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Religioni, potere e biopotere: Un legame indissolubile ed eterno
Religioni, potere e biopotere: Un legame indissolubile ed eterno
Religioni, potere e biopotere: Un legame indissolubile ed eterno
E-book275 pagine4 ore

Religioni, potere e biopotere: Un legame indissolubile ed eterno

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Info su questo ebook

Il pensiero del grande filosofo francese Michel Foucault, a
partire dagli anni Settanta del secolo scorso, si caratterizza
per la ricerca su quella che egli stesso definisce
"Microfisica del potere" dove il potere stesso viene
concepito come un insieme pluralizzato di relazioni fra gli
uomini. In queste relazioni, fondamentale è la perpetua
articolazione del potere sul sapere e del sapere sul potere:
"Non è possibile che il potere si eserciti senza sapere e non
è possibile che il sapere non generi potere".
Da questo assunto deriva l'argomento di questo lavoro che
intende dimostrare come esista e sia sempre esistito un
legame congenito, indissolubile ed eterno tra le Religioni
ed il Potere, potere basato sul sapere "il Sacro", ed ancor
meglio identificato come Biopotere. Potere quindi
concernente non solo l'ambito della politica, ma altresì i
sentimenti, i pensieri ed i corpi degli uomini, "tutti i
processi che sono specifici della vita, come la nascita, la
morte, la sessualità, la procreazione, la malattia".
Attraverso un percorso storico e geografico che concerne
tutte le Religioni del passato e del presente, il libro
evidenzia come tale potere sia stato esercitato nel corso dei
millenni, su infinite comunità umane attraverso l'opera
degli "operatori sacrali", dei sacerdoti specializzati "nel
sapere il Sacro" e quindi autoproclamatisi interpreti
autentici della Divinità, della sua Verità e dei suoi precetti e
comandamenti.
LinguaItaliano
EditoreIl Prato
Data di uscita14 gen 2014
ISBN9788863362312
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    Anteprima del libro

    Religioni, potere e biopotere - Arturo Gortenuti

    Cenni sul problema del potere nella sua globalità

    Imponente è la letteratura sul problema del potere: sarebbe impossibile forse, e per me comunque certamente, tentare una sintesi, anche approssimativa, di tutto quanto è stato scritto sull’argomento.

    Pensiamo però sia utile fissare, sia pure schematicamente, i concetti e le distinzioni fondamentali cui si è giunti, anzitutto con riguardo al problema del potere nella sua globalità, per poi tentare di calarci nell’analisi di quelle forme che Michel Foucault chiama Micropotere, Biopotere e Biopolitica.

    Il potere viene definito dal Devoto/Oli Quanto è consentito dalla volontà o dalla disponibilità del soggetto. Nel suo significato più generale, la parola Potere designa la capacità di operare o di produrre effetti; e può essere riferita sia ad individui o gruppi umani, sia ad oggetti o fenomeni della natura.

    Inteso specificatamente in senso filosofico e sociale il concetto di potere si precisa, e diventa, da generica capacità di operare, capacità dell’uomo di determinare le concezioni, le idee, le credenze e la condotta di se stesso o di un altro uomo, o di altri uomini: potere dell’uomo sull’uomo.

    Quindi l’uomo non è solo il soggetto, ma anche l’oggetto del potere.

    Un’altra definizione infatti individua nel potere il possesso, da parte di un soggetto, individuale o collettivo, delle capacità di raggiungere i propri fini in una sfera specifica della vita sociale nonostante la volontà contraria di altri.

    Abbiamo detto che, come fenomeno sociale il potere è dunque un rapporto fra uomini: non basta però determinare la persona, o il gruppo, che lo detiene, o le persone, o il gruppo, che vi è sottoposto: occorre anche determinare la sfera di vita, o di attività, alla quale si riferisce, ossia precisamente la sfera del potere. La stessa persona, o lo stesso gruppo, può essere sottoposta a più tipi di potere, relativi a diversi campi.

