Tanta fatica per nulla: La regola della precarietà
Di Edi Lazzi
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«Lavoretti su lavoretti. Di tutto un po’. Baby sitter, cameriera, pulizie, rappresentante di prodotti. Praticamente tutto in nero» (Loredana, Lazio).
«C’erano delle condizioni precise al colloquio, e io le ho accettate tutte. La cosa principale per me è il punteggio che accumulo con l’insegnamento. Io risulto assunta regolarmente dalla scuola, ma le condizioni sono che io lo stipendio non lo prendo» (Lina, Campania).
Tredici testimonianze, esemplari di un’intera generazione, di giovani intrappolati loro malgrado in questa devastante condizione di precariato di vita e di lavoro. Ma come siamo arrivati a tutto questo? Come abbiamo potuto permetterlo? Edi Lazzi – che da sindacalista questi giovani li ha ascoltati e intervistati – rivolgendosi direttamente a loro analizza le cause, ma soprattutto prova a indicare una via d’uscita. Perché cambiare è possibile, sempre.
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Anteprima del libro
Tanta fatica per nulla - Edi Lazzi
Il libro
«Appena ho compiuto 18 anni, finalmente sono stata assunta con contratto a termine in un’azienda che gestiva le mense scolastiche. Dopo qualche mese sono rimasta incinta e non mi hanno più rinnovato il contratto» (Roberta, Lombardia).
«Lavoretti su lavoretti. Di tutto un po’. Baby sitter, cameriera, pulizie, rappresentante di prodotti. Praticamente tutto in nero» (Loredana, Lazio).
«C’erano delle condizioni precise al colloquio, e io le ho accettate tutte. La cosa principale per me è il punteggio che accumulo con l’insegnamento. Io risulto assunta regolarmente dalla scuola, ma le condizioni sono che io lo stipendio non lo prendo» (Lina, Campania).
Tredici testimonianze, esemplari di un’intera generazione, di giovani intrappolati loro malgrado in questa devastante condizione di precariato di vita e di lavoro. Ma come siamo arrivati a tutto questo? Come abbiamo potuto permetterlo? Edi Lazzi – che da sindacalista questi giovani li ha ascoltati e intervistati – rivolgendosi direttamente a loro analizza le cause, ma soprattutto prova a indicare una via d’uscita. Perché cambiare è possibile, sempre.
L’autore
Edi Lazzi è il segretario generale della Fiom-Cgil di Torino. Come funzionario sindacale è stato prima responsabile di tutto il sito di Mirafiori per poi seguire le maggiori aziende della componentistica auto gestendo le principali vertenze legate al forte ridimensionamento del settore nel torinese. Da segretario generale segue con particolare attenzione i temi legati alla disparità di genere in ambito lavorativo e le problematiche dei giovani precari.
Indice
Prefazione, di Marco Revelli
Introduzione
I. Il lavoro e la Costituzione tradita
II. Generazione precaria. Testimonianze
Lisa (Piemonte)
Roberta (Lombardia)
Alessandra (Veneto)
Giovanni (Liguria)
Loredana (Lazio)
Teresa (Abruzzo)
Lina (Campania)
Carlo (Campania)
Paolo (Calabria)
Fabio (Puglia)
Andrea (Puglia)
Maura (Sardegna)
Vera (Sicilia)
III. Invertire la rotta
IV. Che fare? Un appello finale
Postfazione, di Michele De Palma
Suggerimenti di lettura
Prefazione
di Marco Revelli
Un libro più che opportuno, questo di Edi Lazzi. Anzi, direi, necessario
. Perché non è solo un libro sul lavoro, o sui giovani, o sul precariato (su ognuno di questi temi ci sono ormai biblioteche intere). È, piuttosto, un lavoro – una ricerca – che fonde insieme queste tre radici del nostro disagio presente, a partire dalla parola – dal racconto, dall’esperienza – dei protagonisti, con un approccio dialogico. Sulla base di decine di colloqui, incontri, in qualche caso confessioni
di giovani lavoratrici (soprattutto) e lavoratori che testimoniano con le loro vite vissute una condizione sociale, ma anche esistenziale, al limite
. E restituendocene, per esteso, un selezionato campione.
Testimonianze esemplari
, all’incirca dodici, come il numero dei mesi, o degli apostoli, o dei segni zodiacali, una dozzina, come i protagonisti del celebre film di Aldrich, o l’aggruppamento dei prodotti venduti a poco prezzo come le uova o i fazzoletti: le storie vissute di Lisa, 28 anni, piemontese; Roberta, 25 anni, lombarda; Alessandra, 31 anni, veneta; Giovanni, 29 anni, ligure; Loredana, 23 anni, laziale; Teresa, 42 anni, abruzzese; Lina e Carlo, 31 e 25 anni, campani; Paolo, 45 anni (il più anziano
), calabrese; Fabio e Andrea, 26 anni, pugliesi; Maura, 32 anni, sarda; Vera, di età imprecisata, siciliana. Lette di fila, come le tessere di un mosaico vivente, offrono un quadro preciso della condizione di lavoro oggi, per chi sta nella fascia d’età composta da ventenni e trentenni. Cioè per quella parte del mondo del lavoro che costituisce il nocciolo duro della forza-lavoro nazionale.
