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Piacere Musica
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E-book399 pagine4 ore

Piacere Musica

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Se le musiche hanno tra i loro scopi quello di soddisfare il desiderio dell'altrove, molto spesso la forma che cercano viene a coincidere con vissuti di piacere che allentano il legame a volte troppo incombente con il quotidiano. 

Inseguire esperienze di bellezza significa tra l'altro cercare un certo tipo di piacere, quello gratuito del gioco delle forme, al di là o al di qua di qualsivoglia utilità o bontà.È anche per questa ragione che parliamo di forme felici, cioè di tutte quelle produzioni musicali che, più di altre, hanno insita la dote di rendere più facili e accoglienti la partecipazione, il coinvolgimento, il contenimento di ascoltatori e musicisti.

Si promuove quindi un sentire con corpo e mente, cuore e pelle, godendo al tempo stesso di visioni inattese e di paesaggi familiari, di stupori e spaesamenti legati all'imprevedibile, accanto alle gioie del ritrovare il già noto: è lo sguardo meravigliato, stupito e appassionato sul mondo che riproduce lo stesso stato d'animo tipico dei bambini.

Piacere Musica attiva questo sguardo di meraviglia sul mondo dei suoni, delle esperienze musicali, proponendo riflessioni sia in ambito musicologico che pedagogico, per giungere ad offrire, in stretta sintonia con le considerazioni teoriche, un vastissimo e sorprendente percorso di attività musicali (suonare, cantare, recitare, drammatizzare, improvvisare, comporre e ascoltare) che vogliono dimostrare l'umano saper essere in musica finalizzato alla esaltazione del piacere, della bellezza, delle azioni felici con i suoni. Ed è anche per questo interessante rapporto fra sapere e saper fare che Piacere Musica è in grado di rendersi molto utile tanto agli educatori musicali della scuola primaria e secondaria quanto agli operatori e animatori che, nei diversi contesti socio-musicali, cercano attraverso i suoni e le musiche occasioni di incontro, di crescita, attività e considerazioni mirate alla ricerca del piacere e della bellezza che i suoni possono donare alla vita.

LinguaItaliano
Data di uscita7 set 2021
ISBN9791280213495
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    Piacere Musica - Maurizio Spaccazocchi

    PIACERE E BELLEZZA

    Il desiderio dell’altrove

    Partiamo da una domanda: perché l’uomo scrive, rappresenta, compone, inventa; perché guarda e ascolta ciò che altri hanno scritto o composto, perché immagina?¹

    Naturalmente le risposte possono essere molte: ne scegliamo e inseguiamo una soltanto.

    Potremmo dire che spesso si scrive, si rappresenta, si guarda e si ascolta, per dar forma a mondi diversi rispetto a quello che abitualmente viviamo, per andarci ad abitare, almeno per un po’ di tempo.

    L’immaginazione ci porta ad un livello altro di realtà, partendo da un’assenza, da un desiderio che trova la sua origine nel peso del vivere. È il desiderio dell’altrove: l’immaginazione come repertorio del potenziale, dell’ipotetico, di ciò che non è ma che potrebbe essere; il pensiero visionario che esplora territori ignoti, percorsi inediti, mondi possibili, scenari fantastici. Tutto questo dà forma a quel piacere del bello che non serve certamente a nulla se non ad aiutare gli uomini a vincere il disagio esistenziale.²

    La scienza è conoscenza della realtà, l’arte è conoscenza di un altro universo, più o meno separato dal vivere quotidiano: l’arte ci conduce in mondi possibili, che guardano al reale attraverso la lente dell’immaginazione; il pensiero poetico trasfigura il reale, rompe il banale, lo sposta, lo provoca attraverso uno sguardo spaesante, ricerca isole, anfratti, angoli stra-ordinari.

    Ambedue, l’arte e la scienza, traggono forza dallo stupore e dalla meraviglia, che spingono sia ad immaginare che a scoprire.

