompente nelle mani di ognuno di noi. Ma guardate: qualche malefico decreto è giunto come per incanto, e dice: Non toccatelo! Voi lavoratori, voi mastri operai, mastri fannulloni; nessuno di voi può toccarlo, nessun uomo tra di voi dovrà avere il privilegio di toccarlo; questo è un frutto stregato!»

    Thomas Carlyle, Passato e presente

    Si dice che il denaro, o quantomeno l’amore per il denaro, sia la radice di ogni male. Ma perché dovrebbe? Dopotutto, il suo scopo è essenzialmente quello di facilitare lo scambio, di connettere i doni e i bisogni degli esseri umani. Quale potere, quale mostruosa perversione l’ha trasformato nel suo opposto: un agente di scarsità?

    Perché in effetti viviamo in un mondo di sostanziale abbondanza, un mondo in cui vanno sprecate enormi quantità di cibo, energia e materie prime. Mezzo mondo muore di fame mentre l’altra metà spreca quanto potrebbe bastare a nutrire la prima. Nel Terzo Mondo e nei nostri quartieri poveri le persone non hanno cibo né casa, e non hanno mezzi per supplire a queste e altre necessità essenziali. Nel frattempo noi investiamo immense risorse in guerre, cianfrusaglie di plastica e innumerevoli altri prodotti che non servono alla felicità umana. È ovvio che la povertà non è dovuta a una mancanza di capacità produttiva. Non è neanche dovuta a una debole propensione ad aiutare gli altri: molte persone sarebbero entusiaste di dar da mangiare ai poveri, risanare la natura e svolgere altri lavori ricchi di significato, ma non possono, perché sono attività che non pagano. Il denaro fallisce completamente nel connettere doni e bisogni. Come mai?

    Per anni ho pensato, seguendo l’opinione comune, che la risposta fosse l’avidità. Perché le fabbriche che sfruttano la manodopera riducono i salari all’osso? Per avidità. Perché la gente compra SUV che consumano così tanto? Sempre per avidità. Cosa spinge le case farmaceutiche a sopprimere la ricerca e vendere farmaci pur sapendo che sono pericolosi? L’avidità. Perché i mercanti di pesce dei tropici bombardano le barriere coralline? Perché le industrie sversano rifiuti tossici nei fiumi? Perché i grandi speculatori saccheggiano i fondi pensione dei lavoratori dipendenti? Avidità, avidità e ancora avidità.

    Col tempo però questa risposta ha iniziato a non andarmi a genio. Tanto per cominciare, fa parte della stessa ideologia della separazione da cui hanno origine i mali della nostra civiltà. È un’ideologia tanto antica quanto la divisione del mondo in due regni separati, nata con l’agricoltura: il domestico e il selvaggio, l’umano e il naturale, il grano e l’erbaccia. Essa afferma che esistono due forze opposte in questo mondo, il bene e il male, e che possiamo creare un mondo migliore eliminando il male. C’è dunque qualcosa di cattivo nel mondo e in noi, che dobbiamo estirpare per rendere il mondo un posto sicuro, adatto alla bontà.

    La guerra contro il male permea ogni istituzione della nostra società. In agricoltura si manifesta come il desiderio di sterminare i lupi, annientare le erbe infestanti col glifosato, uccidere tutti i parassiti. In medicina è la guerra contro i germi, una battaglia incessante contro un mondo ostile. Per la religione è la lotta contro il peccato, l’ego, la mancanza di fede, il dubbio o le loro proiezioni esteriori: il diavolo, l’infedele. È la mentalità del purificare e del purgare, dell’automiglioramento e della conquista, dell’elevarsi al di sopra della natura e trascendere il desiderio, del sacrificio di sé per essere buoni. Soprattutto, è la mentalità del controllo.

    Il suo messaggio è che una volta ottenuta la vittoria definitiva sul male, avremo accesso al paradiso. Se eliminiamo tutti i terroristi o creiamo una barriera per loro impenetrabile, saremo salvi. Se sviluppiamo un antibiotico imbattibile e arriviamo a regolare artificialmente i processi corporei, avremo la salute perfetta. Se rendiamo impossibile il crimine e facciamo una legge per governare ogni cosa, avremo realizzato la società perfetta. Quando avrete vinto la pigrizia, i comportamenti compulsivi e le dipendenze, la vostra vita sarà perfetta. Fino ad allora, dovete solo sforzarvi di più.