Sono storie tutte diverse tra loro, come appunto accade quando il lavoro si individualizza e si frastaglia, perdendo quella dimensione compattamente collettiva che era stata la sua forza nel corso del precedente ciclo fordista. E nello stesso modo tutte uguali per il sottofondo di disagio, di vera e propria angoscia, e di perdita di sé che comunicano. L’autore le ha fatte precedere da un denso capitolo sul nostro profilo costituzionale, improntato a una forte sensibilità lavoristica, e dalla ricostruzione del lungo percorso storico attraverso il quale quel sistema di principi affermati a ridosso della grande vittoria contro i totalitarismi fascisti ottenuta con la partecipazione determinante dei lavoratori, è stato a poco a poco decostruito, neutralizzato ed eroso. E seguite da una terza sezione, più programmatica e proiettata nel presente e nel futuro, con l’indicazione di ciò che si dovrebbe fare per contrastare la deriva attuale. Ma restano loro, le testimonianze vissute, con la loro drammatica carica emotiva e con la loro denuncia di uno stato di cose insostenibile, a costituire il baricentro del libro. Non solo denuncia, ma anche e soprattutto riflessione profonda, sofferta e testimoniata, di come, nel paradigma socio-produttivo dominante, la soggettività del lavoro venga sacrificata. E con essa risulti modificata la Costituzione materiale del Paese, il sistema dei diritti e quello delle responsabilità sociali, il fondamento stesso della democrazia, intesa come la forma di governo fondata sul riconoscimento e sul protagonismo di una effettiva cittadinanza attiva
.
I due elementi che dominano la narrazione sono, in modo pressoché unanime, la solitudine e il disorientamento. La difficoltà non dico a realizzare ma anche solo a concepire l’azione collettiva, da una parte. E dall’altra la frammentazione dell’esistenza in mille frantumi, schegge di lavoro eterogenee ed estranee. La dispersione in un’esistenza precaria e impotente a modificare lo stato di cose esistente, non solo quello della società nel suo complesso, che sarebbe compito titanico, ma anche solo della propria condizione personale, del proprio vissuto. «Sono costretta a vendermi e sono da sola», lamenta Lisa. E aggiunge: «è davvero difficile trovare soluzioni collettive in un mondo che è diventato individuale, dove ognuno pensa a sé stesso, a come riuscire a sopravvivere. Sappiamo che stiamo male, che una vita come quella che conduciamo non è il massimo ma, credimi, siamo ormai abituati così, è da tutti accettato». Ed esprime una verità terribile, una sorta di resa senza condizioni, ciò che oggi condanna drammaticamente il lavoro alla propria marginalità sociale e politica: la sensazione dell’immodificabilità di una condizione di sofferenza. Ha ragione l’autore quando scrive che «senza rendersene pienamente conto vivono come monadi, individualmente insieme
in una società liquida, priva di punti di riferimento», non più nei partiti di massa – che fino agli ultimi decenni del XX secolo avevano svolto non solo un ruolo di rappresentanza ma anche di formazione di punti di vista collettivi –, ma nemmeno nell’organizzazione sindacale. Quel Sindacato che era stato, per tutto il lungo ciclo del capitalismo industriale
, lo strumento principale dell’azione collettiva sul posto di lavoro e nella società civile. E che oggi, nel deserto post-industriale dominato da quello che l’indimenticabile Luciano Gallino aveva chiamato il finanzcapitalismo
, come dice Lazzi, dopo anni e anni di attacchi, «fatica esso stesso a restituire quella idea di insieme, a costruire il flusso di senso delle azioni collettive e la loro capacità di incidere nei processi sociali ed economici». Valga per tutti il racconto di Alessandra, su sé stessa e sui propri coetanei, «tutti chiusi dentro noi stessi, sempre di più», come quel gruppetto di sue amiche che pur condividendo la stessa abitazione («per dividere le spese»), vivono in una totale assenza di socialità, «non mangiano insieme, parlano pochissimo, ognuna si fa i fatti suoi. Ognuno pensa a sé stesso, in una sorta di prigione interiore, isolati da tutto il resto del mondo»…
In un’altra era geologica
, alla metà degli anni Cinquanta, un libro destinato a diventare un classico della sociologia del lavoro, di Georges Friedmann, s’intitolava Le travail en miettes, il lavoro in frantumi
, per descrivere la parcellizzazione spinta delle mansioni nel sistema di produzione taylorista e fordista allora dominante. Oggi dovremmo aggiornare quell’espressione ampliandone lo spettro di significato e parlare, ormai, compiutamente, di vite in frantumi
, nell’epoca in cui il processo di scomposizione e frammentazione si è spostato dalla condizione esterna
dell’organizzazione del lavoro a quella interiore e soggettiva della struttura dell’esistenza e della persona. Sono donne e uomini in frantumi