    Sono passaggi, luoghi segreti, attraverso i quali avventurarsi, nascondersi, o che semplicemente ci invitano a un’attenzione particolare, a guardare più da vicino, come con una lente d’ingrandimento che ci regala di una cosa familiare un’immagine mai vista, una visione inattesa:

    L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.³

    L’inferno di Calvino può essere sostituito da un’idea più leggera: la banalità, il consumo superficiale, la ripetitività che non accende la nostra vita, che la rende ovattata, priva di scosse, noiosa. E allora cerchiamo di creare occasioni in cui questo vivere banale venga trasfigurato e si accenda, cerchiamo scintille per accendere piccoli fuochi, e cerchiamo di farli durare per un po’ di tempo. In questo senso già il Surrealismo propone un’idea di arte che non insegue primariamente l’ammirazione per i propri oggetti ma che cerca invece di promuovere nuovi modi di guardare il mondo, semplicemente esemplificati attraverso le sue opere. In questo sta il compito sociale e politico dell’artista:⁴ cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo al banale, non è banale, e farlo durare, e dargli spazio. È rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui.⁵

    Ciò significa inseguire vissuti di piacere, prendendo a prestito per questo concetto una definizione ampia come quella suggeritaci da Pierre-Luois Moreau de Maupertuis:

    Chiamo piacere ogni percezione che la nostra anima desidera provare piuttosto che non provare. Chiamo dolore ogni percezione che essa ama non provare piuttosto che provare.

    Ogni percezione nella quale l’anima vorrebbe permanere, e di cui non desidera l’assenza, durante la quale non vorrebbe né passare ad un'altra né dormire, è un piacere. La durata di tale percezione è ciò che chiamiamo momento felice.

    Inseguire l’esperienza della bellezza significa cercare un certo tipo di piacere. Quando parliamo di Bellezza ci riferiamo infatti a qualcosa che ci dà piacere e che quindi godiamo per quello che è, al di là – o al di qua – di qualsiasi utilità e bontà: sono belle le cose che ci procurano piacere nel guardarle, nell’ascoltarle, nel toccarle, nell’annusarle, che ci attraggono, che appagano i nostri sensi e la nostra mente. In questo senso bello è diverso da buono e da utile:

    In diverse epoche storiche si è posto uno stretto legame tra il Bello e il Buono.

    Se però giudichiamo in base alla nostra esperienza quotidiana, noi tendiamo a definire come buono ciò che non solo ci piace, ma che anche vorremmo avere per noi […]: noi desidereremmo possedere quel bene. È un bene ciò che stimola il nostro desiderio. Anche quando giudichiamo buona un’azione virtuosa vorremmo averla compiuta noi […].

    […] Oppure chiamiamo buono qualcosa che è conforme a qualche principio ideale, ma che costa dolore, come la morte gloriosa di un eroe […]. In questi casi riconosciamo che la cosa è buona ma […] non vorremmo essere coinvolti in un’esperienza analoga.

    […] Se riflettiamo sull’atteggiamento di distacco che ci permette di definire come bello un bene che non suscita il nostro desiderio, comprendiamo che noi parliamo di Bellezza quando godiamo qualcosa per quello che è, indipendentemente dal fatto che lo possediamo.

    […] È bello qualcosa che se fosse nostro ci rallegrerebbe, ma che rimane tale anche se appartiene a qualcun altro.

    Per Isidoro di Siviglia, nel corpo umano alcune cose sono finalizzate all’utilità, altre al decus, ovvero all’ornamento, al bello e al piacevole. Per autori posteriori, come per esempio Tommaso d’Aquino, una cosa è bella anche in quanto adeguata alle proprie funzioni, nel senso che […] un oggetto che non sappia svolgere correttamente la funzione per cui è stato pensato (come ad esempio un martello di cristallo) è da considerarsi brutto anche se prodotto con materiale pregiato. Ma accettiamo da Isidoro la distinzione (di origine tradizionale) tra utile e bello: come l’ornamentazione delle facciate aggiunge Bellezza agli edifici e l’ornato retorico aggiunge Bellezza ai discorsi, così il corpo umano appare bello a causa di ornamenti naturali (l’ombelico, le gengive, le sopracciglia, i seni) e artificiali (le vesti e i gioielli).