    Analogamente, si dà per scontato che anche nell’economia quotidiana il problema sia l’ingordigia, all’esterno (tutta quella gente avida) e all’interno (le nostre avide tendenze). Ci piace pensare che non siamo poi così avidi; magari abbiamo impulsi voraci, ma li teniamo sotto controllo, a differenza di certa gente, che non li sa contenere. A certa gente manca qualcosa di fondamentale, che voi e io invece abbiamo: un minimo di decenza, di bontà. Questa gente, per farla breve, è cattiva. Se non impara a trattenere i suoi desideri, ad accontentarsi, la dovremo costringere.

    È chiaro che il paradigma dell’avidità straripa di giudizi, sugli altri e su noi stessi. La nostra rabbia moralistica verso gli avidi, il nostro odio, nasconde una paura segreta: quella di essere come loro. È l’ipocrita il più solerte nella persecuzione del male. Esternalizzare il nemico permette di esprimere sentimenti di rabbia irrisolti, in un certo senso è una necessità, perché reprimere quei sentimenti o rivolgerli verso l’interno avrebbe conseguenze terribili. Eppure, a un certo punto della mia vita ho sentito il bisogno di farla finita con l’odio, la guerra contro me stesso, la lotta per essere buono e la pretesa di essere migliore di chiunque altro. Credo che l’umanità si stia collettivamente avvicinando a un momento come questo. In fin dei conti l’avidità è solo una falsa pista, il sintomo di un problema più profondo, non la causa. Prendersela con l’avidità e combatterla intensificando il programma di autocontrollo, significa intensificare la guerra contro il sé, che è solo un’altra forma della guerra contro la natura e contro l’altro, la quale a sua volta è alla base dell’attuale crisi di civiltà.

    La cupidigia ha senso solo in rapporto alla scarsità, ma l’ideologia regnante la assume come vera, tanto da integrarla nella nostra storia del sé. In un universo governato da forze ostili o indifferenti, il sé isolato è sempre a rischio di estinzione, mentre è al sicuro solo nella misura in cui riesce a controllare quelle forze. Catapultati in un universo oggettivo esterno a noi, dobbiamo competere con gli altri per aggiudicarci risorse limitate. Basandosi sulla storia del sé separato, sia la biologia che l’economia hanno dunque iscritto l’avidità tra i loro assiomi fondamentali: in biologia abbiamo i geni che cercano di massimizzare l’interesse riproduttivo, in economia gli attori razionali che vogliono massimizzare l’interesse economico personale. Ma se invece quello della scarsità fosse un falso assunto, una proiezione della nostra ideologia, e non la realtà oggettiva? In tal caso, l’avidità non sarebbe iscritta nella nostra biologia, sarebbe solo un sintomo della scarsità percepita.

    Un segnale del fatto che l’avidità rispecchia una percezione di scarsità più che la sua realtà è dato dal fatto che le persone ricche tendono a essere meno generose di quelle povere. Nella mia esperienza, ho osservato che spesso le persone povere si prestano o si elargiscono reciprocamente piccole somme che, fatte le dovute proporzioni, equivarrebbero per un ricco a metà del suo patrimonio netto. Numerose ricerche confermano questa osservazione. Un’ampia indagine condotta nel 2002 da Independent Sector, organizzazione di ricerca no profit, ha dimostrato che gli americani che guadagnavano meno di 25.000 dollari l’anno davano in beneficenza il 4,2% del loro reddito, contro il 2,7% delle persone con un reddito annuo superiore a 100.000 dollari. Più di recente Paul Piff, psicologo sociale a Irvine, Università della California, ha rilevato che «le persone con un reddito più basso erano più generose, caritatevoli, disposte a dare fiducia e prestare aiuto agli altri di quanto non lo fossero quelle più ricche»¹⁵. Piff osserva che quando ai soggetti della ricerca veniva dato del denaro da spartire in modo anonimo tra se stessi e un partner (che non sarebbe mai venuto a conoscenza della loro identità), la generosità era inversamente proporzionale alla condizione economica del soggetto.¹⁶

    Si può essere tentati di concludere che la gente avara diventa ricca, ma un’interpretazione altrettanto plausibile è che la ricchezza rende la gente avara. Perché? In un contesto di abbondanza l’avidità risulta assurda, diventa sensata solo in un contesto di scarsità. Il ricco percepisce la scarsità laddove non c’è, e si preoccupa del denaro più di chiunque altro. È possibile che sia il denaro stesso a causare la percezione di scarsità? È possibile che il denaro, quasi un sinonimo di sicurezza, ironicamente conduca all’opposto? La risposta a entrambe le domande è sì. A livello individuale, le persone ricche hanno investito molto di più sui loro soldi e sono meno capaci di lasciarli andare (la capacità di lasciare andare riflette del resto un’attitudine di abbondanza). A livello sistemico, come vedremo, la scarsità è connaturata al denaro, una diretta conseguenza del modo in cui esso viene creato e fatto circolare.