quelli che prendono la parola in questo libro, costretti a condurre esistenze sempre in movimento e mutamento tra una miriade di lavori parziali e precari, ognuno nell’orizzonte di poche settimane o pochi mesi, eterogenei e incongruenti tra loro (stages, cooperative spesso a-sociali, lavoro interinale, a somministrazione, part-time, servizi di pulizia, di magazzinaggio, call center…). I cosiddetti, famigerati, minijob per dirla alla tedesca, simbolo della gig economy: il modello economico che la Treccani definisce come «basato sul lavoro a chiamata, occasionale e temporaneo, e non sulle prestazioni lavorative stabili e continuative, caratterizzate da maggiori garanzie contrattuali». Una miriade di occupazioni
di breve durata, spesso ricombinate tra loro dal medesimo individuo che, per raggiungere una retribuzione sufficiente, si fa "multi-tasking", alterna nella stessa giornata di lavoro o nella stessa settimana più occupazioni, spesso tra loro eterogenee, tutte drammaticamente al di sotto del titolo di studio e del percorso formativo seguito, quasi sempre deludenti rispetto alle aspettative maturate e frustranti. In generale corrosive dell’identità e della personalità, della stessa autostima, fondamento di ogni vita sociale non minata dalla frustrazione e dal senso interiorizzato di fallimento («Mi sento inadatto, inadeguato. Penso che sono proprio io che non funziono. Mi viene detto che ho un problema di autostima» – Giovanni).
Ritorna in mente, a voler continuare con la rivisitazione delle letture alte, un altro classico della sociologia: penso al testo di Richard Sennett, sociologo americano tra i più autorevoli nel campo «della teoria della socialità e del lavoro, dei legami sociali nei contesti urbani e degli effetti sull’individuo della convivenza nel mondo moderno urbanizzato» (così recita il suo profilo professionale), tradotto in italiano col titolo L’uomo flessibile (Feltrinelli), che però nell’edizione originale suonava, in modo ben più ficcante, come The corrosion of the character. La corrosione del carattere
, o più precisamente l’erosione della personalità (il termine character in inglese ha un significato più ampio del nostro, implica l’intero complesso di aspetti che fanno di noi quello che siamo nella relazione con noi stessi e con gli altri. Insomma, tutto ciò che ci rende, o non ci rende, attori sociali
nel senso pieno del termine. È un libro, aurorale, scritto nell’ultimo anno del secolo scorso, nel 1999, un periodo in cui la flessibilità
incominciava ad andare di moda, come requisito primario del nuovo paradigma produttivo, e come obbligo sociale
per garantire un modello di produzione e di accumulazione adeguato allo sviluppo tecnologico e alla logica del mercato, delle merci, certo, ma anche e soprattutto del lavoro. Erano i tempi – ricordate? – in cui l’apologetica della flessibilità imperversava trasversalmente nel dibattito politico ed economico, coniugata con la damnatio memoriae della vecchia
rigidità del lavoro praticata come forma di resistenza e di contropotere in contesto fordista. Un discorso ubiquo, fatto proprio da (quasi) tutti, trasversalmente, da Silvio Berlusconi a Walter Veltroni e Massimo D’Alema (non ho mai dimenticato la sua irrisione del mito del posto fisso
e la descrizione di quanto sia bello potersi immaginare non incatenati tutta la vita alla stessa identità lavorativa).
Sennett, da saggio qual era, smontava quest’immagine mitizzata e mitizzante, svelando la dimensione corrosiva
, appunto, di un simile modello. Il suo impatto sulla struttura dell’Io individuale e su quella della società nel suo complesso. Rivelava l’intrinseca crisi d’identità di intere generazioni costrette a condurre un’esistenza attanagliata dall’ansia, dal senso di incertezza della propria coscienza di sé, del proprio destino e del proprio futuro. Come capita appunto a chi si trova a vivere una vita in cui la linearità dello sviluppo è scomposta in una molteplicità di segmenti, brandelli di tempo privo di continuità e di accumulazione, ognuno segnato da un’attività sempre diversa e sempre dispersiva, incongruente con le aspettative e i processi formativi precedenti. E si poneva domande fondamentali, che uno stuolo di politici senza responsabilità e di economisti senza coscienza sociale sfuggivano colpevolmente: «Come è possibile perseguire obiettivi a lungo termine [la condizione per mantenere un qualche controllo sulla propria esistenza] in un’economia che ruota intorno al breve periodo? Come è possibile mantenere fedeltà e impegni reciproci all’interno di aziende che vengono continuamente fatte a pezzi e ristrutturate? In che modo possiamo decidere quale dei nostri tratti merita di essere conservato all’interno di una società impaziente, che si concentra