    Possono essere parole, musiche o immagini, o anche un luogo, un oggetto, un profumo: si tratta di rubarli a uno sguardo distratto, o puramente scolastico, accademico, restituendo e recuperando invece l’esperienza dell’emozione, dello stupore, della meraviglia. Qui sta il cuore di ogni esperienza culturale: è un capire che si fonda su un sentire che riguarda il corpo e la mente, inscindibilmente, turbamenti del cuore e della pelle, modifiche del senso dello spazio e del tempo, spaesamenti, perdite, mancamenti, e gioie nel ritrovare ciò che ci è noto e familiare.

    Musica e gioco

    Un pensiero che non abbia a che fare con il gioco sarà di certo un pensiero mancato.⁹ Il gioco ha in comune con l’arte la funzione di interrompere il quotidiano; entrambi hanno a che fare con un cambiamento di scena, uno scollamento dalla realtà, che corrisponde ad un’alterazione fisica globale, che coinvolge corpo e mente. Entrambe si pongono come esperienze di presa di distanza, mostrano la via per mettere tra virgolette la realtà. Sia nell’arte che nel gioco il legame con il quotidiano si allenta, si alleggerisce.¹⁰

    Nel gioco è necessario che questo scarto, questa interruzione sia anche piacevole. L’arte ci propone un piacere particolare, legato alla bellezza delle forme, dei linguaggi.

    Se il gioco è un’arte, l’arte è un tipo particolare di gioco, un gioco di forme; la musica è un gioco da bambini ci ha insegnato Delalande:¹¹ il suo scopo è infatti generare piacere a partire dal suono, intrecciando il gioco sensoriale e motorio, il gioco simbolico e il gioco di regole.

    È davvero difficile trovare una pratica musicale che non possa essere ri-collegata a condotte che i bambini di tutto il mondo attivano sulla base delle loro variegate pratiche ludiche; non si può dimenticare, d’altra parte, che in molte lingue le pratiche del ludico e del musicale vengono condensate in un unico termine.

    Se lo stupore¹² è uno stato d’animo tipico del bambino, che permette di assumere la postura della meraviglia, della sorpresa, dell’ammirata piacevolezza nei confronti delle cose del mondo, la musica come atto di piacere può non pensare di accendere una percezione dei suoni anche come sostanza stupefacente?

    Se le prese del mondo da parte dei bambini con le mani, gli occhi, il naso, la bocca, le orecchie, risultano essere chiare tattiche di piacevole com-prensione del mondo, di compiaciuta azione epistemofilica, basata su vere e proprie articolazioni e degust-azioni, la musica, come azione provocatrice di sensi, sinestesie e cinestesie, può trascurare la sua ampia e piacevole ricchezza di articolazioni, di sens-azioni, come pure di con-sensi e di con-sensualità?

    Gli stili relazionali bambini che nascono sulla base di tattiche occasionali e contestuali, sembrano, più di altri, indurre verso dinamiche socializzanti giocose, spontanee, informali e decondizionate. E la musica, essendo una pratica di strutture sonore, come può non prendere in considerazione l’esistenza di forme felici che di fatto hanno, più di altre, la dote di rendere più facili e accoglienti la partecipazione e il coinvolgimento dei singoli, siano essi ascoltatori o musicisti?

    Estetica: una pratica della sensibilità

    Ogni esperienza legata alle dimensioni dell’immaginario, del fantastico, del poetico, del gioco e dell’estetico è quindi un cambiamento di mondo, che ci trascina oltre il quotidiano, verso un qualche tipo di trascendenza.