    La tesi della scarsità è uno dei due assiomi centrali dell’economia. Il secondo è che le persone cercano naturalmente di massimizzare il loro interesse razionale. Ebbene entrambi sono falsi o, più precisamente, sono veri solo all’interno di un panorama ristretto che noi, le rane in fondo al pozzo, scambiamo per la realtà tutta intera. Come spesso accade, ciò che prendiamo per verità oggettiva è a ben vedere la proiezione sul mondo oggettivo della nostra condizione particolare. Siamo così immersi nella scarsità che crediamo sia questa la natura della realtà, ma in effetti, viviamo in un mondo di abbondanza. L’onnipresente scarsità che sperimentiamo è un artefatto: del nostro sistema monetario, dei nostri politici e delle nostre percezioni.

    Come vedremo, l’attuale sistema monetario, il principio della proprietà e l’economia nel suo insieme riflettono lo stesso fondamentale senso del sé che ci fa percepire la scarsità. È il «sé discreto e separato» di Cartesio: una psiche chiusa come una bolla, alla deriva in un universo indifferente, che si affanna a possedere, controllare, accaparrare quanta più ricchezza possibile ma che, essendosi autoesclusa dalla pienezza del vivere in connessione con gli altri, è condannata all’esperienza di non avere mai abbastanza.

    Affermare che viviamo in un mondo di abbondanza può suscitare una reazione emotiva, su due fronti. Primo, sembra esprimere un’ignoranza da privilegiati, dal momento che una larga fetta di mondo vive in estrema povertà, affamata, senza un tetto e afflitta da privazioni di ogni genere. Aumentare la produzione risolverà questi problemi, giusto? Sbagliato. Produciamo già più di quanto occorra per nutrire, alloggiare e vestire tutti quanti. Non è un problema di sottoproduzione, ma di cattiva distribuzione. In altre parole, la scarsità è reale ma artificiale.

    Una seconda obiezione è che l’armoniosa coesistenza degli esseri umani con il resto dei viventi è impossibile senza una massiccia riduzione della popolazione. I paladini di questa tesi citano il picco del petrolio e l’esaurimento delle risorse, il riscaldamento globale, l’impoverimento dei terreni coltivabili e la nostra impronta ecologica come evidenze che la terra non può sostenere ancora a lungo la civiltà industriale agli attuali livelli di popolazione. È vero che oggi l’attività umana sta pesantemente sovraccaricando il pianeta. I combustibili fossili, le falde acquifere, il terreno fertile, la capacità di assorbire l’inquinamento, gli ecosistemi che assicurano la vitalità della biosfera – tutto ciò si sta deteriorando a un ritmo allarmante. Tutti i provvedimenti sul tavolo sono totalmente insufficienti e tardivi, una goccia nel mare rispetto a quanto sarebbe necessario.

    Per contro, un’enorme percentuale delle attività umane è superflua o deleteria per la nostra felicità. Potremmo vivere molto meglio con molto meno. Consideriamo anzitutto l’industria degli armamenti e le risorse consumate per la guerra: qualcosa come duemila miliardi di dollari l’anno, più un vasto establishment scientifico e l’energia vitale di milioni di giovani, tutto per servire nient’altro che un bisogno creato da noi stessi.

    Consideriamo l’industria degli alloggi negli Stati Uniti, con le ville faraoniche e pacchiane costruite negli ultimi trent’anni che, di nuovo, non soddisfano alcun bisogno reale. In altri paesi un edificio di quelle dimensioni ospiterebbe cinquanta persone. Lì invece i giganteschi saloni restano inutilizzati, perché le persone si sentono a disagio in quelle sproporzioni disumane e vanno a cercare il piccolo rifugio confortevole, o l’angolo della colazione. Le materie prime, l’energia e i costi di manutenzione di tali mostruosità sono risorse sprecate. Forse uno spreco ancora maggiore è provocato dalla disposizione

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