    È chiaro che la sfera del potere può essere più o meno ampia o più o meno determinata: il potere dello Stato, del Governo, riguarda la vita sociale nel suo complesso, il potere del genitore riguarda l’educazione dei figli, il potere del medico riguarda la salute del paziente, quello dell’insegnante riguarda principalmente l’apprendimento del sapere da parte dell’allievo, il datore di lavoro determina la condotta del subordinato soprattutto nella sfera tecnica ed in quella professionale, e così via.

    E il potere del sacerdote? Come vedremo più chiaramente e dettagliatamente in seguito, il potere del sacerdote concerne la sfera del Sacro, e deriva specificatamente dal suo sapere il Sacro.

    Etimologicamente, la parola Sacerdote è composta dal latino Sacer (sacro) e da un derivato della radice indoeuropea DHE che significa Fare: è quindi colui che amministra le cose sacre che fa il sacro. Il Sacro così come lo definisce il grande teologo R. Otto (il suo libro Il Sacro è del 1917) è il Numinoso, il totalmente altro, mistero fascinoso e tremendo al tempo stesso.

    Quindi il Sacerdote può definirsi un operatore sacrale specializzato, in possesso di una sapienza del sacro, e, di conseguenza, autorizzato e delegato dalla comunità all’espletamento del servizio divino, mediante il quale la comunità stessa è messa in rapporto con la Divinità, con il Sacro.

    Il Sacro, come è ben noto, è stato sempre elemento determinante delle credenze e dei comportamenti umani e, di conseguenza, inestinguibile e incommensurabile espressione e fonte di Potere.

    Non è quindi strano che, storicamente, l’istituto sacerdotale sia geneticamente in concorrenza con l’istituto regale. Esso trae le sue origini storiche in ambiente mesopotamico, dove il sacerdote esplicava la mediazione tra umano e divino presentandosi in un duplice aspetto: è il servo e l’interprete del Dio venerato in un tempio, ed è, al tempo stesso, il capo della comunità collegata a quel tempio: la città templare. Con l’avvento dell’istituto regale, i due aspetti si scindono e si polarizzano in due figure distinte: il Sacerdote e il Re, ma il rapporto genetico tra sacerdozio e regalità lascerà tracce sugli sviluppi storici di entrambi gli istituti.

    Ecco che qui comunque va puntualizzata una prima importante osservazione e distinzione: il potere fondato su uno specifico sapere, e quindi su una particolare competenza, è confinato, in linea di massima, entro il campo della competenza medesima, e può essere assunto, a grandi linee, nella categoria del micropotere o del cosiddetto potere tecnico.

    Il potere politico, il potere dello Stato, riguarda invece una sfera molto ampia, che difficilmente può essere precisata e definita, e che tende, in ultima analisi, ad essere illimitata.

    Si potrebbe osservare, a questo proposito che anche il potere delle religioni e dei loro ministri e sacerdoti, in quanto sapienti o competenti del Sacro, tende in buona sostanza ad essere illimitato, (sia pure in modo diverso), dal momento che il Sacro, come abbiamo già detto, ha da sempre condizionato e determinato le credenze e le azioni degli uomini.

    Nell’ambito di questo libro, non interessa tanto l’esame del potere politico, così come viene comunemente concepito. Riteniamo però ugualmente utile e doveroso soffermarci brevemente su tale categoria, che è chiaramente della massima importanza, tanto che nel parlare comune, si tende ad operare quasi una identificazione tra Potere e Potere politico: si parla infatti comunemente del Palazzo del potere o addirittura del Palazzo sic et simpliciter per significare il luogo dove si concentra il potere politico.

    In ogni discussione di filosofia politica, il concetto di Potere è considerato un vero e proprio capo delle tempeste e costituisce, in effetti, la categoria fondamentale di ogni società politica. Si può affermare che Potere è la qualificazione essenziale dell’egemonia, del dominio, riferita all’insieme dei rapporti secondo cui si articola l’organizzazione sociale e politica. Il Potere è il punto centrale del vivere in società ed è la prospettiva essenziale dell’azione dei soggetti che operano in ambito politico.