    Questo tipo di esperienza, pensata all’interno del rapporto fruitore-opera, precede la decifrazione, lo sguardo analitico e filologico. Non risponde in prima istanza alla domanda ‘che cosa significa questo?’ ma è animata dall’accorgersi che ‘c’è qualcosa che ci appassiona’, che ‘c’è la possibilità di fare un viaggio insieme’, capace di regalarci il piacere dell’interpretazione:

    Il coraggio di girovagare intorno ai propri luoghi di verità, qualunque siano, simboli enigmatici o spezzoni della propria storia, canzonette insensate o cantilene senza significato, ma accese di qualcosa di decisivo di sé. […]

    Mettersi in ascolto, significa abbandonarsi al canto delle cose, ritrovarci l’eco di qualcosa di irripetibile di sé e di importante per qualcun altro, ma che non è sicuro che si riesca a dire. […] Non spegnere le cose nei loro nomi o nei loro significati, ma lasciarle cantare, maturare un orecchio per ascoltarne il canto e criteri irripetibili per goderne la felicità. Somiglia più alla passione del dilettante che al metodo dell’università.¹³

    Qui intravediamo, tra l’altro, una possibile distinzione tra oggetti di consumo e oggetti d’arte, e, per quanto più ci compete, tra musiche colte e di consumo: non si tratterebbe tanto di repertori o di generi, quanto di atteggiamenti e approcci, di esperienze appunto. La disponibilità di un’opera e di un ascoltatore a dialogare, a moltiplicare e reinventare sensi e significati, ad ascoltare molte più cose di quelle effettivamente dette, conduce oltre lo status di semplice prodotto di consumo, verso un tipo di rapporto che forse non è giusto definire colto, quanto creativo, o in altra direzione, critico.¹⁴

    A partire da Marcel Duchamp e i suoi ready made abbiamo capito che l’artista non è il solo a compiere l’atto della creazione poetica, ma coinvolge anche l’osservatore e il suo sguardo, il suo punto di vista. Quindi l’arte è un fenomeno squisitamente sociale, una proprietà del pensiero, un modo di guardare il mondo. Inseguire esperienze di bellezza significa tenere desta e se possibile aumentare la nostra sensibilità; risvegliare le nostre risposte emozionali al bello e al brutto. Significa cercare oggetti che ci consentono di farlo. Questo succede quando incontriamo nelle cose qualcosa che ci assomiglia, spesso all’interno di un pensiero analogico, evocativo, allusivo. Accade – o non accade – in tutti i generi musicali. Questo ci sembra un buon motivo per non classificarli in base ad una gerarchia d’importanza.¹⁵ Una stessa musica può favorire uno sguardo contemplativo, interessato (esclusivamente o anche) alle sue forme, e allo stesso tempo può, fruita da un altro ascoltatore – o anche dallo stesso in una diversa occasione – rispondere a richieste di utilità, per essere utilizzata con scopi esterni ad essa (socializzare, ricordare, incontrare, ecc…).

    In questa direzione molti autori propongono di recuperare il significato etimologico del termine estetica (aesthesis), come un modo di conoscere attraverso i sensi: non tanto quindi un sapere storico-artistico quanto una teoria e una pratica della sensibilità, così come – ci fa osservare Galimberti – noi oggi chiamiamo ‘anestetico’ non un farmaco poco bello, ma un farmaco che riduce la sensibilità.¹⁶

    Estetica: un’esperienza polisensoriale

    Muoversi in questa prospettiva significa preferire un pensiero che non si ferma al logico e al razionale ma che tenta di connettere queste dimensioni con l’immaginazione: un pensiero che unisce, che si basa quindi sull’ et…et, piuttosto che sul out…out, secondo una logica che negozia sia con la ragione dei sentimenti che con i sentimenti della ragione.¹⁷