    In effetti, se è vero che quello del potere è uno dei fenomeni più pervasivi della vita sociale, per cui si può dire che non esiste rapporto sociale nel quale non sia presente, in qualche misura, l’influenza volontaria di un individuo, o di un gruppo, sulla condotta di un altro individuo, o gruppo, è pur vero tuttavia che il campo nel quale il Potere acquista il ruolo più cruciale è quello della politica.

    Infatti, è in rapporto ai fenomeni politici che il Potere è stato analizzato e indagato con la maggiore ricchezza di metodi e risultati. Ciò è vero per la lunga tradizione della filosofia politica, ed è vero anche per le scienze sociali contemporanee, a partire dall’analisi classica che del potere fece Max Weber⁷.

    È noto che, per Weber le relazioni di potere non si basano solo su fondamenti materiali ed effettivi, ma anche, principalmente, su uno specifico fondamento di legittimità. Di questo potere legittimo Weber individuò tre tipi puri: il potere legale, il potere tradizionale e il potere carismatico.

    Il potere legale si fonda essenzialmente sulla legge, e cioè sull’accettazione della autorità legittima di un ordinamento statuito, che definisce espressamente il ruolo del detentore del potere che è, egli stesso, sottomesso alla legge. L’apparato tipico del potere legale è quello della burocrazia con il suo potere gerarchico.

    Il potere tradizionale si fonda invece sulla credenza del carattere sacro del potere medesimo, esistente da sempre; la fonte del potere è quindi la tradizione che definisce anche le modalità e i contenuti del potere medesimo.

    Il potere carismatico infine, si fonda sostanzialmente sulla dedizione affettiva alla persona del capo, cui si riconoscono capacità eccezionali.

    Il sociologo Franco Ferrarotti sottolinea giustamente che l’importanza della teoria di M. Weber sta essenzialmente nel fatto che egli concepisce il potere sia come un rapporto interpersonale, sia come attributo di una collocazione o posizione oggettiva, giuridicamente o informalmente codificata⁸.

    Per Weber quindi il potere non trova il suo fondamento solo nell’abilità personale, ma dipende anche dalle caratteristiche oggettive del contesto, ossia della realtà sociale in cui quella abilità diventa operativa.

    Prendendo lo spunto dalle teorie weberiane, potremmo forse osservare che il potere delle religioni è basato e si regge contemporaneamente su tutti e tre i fondamenti di legittimità individuati dal sociologo tedesco: è infatti, allo stesso tempo, potere carismatico, tradizionale e legale. Nasce quasi sempre con il riconoscimento del carisma, spesso ritenuto addirittura soprannaturale di un Fondatore, sia esso Mosè, Cristo, Maometto, Bhudda o il Tenno, cui si attribuiscono virtù e capacità assolutamente eccezionali, e nei cui confronti si nutre dedizione totalizzante. Si fonda inoltre, questo potere, sul valore tradizionale, esistente da sempre, di un Sapere sacrale che può materializzarsi anche nelle Scritture come i Veda, i Mantra e i Mandala, la Bibbia o il Corano; e si perpetua infine con l’accettazione della autorità legittima di una istituzione, ossia di un ordinamento statuito, che definisce espressamente il ruolo dei detentori del sapere il Sacro.

    Dopo Weber, l’interesse degli studiosi per il Potere si è sempre più accentuato.

    In particolare, sul concetto di Potere ha puntato una delle principali correnti delle scienze politiche, il cui massimo rappresentante è Herold Laswall; questi si contrappose alle precedenti teorie giuridiche e filosofiche imperniate sul concetto di Stato, e concentrò l’analisi sullo studio del Potere come fenomeno empiricamente osservabile, nella sua opera principale – Power and personality, 1948 (trad. it. Potere, politica e personalità, 1955) –.

    Da una parte Laswall vide nel Potere l’elemento distintivo dell’aspetto politico della società, dall’altra, utilizzando concetti psicoanalitici di origine freudiana, esaminò i rapporti intercorrenti tra Potere e personalità, e individuò la personalità politica in quella orientata prevalentemente verso la ricerca del potere.

    Diversi autori, tra cui Marcuse, Fromm, Foucault ed altri hanno sottolineato, in modo particolarmente, l’effettività del potere, individuando in tale effettività la caratteristica essenziale e sufficiente.

    Per tali autori, ogni teoria metafisica del Potere, ed in particolare, ogni concezione del potere che assuma tonalità sacrali, non è altro che una mera esaltazione dello stato di fatto, della figura cioè che, nella realtà, il potere ha assunto.

    La forza messa in atto – si afferma nell’Enciclopedia Feltrinelli/Fisher – sotto la voce Potere vuole rappresentarsi, giustificarsi, legittimarsi, nel momento stesso in cui viene in atto.

    Il concetto weberiano di potere come uso (monopolio per quanto riguarda lo Stato) della forza fisica legittima, sembra costituire la più chiara stipulazione degli elementi della definizione. Da un lato la forza, dall’altro la sua giustificazione effettiva: da un lato l’esercizio della forza, dall’altra, l’organizzazione di un consenso, attivo o passivo, comunque funzionale: da un lato quindi, il potere come esercizio, dall’altro la convinzione della sua legittimità, e quindi il supporto di una vigenza reale"⁹.

    Gli autori di un volume pubblicato nel 1985, curato da Giorgio Penzo (Il Potere, saggi di filosofia politica e sociale, Città Nuova, Roma 1985) si trovano invece concordi nel sottolineare che il fondamento del potere non può essere confuso con il suo puro uso. Lo stesso Penzo, esaminando nel suo saggio l’opera di Jaspers, afferma che Il problema dell’autorità si chiarisce, in Jaspers, sotto l’aspetto del rapporto tra potere (Macht) e violenza (Gewelt). Questo rapporto denota un equilibrio dialettico tra i due momenti. Ciò significa che solo là dove il Potere non decade a violenza si può parlare di autorità a livello di autenticità, mentre se il potere decade a violenza si può parlare di autorità a livello di inautenticità. L’equilibrio dialettico dell’autorità è raggiunto solo quando l’autorità è aperta alla trascendenza: di qui il rapporto intrinseco tra autorità e trascendenza. Questo implica, a sua volta, da una parte il rapporto intrinseco tra autorità e verità, dato che la dimensione della verità si trova in quella della trascendenza, e, dall’altra il rapporto intrinseco tra autorità e comunicazione¹⁰. Nello stesso volume Antimo Negri¹¹, rifacendosi ad una analisi di Elias Canneti¹², afferma che l’esercizio del potere, nella sua attuazione, non si può spiegare indipendentemente da un uomo che lo esercita e da un uomo su cui si esercita: come verbo, potere rinvia necessariamente ad un soggetto ed a un complemento oggetto, e l’oggetto è l’uomo, qualsiasi uomo su cui si eserciti , in concreto, il potere di un altro uomo.

    Citando l’esempio del gatto col topo, Antimo Negri sostiene che anche nella vita quotidiana, attraverso la quale si realizza la società civile, ci sono gatti e topi, uomini gatto e uomini topo, ovverossia uomini soggetto e uomini oggetto, uomini che realmente e concretamente hanno il potere,e uomini che subiscono il potere.

    Meno condivisibile a noi sembra la sua ulteriore analisi per cui chi accetta e subisce il potere di un altro uomo non può essere un uomo soggetto; infatti, non è sempre vero che l’uomo oggetto cade necessariamente e passivamente in potere dell’uomo soggetto, così come si configura il rapporto tra il topo e il gatto. Rientra invece nella normalità dell’interagire umano il fatto che spesso un uomo sia in grado di scegliere volontariamente, e di dare, o non dare, il proprio assenso, la propria accettazione, al potere di un altro uomo.

    Tipici possono essere gli esempi di chi cerca attivamente, decide, sceglie di sottoporsi ad una serie di esami clinici, e quindi cerca ed accetta, liberamente e volontariamente di sottomettersi al potere di una istituzione sanitaria in generale, o di un singolo medico in particolare; oppure di chi, nei tempi antichi, si sottoponeva al potere del retore o del sofista per imparare l’eloquenza, o, nei tempi moderni, al potere di una qualsiasi istituzione scolastica superiore, o di un maestro in qualsivoglia campo del sapere.