    Accanto al modello tradizionale dell’occidente che vede l’esperienza estetica basata sul vedere-udire, sulla distanza dell’osservatore dall’oggetto, sul logos, sulla decifrazione, sulla comprensione, crediamo utile valorizzare un modello legato alla partecipazione sinestesica e cinestesica, alle dimensioni del gustare, dell’assaporare, ai piaceri del corpo e del cuore, come ben spiega Marco De Marinis:

    Esistono un paese e una cultura in cui questo modello alternativo di fruizione ha conosciuto una teorizzazione mirabilmente precisa e affascinante: è – l’anticipavo poc’anzi – l’India antica, e più precisamente il teatro indiano classico, nel cui celebre trattato Natya-Sastra campeggiano due nozioni, bhava, ‘emozione’, e rasa, ‘sapore’, e viene delineata una visione del teatro come un’arte che permette allo spettatore di assaporare le emozioni, di gustarle quasi alla stregua di cibi (e insieme ad essi). Schechner gli dà qui il nome di ‘teatro rasico’. […] Saremmo tentati di leggere la distanza fra questi due modelli di esperienza estetica, e in particolare performativa, all’interno dell’opposizione mente/corpo, ovvero cervello/viscere: quasi che quello rasico fosse un teatro ‘senza testa’, un po’ come quel teatro gastronomico (o culinario) contro il quale tuonò a suo tempo Brecht. Ma si tratterebbe di un errore: questo teatro, come ogni altro tipo di esperienza estetica polisensoriale e cinestetica, è sì viscerale ma non per questo ‘scervellato’.

    Infatti, come la neurobiologia ha definitivamente accertato, l’uomo possiede un vero e proprio cervello anche nella pancia, chiamato ‘secondo cervello’, ‘cervello addominale’ o ‘sistema nervoso enterico’: esso è costituito da 100 milioni di neuroni, più di quanti ne abbia il midollo spinale, che lo mettono in condizione di operare autonomamente dal cervello ‘della testa’, anche se gli è collegato mediante il nervo vago, e di inviargli molte più informazioni di quante non ne riceva. Il secondo cervello, al pari del primo, produce sostanze psicoattive, capaci di influenzare gli stati d’animo, come la serotonina, la dopamina, ma anche oppiacei antidolorifici e persino sostanze calmanti come il valium; aiuta a fissare i ricordi connessi alle emozioni, può ammalarsi, soffrire di stress e nevrosi; prova sensazioni, pensa e ricorda.

    Ma allora, se le cose stanno così, l’opposizione modello greco (occidentale) vs modello asiatico non ricalca quella mente/corpo, o cervello/viscere, ma appunto l’opposizione primo cervello/secondo cervello.¹⁸

    In questa prospettiva ogni esperienza estetica è prima di tutto un atto percettivo, che ha a che fare con la sfera della sensorialità e che è attraversato da vissuti di piacere/dispiacere.

    Ci piace e ci convince questa direzione, soprattutto se pensata in un contesto pedagogico. Conoscere attraverso il corpo-mente, i sensi, annusare il mondo, ascoltare il corporeo dei nostri pensieri, i pensieri e i piaceri del cuore, le passioni. Imparare a meravigliarci, ad emozionarci, a stupirci, a ritrovare l’anima delle cose. Inseguire un rapporto con l’arte (e con il mondo) caratterizzato da una partecipazione attiva alla costruzione di sensi e significati.

    Al contrario ci sembra che spesso all’interno del pensiero scolastico – ma non solo – ci si riferisca per lo più ad un’idea di bellezza come a un valore oggettivo, assoluto, in base al quale è bello qualcosa che è fatto in un certo modo, che appartiene ad un certo corpus, per le qualità che ha di per sé, spesso definite indiscutibili, e non perché capace di instaurare un dialogo con noi e tra di noi, con e tra le nostre emozioni. Questa direzione non conduce verso un’educazione alla ricerca e alla costruzione di esperienze di bellezza ma alla creazione di percorsi didattici unicamente dedicati al riconoscimento del bello:

    Come fa il sommelier con il vino: ne prende un sorso in bocca, ne riconosce il nome, l’annata, la qualità, e poi lo sputa. A vedere la scena non si capisce se gli piace davvero o no, e non si deve capire, perché l’intenditore sa quali sono le caratteristiche obiettive della qualità, e si limita a rivelarne la eventuale presenza, come farebbe una cartina di tornasole a contatto di determinate componenti chimiche.¹⁹

    Più che sul concetto di giudizio estetico poniamo qui l’accento sull’idea di esperienza estetica. Mentre il primo comporta normalmente un’azione di confronto tra un oggetto artistico e un modello dato di bellezza, parlare di esperienza estetica significa invece guardare al vissuto, al rapporto dialettico che viene a crearsi tra un soggetto e un’opera, ai processi di costruzione attiva e di confronto di sensi e significati, in un gioco continuo tra quiete ed irrequietezza del senso.²⁰

    Se l’esperienza estetica è quindi esperienza dell’anima, ci piace utilizzare il termine animazione riferendoci a una pratica della sensibilità, che mira ad individuare la luce improvvisa che accende una cosa, un oggetto, un paesaggio, una musica; scintille dell’anima, che inseguono la sensualità delle cose, la loro disponibilità a trasformarsi in oggetti dell’interpretazione, a cui si accompagna certo – e probabilmente segue – anche un piacere più riflessivo, più analitico, più mediato.

    Sul valore estetico

    Emergono a questo punto due concetti, concatenati fra di loro, con cui fare i conti. Da una parte il rischio di teorizzare un concetto di bellezza del tutto soggettivo: "non è bello ciò che è bello, è bello ciò che piace", che porterebbe a relativizzare completamente l’idea di valore, identificandolo con il gusto personale, in balìa quindi di confronti unicamente basati su motivazioni conflittuali, senza alcuna possibilità di indicare una via più conveniente di altre. Una posizione che, saltando a piè pari il nodo della valutazione, potremmo definire appunto soggettivistica, riferendoci alla nota posizione di Hume che ovviamente non ci pare essere pedagogicamente e politicamente condivisibile:

    La bellezza non è una qualità delle cose stesse: essa esiste soltanto nella mente che le contempla e ogni mente percepisce una diversa Bellezza. Può anche esserci qualcuno che percepisce una Bruttezza dove un altro prova un senso di Bellezza; e ognuno dovrebbe appagarsi del suo sentimento senza pretendere di regolare quello degli altri. Cercare la reale Bellezza o la Bruttezza reale è una ricerca infruttuosa quanto pretendere di stabilire quel che è realmente dolce o amaro; ed è ben giusto il proverbio che ha riconosciuto l’inutilità della disputa intorno ai gusti. È del tutto naturale e perfino necessario estendere questo assioma al gusto mentale oltre che al gusto corporeo; e così il senso comune, che così spesso si discosta dalla filosofia, e specialmente dalla filosofia scettica, si accorda, almeno in un caso, con essa nel pronunciare lo stesso verdetto.²¹

    In verità non esiste vissuto di bellezza che non nasca dall’influenza di qualcuno o di qualcosa, e che non si porti dietro il desiderio impellente di essere condiviso, scambiato, confrontato.

    Parlare allora di valore estetico – e di valore tout court – in rapporto al concetto di esperienza prima descritto, significa fare riferimento alla capacità di aumentare, affinare, rendere più intensa questa stessa esperienza.

    Potremmo dire, come ci indicano Bertolini e Dallari, che un oggetto è tanto più valido esteticamente quanto più è capace di promuovere:

    Percorsi verso la novità, l’originalità, l’apertura dei pensieri, contro la ripetitività, la routine, la banalità;

    L’appropriazione attiva da parte dei fruitori, sia pratica che teorica, contro una comunicazione che stimola una ricezione passiva;

    Emozioni e stupore, capaci di costituire punti di partenza verso nuovi equilibri del pensiero, individuali e di gruppo, contro un uso banale e superficiale di semplici meccanismi di seduzione.²²

    Oppure, rileggendo e interpretando Middleton,²³ incontrando un oggetto e/o un’esperienza musicale ci si potrebbe porre una serie di domande di questo tipo:

    Quante posizioni, punti di vista, letture, interpretazioni favorisce una certa musica, una pratica, un’esperienza musicale? O, in altre parole, quanto dà da parlare?