    A sostegno di questa tesi possiamo anche citare il sociologo Heinrich Popitz che, nel suo saggio sulla fenomenologia del potere¹³ afferma che, già negli anni venti del secolo scorso Alfred Vierkand propose una distinzione fondamentale, e cioè la distinzione tra la disponibilità ad accettare un comando per paura e la disponibilità di accettarlo invece per libera inclinazione. Fondamento di questa seconda ipotesi, e cioè l’accettazione di un comando, di un potere, per libera inclinazione, è la consapevolezza ed il riconoscimento di una superiorità di valore.

    Anche Horkeimer distingue tra relazioni autoritarie e relazioni autorevoli e caratterizza le relazioni autorevoli come dipendenza consentita. In pratica, quando un uomo attribuisce volontariamente ad un altro uomo, o ad un’istituzione qualsiasi, un’autorità su se stesso, vuol dire che riconosce a quest’uomo o a questa istituzione una superiorità. Il riconoscimento di questa superiorità può essere, evidentemente, anche parziale: ad esempio, una superiorità in un determinato campo, in una determinata capacità e, soprattutto, in linea di massima, nel sapere. Si riconosce e si accetta la superiorità, ed il potere, di chi sa di più, di chi si ritiene abbia migliori conoscenze, maggiore esperienza e una visione più approfondita e penetrante, in generale, o in uno specifico campo.

    Anche qui si potrebbe osservare che il potere delle religioni partecipa ad entrambe le ipotesi succitate. Infatti, non vè alcun dubbio che ogni fedele riconosce volontariamente alla propria religione, e di conseguenza ai suo sacerdoti e operatori sacrali, una superiorità di valore e di conoscenza, per cui possiamo parlare senz’altro con Horkeimer, di dipendenza consentita. È però altrettanto indubbio che una parte non trascurabile di questa dipendenza è determinata dalla paura, e in molti casi dal terrore, delle sanzioni terrene, ed ancor più ultraterrene, che ogni religione prospetta per il peccatore, per l’eretico, per l’apostata, per chi cioè non obbedisce, non segue i comandamenti, le regole fissate e prescritte dalla religione medesima.

    Non sono necessari molti esempi: basta pensare alle pene dell’Inferno, all’Inquisizione, o alle pene previste dal Diritto Islamico, o Sharia, che pretende di regolare i più vari aspetti della vita del singolo come della collettività, e che addirittura arriva ad autorizzare o prescrivere l’omicidio del trasgressore, in virtù della sua pretesa origine nella sapienza divina.

    Ragion per cui, a nostro modesto avviso, quando si parla di Religione possiamo correttamente parlare di relazioni autorevoli e autoritarie al tempo stesso.

    Un’altra osservazione che si può fare è riferita alla visibilità del soggetto che esercita il potere: infatti, mentre l’oggetto del potere è sempre necessario, definito e identificabile il soggetto può essere invece nascosto o impersonale: tutti sanno che si esercita un potere, che fa sentire il suo peso, la sua forza coattiva, ma non si riesce a capire, o non è chiaro, chi lo esercita.

    È pur vero che dall’antichità ai giorni nostri, il potente ha sempre avuto una sua vanità, che lo induce a manifestare il suo potere, e che, specie nei tempi moderni, l’apparire è già riconoscimento e legittimazione di potere; ma è anche vero che il potere spesso si nasconde, non è identificabile, pur permeando di sé ogni rapporto umano.

    Michel Foucault paragona, in una sua opera, il potere alla macchina Panopticon di Bentham: una serie di celle, ciascuna con un prigioniero, e su di esse una piccola torre dalla quale l’ispettore, simbolo del potere, può osservare, senza essere visto, ogni più piccolo gesto dei detenuti. Chiunque vede non è visto e chi è visto (l’oggetto del potere), non vede.