    È capace di provocare shock, stupore, meraviglia, o invece tende a lasciarci in uno stato di quiete emozionale?

    Richiede in qualche modo la nostra partecipazione? Favorisce un’appropriazione creativa?

    Quanto è capace di connettersi ad altri universi di discorso, ad altre pratiche, ad altre esperienze, pensieri, contesti?

    Quali e quanti desideri è capace di attivare e di soddisfare?

    Middleton ci suggerisce che si debba attribuire un valore maggiore alla musica con il risultato globale maggiore, definibile quindi soltanto in un contesto specifico, in situazione, in riferimento ad un’effettiva e reale relazione tra un soggetto (o un gruppo di soggetti) e un oggetto/pratica musicale; quindi all’interno di un’esperienza localmente determinata.²⁴

    Sul giudizio estetico

    D’altro canto occorre non dimenticare che la categoria del giudizio estetico partecipa in ogni caso alla maggior parte dei discorsi quotidiani sul mondo, e in particolare sul mondo della comunicazione e dell’arte. Emerge quindi l’esigenza di una riflessione teorica e pedagogica anche da questo punto di vista.

    In questo senso ci sembra che la ricerca di bellezza sia confrontabile con la ricerca di conoscenza.²⁵

    Come non è possibile pervenire ad una conoscenza vera, oggettiva, assoluta, allo stesso modo non è possibile teorizzare una bellezza assoluta:

    Non vi è alcuna possibilità di stabilire una verità oggettiva […]. Possiamo riconoscere alcune ‘verità’ umane condivise, non perché ‘oggettive’, ma perché basate sulle comuni esperienze che accadono agli esseri umani. Inoltre, tali ‘verità’ non sono culturalmente neutre. In questo senso possiamo parlare di ‘verità’ intersoggettive presenti all’interno di una cultura.²⁶

    D’altra parte ci convincono le considerazioni di Aldo Stella riguardo al passo di Ceruti e Lo Verso, quando afferma che:

    Non nego quanto viene affermato in queste righe; aggiungo però che l’intenzione del conoscere è comunque una intentio veritatis, ossia un’intenzione volta a cogliere la verità oggettiva, ancorché questa […] permanga sempre ideale. […] È soltanto in virtù di questa intentio veritatis che la ricerca va avanti e non si accontenta di verità relative, tendendo invece idealmente a quella verità assoluta, a quel fondamento, a quel valore che, donando senso allo stesso progetto conoscitivo, configura l’esigito, mai l’esatto.²⁷

    Il riconoscimento della bellezza – e il giudizio che l’accompagna – si fonda quindi sull’esigenza di verità, esigenza per altro mai soddisfatta.

    Fondamentale è quindi essere coscienti sia dell’intentio veritatis che anima ogni nostro giudizio estetico, che del suo status puramente ideale, utopico.

    E qui ancora Aldo Stella ci suggerisce la via che all’interno di una relazione educativa rende possibile relativizzare ciò che normalmente tende a presentarsi come assoluto in ogni giudizio estetico (e in ogni gesto conoscitivo). La via – e il valore fondante di ogni relazione educativa – sta nel dialogo, grazie al quale ognuno di noi, docente o discente impara a usare l’opinione dell’altro per riconoscere il limite intrinseco alla propria e così cresce, allarga i propri orizzonti, si emancipa da sistemi angusti, si rafforza, perché riesce ad individuare fondamenti sempre più autentici su cui far poggiare la propria identità.²⁸

    Pedagogia e politica della bellezza

    L’idea di bellezza non riguarda solo

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