    Ci sovviene, chissà perché, il ricordo di un manifesto elettorale della D.C. nell’Italia del 1948 che recitava a caratteri cubitali: Nel segreto dell’urna Dio ti vede, Stalin no: Vota Democrazia Cristiana!. Più seriamente, è ben noto che, in tutte le Religioni, l’occhio di Dio è onnipresente: da Javè al Dio cristiano, da Allah a Brahama, nulla sfugge all’occhio del Dio che, ovviamente non è visibile per l’uomo.

    Scrive Foucault: Da qui deriva l’effetto principale della figura architettonica del Panopticon: indurre nel detenuto uno stato cosciente di visibilità, che assicura il funzionamento automatico del potere. Far sì che la sorveglianza sia permanente nei suoi effetti; che la perfezione del potere tenda a rendere inutile la continuità del suo esercizio ... Perciò Bentham pose il principio che il potere doveva essere visibile e inverificabile¹⁴.

    Da questi brevi cenni generali, è evidente, ed è del resto ben noto, che intrinseca, connessa ed essenziale al problema del potere è la questione della legittimità del potere stesso.

    Nel linguaggio ordinario, il termine legittimità ha due significati: uno generico e uno specifico. Nel significato generico, legittimità è sinonimo di giustizia, di ragionevolezza, per cui si parla di legittimità di una decisione, di un atteggiamento, e così via. Il significato specifico è invece proprio del linguaggio sociologico e politico e, quasi sempre, si riferisce al potere, ed in particolare allo Stato e al potere politico.

    Con riferimento al potere in generale, il significato specifico del termine legittimo può significare il titolo in base al quale si stabilisce un rapporto tra esercizio effettivo di un qualsiasi potere ed il consenso di chi tale potere subisce. Rammentiamo che Norberto Bobbio afferma che il potere legittimo è quello che chiede obbedienza in nome di un titolo di legittimità, la cui prova ultima è data soltanto dal fatto che l’obbedienza è spontaneamente ed effettivamente accordata¹⁵.

    Questo assunto riflette, in sostanza, la posizione che è stata sostenuta da quella corrente di pensiero che si richiama al positivismo giuridico, che tende a ridurre la legittimità a mera effettività. Ma ci sembra abbastanza fondata l’osservazione che, se è vero che l’effettività del potere può costituire una connotazione della sua legittimità, non ne esaurisce però il contenuto e la qualificazione. Consideriamo perciò più giusta la posizione di quanti sostengono, come Passerin d’Entrèves, che, perché si possa attribuire legittimità ad un potere, è necessario che all’effettività si aggiunga, come elemento qualificante, un consenso, attivo o passivo, una credenza relativamente ai valori su cui l’effettività del potere si regge, o, comunque, una mancanza di contestazione di detti valori¹⁶.

    In pratica, se determinati individui, o gruppi, percepiscono il fondamento ed i fini del potere come compatibili ed in armonia con il loro sistema di credenze, e, di conseguenza vi si adeguano, ecco che si può parlare di legittimazione. Abbiamo già parlato della celebre e fondamentale ripartizione di Max Weber, che attribuisce legittimità a tre forme di potere, legale, tradizionale e carismatico, il cui fondamento và ricercato, rispettivamente, nella credenza del valore della legge, della sacralità della tradizione e delle qualità eccezionali di un capo; ed abbiamo già osservato come il potere delle Religioni si basi, in sostanza, contemporaneamente su tutti e tre questi fondamenti di legittimità.

    Lo stesso Weber osserva anche che La disponibilità ad obbedire alla imposizione di un ordinamento da parte di singoli o di più individui, presuppone la credenza in un dominio legittimo¹⁷. Puntualizza inoltre che Ogni dominio cerca di suscitare e di coltivare la fede nella propria legittimità¹⁸, il che sta a significare giustamente, che il potere tende a determinare sempre, per quanto gli è possibile, il contenuto del consenso, il quale, di conseguenza, può essere più o meno libero, e più o meno forzato. Ogni principio di legittimità del potere, per affermarsi con efficacia,

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